lunedì 25 gennaio 2010

Salvatore Quasimodo e l'Ermetismo di Massimo Capuozzo

Salvatore Quasimodo[1] e l’Ermetismo[2]
Uomo del mio tempo
da Acque e terre (1947)

La Storia e il progresso, afferma Quasimodo, non sono riusciti a cambiare l’uomo.
Egli è ancora, sotto certi aspetti, quello primitivo, quello delle caverne: la stessa violenza irrazionale e assassina guida le sue azioni. Rispetto all’uomo primitivo ha solo inventato strumenti di distruzione e di sangue più efficienti, più efficaci, più sofisticati, più “intelligenti”. L’uomo di oggi persiste ancora nella sua follia. A chiusura del testo il poeta invita i giovani a non continuare a scrivere pagine di discordie, di morti, di crudeltà: le pagine già scritte dai loro padri.

Sei ancora[3] quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga[4],
con le ali maligne, le meridiane di morte[5],
- t’ho visto - dentro il carro di fuoco[6], alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa[7] allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue[8] odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
- Andiamo ai campi. - E quell’eco fredda[9], tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli[10], le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere[11],
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Alle fronde dei salici
da Giorno dopo giorno

Nel settembre 1943 l’Italia risultava divisa in due parti. Nella parte meridionale, controllata dagli Alleati, era stata restaurata la monarchia, sotto il re Vittorio Emanuele III. Nella parte centro-settentrionale, occupata dai tedeschi, Mussolini aveva creato la Repubblica sociale italiana.
Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’esercito di liberazione condusse una lotta senza esclusione di colpi contro i tedeschi e i fascisti, che rispondevano con rastrellamenti, deportazioni e veri e propri massacri. Particolarmente feroci furono quelli di Boves, in Piemonte, di Marzabotto, in Emilia, dove le SS sterminarono 1830 civili, e di Roma, dove i nazisti come rappresaglia a un attentato partigiano, che era costato la vita a 32 soldati tedeschi, uccisero 335 prigionieri italiani.
Di fronte agli orrori, ai mali della guerra, i poeti non potevano cantare, scrivere versi, ma solo agire come gli antichi ebrei schiavi a Babilonia, che appesero le loro cetre ai rami dei salici
.

E come potevamo noi cantare
con il piede[12] straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio[13], al lamento
d’agnello dei fanciulli[14], all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo[15]?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento[16].

Ai quindici di Piazzale Loreto.
Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi, chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini, Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio, Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d’un albero
di sangue, Galimberti, Ragni, voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la terra
nell’ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe di piombo ci umiliano:
troppo tempo passò. Ricade morte
da bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle porte
ancora delle vostre case. Temono
da voi la morte, credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non è veglia di lacrime alle tombe:
la morte non dà ombra quando è vita.

Il mio paese è l'Italia
Più i giorni s'allontanano dispersi
e più ritornano nel cuore dei poeti.
Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno
con le colline di cadaveri che bruciano
in nuvole di nafta, là i reticolati
per la quarantena d'Israele,
il sangue tra i rifiuti, l'esantema torrido,
le catene di poveri già morti da gran tempo
e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani,
là Buchenwald, la mite selva di faggi,
i suoi forni maledetti; là Stalingrado,
e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta.
I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili,
dei vinti, dei perdonati dalla misericordia!
Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.
Il mio paese è l'Italia, o nemico più straniero,
e io canto il suo popolo, e anche il pianto
coperto dal rumore del suo mare,
il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.

Auschwitz
La poesia descrive il campo di concentramento di Auschwitz e ne racconta gli avvenimenti principali, quelli passati alla storia.
Laggiù, ad Auschwitz, lontano dal fiume Vistola, il poeta si rivolge a qualcuno e lo chiama amore, lì, lungo la pianura del nord, in un campo di concentramento, luogo di morte. Persino la pioggia che batte sui pali arrugginiti e sui grovigli di filo spinato dei recinti è fredda e funebre. Non si vedono alberi né uccelli nell’aria grigia e neppure nel pensiero dei prigionieri, rimangono solo l’inerzia e il dolore che sopravvivono dentro.
Alla porta dell’inferno (come altro si potrebbe chiamare il lager di Auschwitz?) c’è una scritta: «il lavoro vi renderà liberi» (e il colore bianco della scritta è un'offesa alle migliaia di uomini sterminati in quel campo); da quell’inferno è uscito il fumo (si osservi il contrasto della scritta bianca con il nero del fumo) del rogo di migliaia di donne che venivano spinte fuori dai loro "alloggi" contro un muro per essere fucilate, oppure venivano soffocate dal gas che usciva dalle docce mentre le loro bocche scheletrite urlavano misericordia.
Il poeta poi si rivolge ad un soldato immaginario chiedendogli se mai le ritroverà nella sua vita trasformate in fiumi, in animali secondo un’antica leggenda; ma forse quel soldato è morto anch’egli nel rogo: «o sei tu pure cenere d’Auschwitz?» (confesso che questa parte del testo mi è tuttora oscura; d'altronde è proprio del poeta ermetico dare al lettore suggestioni, immagini e non un testo chiaro).
Ciò che rimane adesso di Auschwitz sono lunghe trecce chiuse nelle urne di vetro, piccole scarpe e sciarpe di ebrei; tutte queste cose sono reliquie di un tempo di saggezza, di sapienza, sono i miti dell’uomo che si misura con le armi, sono i cambiamenti della nostra epoca. Sono le lezioni che non possiamo e non dobbiamo dimenticare, in un'epocsa in cui, abbandonate le armi, l'uomo è diventato più saggio.
In quei luoghi, in cui l’amore e il pianto finirono, assieme alla pietà, sotto la pioggia (il lavacro di tanto male commeso?), laggiù ad Auschwitz, un no esplode dentro il cuore del poeta, un rifiuto della morte che è stata sepolta da Auschwitz, un no per non dimenticare e per non ripetere quell’ammasso di ceneri e di morti.
La poesia, che conteneva un’altra strofa che ho "tagliato" essendo risultata particolarmente difficile da "interpretare", è divisa in tre strofe di diversa struttura; il verso è libero e non vi sono rime.
Il componimento evoca i sentimenti più profondi del poeta di fronte al massacro compiuto ad Auschwitz e negli altri campi di concentramento tedeschi. Sembra quasi di vedere quelle scene di migliaia di donne ammassate nelle baracche e spinte a forza verso la morte per fucilazione o per asfissia. Le bocche delle donne sono scheletrite per le sofferenze e per i patimenti subiti, sembra di sentire le loro urla di misericordia, di vedere quei corpi che hanno portato quelle scarpe e quelle sciarpe.
Il poeta è addolorato nel raccontare questi avvenimenti, la memoria di queste cose è la sola cosa che rimane insieme al dolore, alle reliquie di uomini, alla cenere.
Persino la scritta bianca, l'irridente: «Arbeit macht frei - Il lavoro vi renderà liberi» sembra una spietata ironia simile alla sensazione che si ha di quei luoghi di tortura leggendo libri o guardando film sull’argomento. Ciò che rimane di quegli avvenimenti sono reliquie di un tempo di sapienza, di saggezza (forse qui il poeta pensa ai filosofi, ai poeti, agli scrittori ebrei e non ebrei uccisi, un patrimonio perduto in nome delle ideologie di un uomo e di chi lo ha seguito.
La strofa finale esprime tutta la rabbia del poeta per tali avvenimenti: un no deciso ad altri fatti del genere: non si possono scordare questi fatti per non ripeterli mai più.

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.
Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: "Il lavoro vi renderà liberi "
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le doccie a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.
Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

Note
[1] Salvatore Quasimodo - Salvatore Quasimodo nasce a Modica (Ragusa) il 20 agosto del 1901 e trascorre gli anni dell'infanzia in piccoli paesi della Sicilia orientale (Gela, Cumitini, Licata, ecc.), seguendo il padre che era capostazione delle Ferrovie dello Stato. Subito dopo il catastrofico terremoto del 1908, si trasferisce a Messina, dove Gaetano Quasimodo era stato chiamato per riorganizzare la locale stazione. Prima dimora della famiglia, come per tanti altri superstiti, sono i vagoni ferroviari.
Un'esperienza dolorosa che avrebbe lasciato un segno profondo nell'animo del poeta. Nella città dello Stretto, Quasimodo compie gli studi fino al conseguimento nel 1919 del diploma presso l'Istituto Tecnico "A. M. Jaci", sezione fisico-matematica. All'epoca in cui frequentava lo "Jaci", risale l'inizio del sodalizio con Salvatore Pugliatti e Giorgio La Pira, durato tutta la vita. Negli anni messinesi Quasimodo comincia a scrivere versi, che pubblica su riviste simboliste locali.
Nel 1919, appena diciottenne, Quasimodo lascia la Sicilia con cui avrebbe mantenuto un legame edipico, e si stabilisce a Roma. In questo periodo continua a comporre poesie che pubblica su riviste locali soprattutto di Messina, trovando il modo di studiare in Vaticano il latino e il greco presso monsignor Rampolla del Tindaro.
L'assunzione nel 1926 al Ministero dei Lavori Pubblici, con assegnazione al Genio Civile di Reggio Calabria, assicura finalmente a Quasimodo la sopravvivenza quotidiana. Ma l'attività di geometra, per lui faticosa e del tutto estranea ai suoi interessi letterari, sembra allontanarlo sempre più dalla poesia e, forse per la prima volta, Quasimodo deve considerare naufragate per sempre le ambizioni poetiche.
Tuttavia, il riavvicinamento alla Sicilia, i contatti ripresi con gli amici messinesi della prima giovinezza, soprattutto il "ritrovamento" con Salvatore Pugliatti, insigne giurista e fine intenditore di poesia, riescono a riaccendere la volontà languente, a far sì che Quasimodo riprenda i versi del decennio romano, per limarli e aggiungerne di nuovi. Nasce così in ambito messinese il primo nucleo di Acque e terre.
Nel 1929 Quasimodo si reca a Firenze, dove il cognato Elio Vittorini lo introduce nell'ambiente di "Solaria", facendogli conoscere i suoi amici letterati, da Alessandro Bonsanti, ad Arturo Loira, a Gianna Manzini, a Eugenio Montale, che intuiscono subito le doti del giovane siciliano. E proprio per le edizioni di "Solaria" (che aveva già pubblicato alcune liriche di Quasimodo) esce nel 1930 Acque e terre, il primo libro della storia poetica di Quasimodo, accolto con entusiasmo dai critici dell'epoca, che salutano la nascita di un nuovo poeta.
Nel 1932 vince il premio dell'Antico Fattore, patrocinato dalla rivista e nello stesso anno, per le edizioni di "Circoli", esce Oboe sommerso.
Nel 1934 Quasimodo si trasferisce a Milano, l’avvenimento segna una svolta particolarmente significativa nella sua vita e non solo artistica. Accolto nel gruppo di "Corrente" si ritrova al centro di una sorta di società letteraria, di cui fanno parte poeti, musicisti, pittori, scultori.
Nel 1936 Quasimodo pubblica con G. Scheiwiller Erato e Apòllion (prefazione di Sergio Solmi) ancora un libro fortunato con cui si conclude la fase ermetica della sua poesia. Nel 1938 lascia il lavoro al Genio Civile e inizia l'attività editoriale come segretario di Cesare Zavattini, che più tardi lo farà entrare nella redazione del settimanale il "Tempo". Nel 1938, per le Edizioni Primi Piani esce la prima importante raccolta antologica Poesie, con un saggio introduttivo di Oreste Macrì, che rimane tra i contributi fondamentali della critica quasimodiana. Il poeta intanto collabora alla principale rivista dell'ermetismo, la fiorentina "Letteratura". Nel 1939-40 Quasimodo mette a punto la traduzione dei Lirici greci, che esce nel 1942 nelle edizioni di "Corrente" e che, per il suo valore di originale opera creativa, sarà poi ripubblicata e riveduta più volte.
Sempre nel 1942 presso Mondadori esce Ed è subito sera.
Nel 1941 gli viene concessa, per chiara fama, la cattedra di Letteratura Italiana presso il Conservatorio di musica "G. Verdi" di Milano. Insegnamento che terrà fino all'anno della sua morte.
Durante la guerra, nonostante mille difficoltà, Quasimodo continua a lavorare alacremente: scrive versi, traduce parecchi Carmina di Catullo, parti dell'Odissea, Il fiore delle Georgiche, il Vangelo secondo Giovanni, Epido re di Sofocle (tutti lavori che vedranno la luce dopo la liberazione). Parallelamente svolge l’attività di traduttore, con risultati eccezionali, grazie alla raffinata esperienza di scrittore. Numerosissime le sue traduzioni: da Ruskin a Eschilo, Shakespeare, Molière, Ovidio; e ancora da Cummings, Neruda, Aiken, Euripide, Eluard (quest'ultima uscita postuma).
Nel 1947, edita da Mondadori, esce la sua prima raccolta del dopoguerra, Giorno dopo giorno, libro che segna una svolta nella poesia di Quasimodo, al punto che si parlò e si continua a parlare di un primo e un secondo Quasimodo. Di fatto l'esperienza tragica e sconvolgente della seconda guerra mondiale, il profondo convincimento che l'imperativo categorico era quello di "rifare l’uomo" e che ai poeti spettava un ruolo importante in questa ricostruzione, fanno sì che Quasimodo senta inadeguata ai tempi una poesia troppo soggettiva. La poesia di Quasimodo supera quasi sempre lo scoglio della retorica e si pone su un piano più alto rispetto all'omologa poesia europea di quegli anni, rimanendo coerente con le proprie ragioni poetiche, il poeta, sensibile al tempo storico che vive, accoglie i temi sociali ed etici e di conseguenza varia il proprio stile.
Dal 1948 Quasimodo tiene la rubrica teatrale sul settimanale "Omnibus" (nel 1950, sempre come titolare della stessa rubrica, passa al settimanale "Tempo").
Nel 1949 esce presso la Mondadori La vita non è un sogno.
Nel 1950 Quasimodo riceve il premio San Babila e nel 1953 l'Etna-Taormina insieme a Dylan Thomas.
Nel 1954 esce per la casa editrice Schwarz Il falso e vero verde; un libro di crisi, con cui inizia una terza fase della poesia di Quasimodo, che rispecchia un mutato clima politico. Dalle tematiche prebelliche e postbelliche si passa a poco a poco a quelle del consumismo, della tecnologia, del neocapitalismo, tipiche di quella "civiltà dell'atomo" che il poeta denuncia, mentre si ripiega su se stesso e muta ancora una volta la sua strumentazione poetica. Il linguaggio ridiventa complesso, più scabro, il ritmo si fa più secco, suscitando perplessità in quanti vorrebbero il poeta sempre uguale a se stesso.
Segue nel 1958 La terra impareggiabile (Mondadori, Milano), premio Viareggio. Ancora nel 1958 Quasimodo mette a punto l'antologia della Poesia italiana del dopoguerra; nello stesso anno compie un viaggio in URSS, nel corso del quale viene colpito da infarto, cui segue una lunga degenza all'ospedale Botkin di Mosca.
Il 10 dicembre 1959, a Stoccolma, Salvatore Quasimodo riceve il premio Nobel per la letteratura e legge il discorso Il poeta e il politico, pubblicato l'anno dopo nell'omonimo volume (Schwarz, Milano 1960) che raccoglie i principali scritti critici di Quasimodo.
Nel 1960, gli viene conferita dall’Università di Messina la laurea honoris causa, e la cittadinanza onoraria.
Sempre nel 1960 sul settimanale "Le Ore" tiene la rubrica "Colloqui coi lettori" fino al 1964, quando passa a "Tempo" con una rubrica simile.
Nel 1966 Quasimodo pubblica il suo ultimo libro, Dare e avere. quasi un testamento spirituale, il poeta infatti morirà appena due anni dopo.
Nel 1967 l'Università di Oxford gli conferisce la laurea honoris causa.
Colpito da ictus il 14 giugno 1968 ad Amalfi, dove si trova per presiedere un premio di poesia, muore sull'auto che lo trasporta a Napoli.
L’opera di Salvatore Quasimodo è tradotta in quaranta lingue (compreso il Coreano), ed è conosciuta e studiata in tutto il mondo.
[2] L’Ermetismo e Quasimodo - Il fenomeno più rilevante nel panorama della lirica italia­na degli anni Trenta e Quaranta è l’affermarsi di modi di concepire e fare poesia che furono riassunti nel nome di ermetismo, una tendenza che ha in sé i caratteri della modernità ed eredita sicuramente molte delle tensioni primonovecentesche verso una poesia pura, espressione di una ricerca di nuovo linguaggio, ma anche di nuovi contenuti.
Il poeta ermetico esprime un’ansia di testimonianza di verità che trova un’espressione inde­terminata nel simbolo e nell’analogia, nella tendenza a enfatizzare la parola.
Il termine ermetico cominciò a circo­lare per indicare testi letterari che apparivano chiusi, nel sen­so che la loro comprensione era ostacolata non solo dalla com­plessità dell’argomento, ma dalla volontà dell’autore che ricercava l’oscurità. Il termine fu poi adottato dalla critica per indicare un gruppo di poeti che condividevano alcune idee-gui­da del fare letterario.
· L’idea della poesia come va­lore che sta al di fuori e al di sopra della storia e del tempo e che quindi può parlare di un Uomo inteso nella sua essenza spiritua­le e non calato in una determinata situazione storica o persona­le
· La poesia è proposta come testimonianza della verità anch’essa assoluta, che non si deve cioè misurare e con­frontare con gli eventi e con la storia.
· A quest’idea si associa la ricerca di uno stile alto, l’unico capace di esprimere convenientemente l’ansia di verità e di assoluto.
Ciò non impedisce ai poeti ermetici di porsi compiutamente entro l’alveo della poesia moderna; in particolare essi fanno propria l’esperienza ungarettiana di una parola essenziale, il valore espressivo fondamentale dell’analogia e del simbolo. Per la loro concezione della letteratura come espressione pura e incontami­nata, sottratta da ogni influsso storico e politico, rimasero estra­nei a un coinvolgimento nella politica culturale del regime fasci­sta e sposarono la linea dell’astensione dalla partecipazione alla vita politica e al dibattito ideologico.
Poiché l’ermetismo non fu propriamente una scuola poetica, non tutti i critici concordano sui nomi da far rientrare in questo «contenitore»; tuttavia si può affermare che poeti come Mario Luzi, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Salvatore Quasimodo furono tra i maggiori protagonisti della stagione dell’ermetismo, anche se poi approdarono ad esperienze diverse:
[3] Sei ancora...: l’uomo di oggi non è diverso dall’uomo primitivo; ha solo costruito armi più perfette.
[4] carlinga: parte di un aereo destinata ad alloggiare l’equipaggio, o anche il carico.
[5] meridiane di morte: armi perfette che proiettano intorno a sé ombre di morte, di rovina. La meridiana è un orologio solare formato da un complesso di linee orarie tracciate su di un muro o pavimento, ove lo gnomone proietta la sua ombra durante le varie ore del giorno.
[6] carro di fuoco: carro armato.
[7] persuasa…: utilizzata solo per atti di distruzione.
[8] E questo sangue...: si riferisce all’omicidio di Abele ad opera di Caino, il fratello, narrato nell’antico testamento. Con questo omicidio, Caino diede inizio ad una interminabile serie di delitti e di follie. Le stragi di oggi hanno la stessa brutalità del primo omicidio fraterno.
[9] E quell’eco fredda...: le menzogne, le discordie, l’odio fratricida sono ancora presenti nei pensieri e nelle azioni della nostra vita di ogni giorno.
[10] o figli: o giovani.
[11] le loro tombe...cenere: i resti dei vostri padri sono ormai cenere; anche le loro tombe a poco a poco scompaiono. O giovani, non commettete gli stessi sbagli dei vostri padri; non fate ricorso alle discordie, all’odio, all’intolleranza.
[12] con il piede...: è una metafora: con l’esercito tedesco che aveva occupato l’Italia.
[13] sull’erba dura...: con i morti abbandonati sull’erba, resa dura dal ghiaccio.
[14] al lamento d’agnello...: alle innocenti voci di lamento dei bambini: nei riti di purificazione dei popoli antichi l’agnello era la vittima innocente.
[15] urlo nero… telegrafo: disperato, di morte; l’urlo disperato della madre che, impazzita, corre verso il figlio crocifisso su un palo di telegrafo.
[16] Alle fronde... vento: anche le cetre dei nostri poeti, simbolo della poesia, erano appese, impotenti, smarrite, ai rami dei salici, per una promessa di silenzio. C’è un riferimento storico: il Salmo CXXXVI della Bibbia rievoca la deportazione degli ebrei a Babilonia: “Abbiamo appeso ai salici le nostre cetre... Come potremmo cantare in terra straniera?”.

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