mercoledì 7 aprile 2010

Giallo d’autore: Leonardo Sciascia e Il giorno della civetta. di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino

Disilluso forse, disincantato e tenace, Sciascia appare tutt'altro che arrendevole e pessimista, ma uomo di forti contrapposizioni e animosità, che sin da questa sua «opera prima», seppe attirarsi accuse di ogni genere. Quando scrisse Il giorno della civetta, Sciascia tratteggiò la figura del protagonista, il capitano Bellodi, ispirandosi a, Renato Candida, ufficiale dell'Arma di stanza ad Agrigento. In questa modernissima figura di detective, che svolge le sue indagini tra i conti bancari, i flussi finanziari e gli appalti, Sciascia anticipò quell'eroe antimafia, modello di coraggio e umanità che avrà poi moltissimi "seguaci" in carne e ossa. Tanti servitori dello Stato assomiglieranno a tale modello letterario: esempi di coraggio e umanità, «fieri campioni di un mestiere difficile: quello di servire la legge della Repubblica, e di farla rispettare», come osserva Francesco Merlo in una bella introduzione al libro. Questa affascinante figura di carabiniere, dunque, non è un personaggio realmente esistito, bensì, continua Francesco Merlo «una folla di personaggi che realmente esisteranno (...), è tutti gli eroi antimafia che l'Italia ha conosciuto, come Renzo è tutti i promessi sposi, Ulisse è tutti i vagabondi, Pinocchio è tutti i bambini del mondo».
Con questo libro, Sciascia ha inaugurato un genere letterario, quello del poliziesco siciliano, ed ha affrontato la tematica mafiosa, descrivendola nei suoi dettagli più scomodi e con le sue collaborazioni politiche ed ha il merito di colui che per primo scoperchiò il pentolone della mafia per il grande pubblico, ma non era stato certo il primo a scrivere o a parlare di certe cose e neanche a denunciare le commistioni tra mafia e politica. Lo aveva già fatto, ad esempio, lasciandone documentazione, Cesare Mori il "Prefetto di ferro", quel segugio della mafia che, tra il 1925 e il 1929, indagò sulle diverse fasi del rapporto tra Cosa Nostra e istituzioni: dalla complicità allo scontro, ma anch'egli fu messo nelle condizioni di non "muoversi", sebbene la sua fine non sia stata drammatica, come per altri servitori dello Stato che hanno cercato di sgominare l’antistato.
Leonardo Sciascia (1921-1989) nacque a Recalmuto, nell’entroterra agrigentino: sua madre proveniva da una famiglia di artigiani, suo padre era impiegato in una delle miniere di zolfo della zona. Da subito affiorò la sua forte passione per la storia, unita all’amore per la letteratura: dagli otto anni si dedicò intensamente alla lettura di tutti i libri che gli era possibile reperire a Racalmuto.
Trasferitosi a Caltanissetta con la famiglia nel 1935, Sciascia si iscrisse all’Istituto Magistrale in cui nel 1941 superò l’esame per diventare maestro elementare. Nel 1944 sposò Maria Andronico dalla quale Sciascia ebbe due figlie. Nel 1949 iniziò ad insegnare nella scuola elementare nel suo paese. Nel 1952 pubblicò “Favole della dittatura”, ventisette testi brevi di prosa assai studiata e la raccolta di poesie “La Sicilia, il suo cuore”. Nel 1953, Sciascia vinse il premio Pirandello per un suo intervento critico sull’autore di Girgenti dal titolo “Pirandello e il pirandellismo”.
Dal 1954, diresse «Galleria» ed «I quaderni di Galleria», riviste dedicate alla letteratura. Nel 1958 interruppe l’attività di insegnamento per lavorare in un ufficio del Patronato scolastico. Nel 1956 è pubblicato il primo libro di rilievo “Le parrocchie di Ragalpetra”, cui seguirono nell’autunno del 1958 i tre racconti della raccolta “Gli zii di Sicilia: La zia d’America”, “Il quarantotto” e “La morte di Stalin”.
Del 1961 è invece “Il giorno della civetta”, primo romanzo «giallo» pubblicato da Sciascia per la prima volta dalla casa editrice Einaudi, è il romanzo sulla mafia che portò allo scrittore la maggior parte della sua celebrità, il suo libro più famoso e più venduto, il primo ad essere tradotto all'estero ed a godere l'onore e l'onere di versioni teatrali e cinematografiche. L’impegno civile e la denuncia sociale dei mali di Sicilia, già presenti nel romanzo, sono alcuni dei tratti più pertinenti per la definizione della fisionomia dello scrittore e dell’intellettuale Sciascia.
“Il giorno della civetta” fu terminato nel 1960 e pubblicato nel 1961, quando la mafia era difficilmente combattuta per l’appoggio che essa godeva da parte di diversi politici e dall’omertà degli abitanti dei paesi nei quali essa agiva. Alcuni addirittura negavano l’esistenza di questa forma di terrorismo, sostenendo che si trattasse di massoneria o addirittura di microcriminalità. Quando di certi «garbugli» si sussurrava appena o il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1946 al 1967, li liquidava come «un'invenzione dei comunisti», Sciascia mise in prosa la mafia e la sua modernità. Per l’epoca in cui è stato scritto, “Il giorno della civetta” è stato una rivoluzione, perché mai nessuno aveva scritto un libro indirizzato alle grandi masse, che trattasse il problema della mafia: De Roberto e Pirandello non l'avevano trattata, Verga e Capuana non si erano accorti che esistesse, mentre Brancati volutamente l'aveva trascurata; su questo argomento esistevano allora solamente pochi scritti: una commedia di un autore siciliano con tratti vagamente apologetici e diversi studi, ma limitati solo ad un pubblico specialistico.
Sciascia invece ne fa motivo d'ispirazione civile e morale, di ricerca esistenziale nonché fonte inesauribile di risorse narrative, prediligendo spesso la forma descrittiva del «giallo», inconsueto, profondamente laico ed anticipatore, con il vezzo dell'anticipazione storica e con il pregio dell'azzardo letterario, virtù che brillano appieno ne “Il giorno della civetta”, un romanzo che affronta tematiche molto importanti come la mafia e l’omertà, uno dei gravi problemi che colpiscono molte regioni come la Sicilia pertanto il romanzo contiene già in sé molti argomenti che compaiono in altri testi di Leonardo Sciascia, in particolare i problemi della sua regione, la Sicilia che egli ritiene che offra la rappresentazione di tanti problemi di tante contraddizioni non solo italiani, ma anche europei, “al punto di poter fare della Sicilia una metafora del mondo odierno”.
Questi aspetti si sviluppano presentando i fatti così come avvengono, che per un lettore non siciliano dell’epoca, a prima vista sarebbero potuti sembrare irreali, ma che, aprendo i giornali, si scopre che nulla è inventato. Per comprenderne bene la storia bisogna tener presente il substrato socioculturale in cui è inserito l'autore, dotato di raro spessore indagatore, di distinguere il vero ed il presunto nelle cose del mondo, dotato di in senso profondo di giustizia e che lo porterà negli anni a rintracciare storie, ripercorrere biografie disperse o scontate risultanze processuali, già liquidate in Cassazione.
«Giallo che non è un giallo» per Calvino, «smontato» ed inconsueto, di carattere socioculturale, certamente mediterraneo, lontano dalla tradizione anglosassone, forte d'un racconto che scorre in piena luce, tra fatti subito svelati e privatissimi legami, in una Sicilia appunto dove, ancora secondo il commento di Calvino, «...tutto è limpido, cristallino: le più tormentose passioni, i più oscuri interessi, psicologia, pettegolezzi, delitti, lucidezza, rassegnazione, non hanno più segreti, tutto è ormai classificato e catalogato...» ma dove, come nella migliore partita di scacchi, tutto è da narrare e scoprire. «Sai fare qualcosa – scrive Italo Calvino in una lettera a Leonardo Sciascia del 23 settembre 1960 – che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentario su di un problema, dando una compiuta informazione su questo con vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più, colore locale quel tanto che ci vuole e non più, inquadramento storico e nazionale e di tutto il mondo intorno che ti salva dal ristretto regionalismo e un polso morale che non viene mai meno».
Il «giallo» che scaturisce dalla prosa di Sciascia è un genere letterario di altissimo profilo: esso, come genere, è usato come grimaldello per rappresentare e per interpretare la realtà siciliana e italiana, la solitudine quasi impotente e l'idealismo donchisciottesco dell'eroe positivo, il pessimismo intellettuale, che tuttavia non rinuncia all'impegno di indagare la realtà civile, sociale e politica che ci circonda, la criminalizzazione dello Stato borghese.
Un racconto poliziesco alto, dunque, che si situa, per alcuni versi, fuori dalle convenzioni del genere, sganciato dall'ansia della trama, indifferente ai canoni della logica aristotelica, il cui intreccio narrativo sfugge la mannaia della sintesi finale, che fa di ogni conclusione un nuovo punto di partenza, di ogni certezza acclarata un dubbio, d'ogni esito manifesto una sfida per la ragione e che non termina, come d'uso, con la rassicurante catarsi della punizione dei colpevoli.
Di giallo fraseggia il suo illuminismo debole, spoglio di qualsivoglia «missione salvifica» e sempre diffidente verso la giacobina determinazione dell'intellettuale militante pronto a decapitare «uomini e cose», seppur rattristato dallo sferruzzare delle «tricoteuses» a bordo-ring.
“Il Giorno Della Civetta”, descrive le indagini riguardo ad un omicidio, accaduto in Sicilia, dove tutta la storia è ambientata. La narrazione è molto particolare: da una parte c'è la storia vera e propria cioè gli omicidi e le indagini, dall'altra ci sono gli eventi raccontati in modo molto più indeterminato, lasciando molte volte i personaggi nell'anonimato. Il libro è ricco di informazioni, alcune chiaramente esposte, altre meno visibili sulla mentalità siciliana, di cui l'omertà ne rappresenta proprio un aspetto evidenziato dall'autore in modo molto suggestivo, esponendo cioè i pensieri dei siciliani che si trovano ad avere a che fare con tutto ciò che avviene intorno a loro. Romanzo amaro, romanzo di forti contrapposizioni tuttavia deciso a suscitarne di altrettante forti e motivate. C'è contrapposizione di caratteri tra i personaggi, contrapposizione tra chi pensa ai «metodi forti dei tempi di Mori» e chi, come il capitano Bellodi, li rifiuta, contrapposizione tra chi vede la mafia e chi la nega, contrapposizione di «uomini e non», contrapposizione infine tra Italie diverse, a Sud e a Nord della «linea della palma», fotografate all'alba d'un miracolo economico già denso di poteri occulti e di speranze disattese. In altri termini, Sciascia, analizza e denuncia il fenomeno mafia, oscura manifestazione dell'inconscio collettivo siciliano, attraverso il protagonista, il razionale capitano Bellodi, giovane e colto uomo del Nord, si misura con una realtà corrotta per lui difficilmente comprensibile ed incarna una dignità possibile al di fuori dei trionfanti (dis)valori di una criminalità che non si riconosce come tale, ed il suo antagonista don Mariano Arena, capomafia, semianalfabeta, ma spietato, potente, con un codice d'onore e un'autorità antitetici alla nozione di Stato. Nel romanzo Sciascia evidenzia i pesanti retaggi storici che gravano sulla mentalità dei siciliani e sul loro sentirsi altro rispetto alla comunità nazionale.
Il racconto trae lo spunto dall'omicidio di Accursio Miraglia, un sindacalista comunista, avvenuto a Sciacca nel gennaio del 1947 ad opera della mafia. Sciascia aveva già iniziato a scrivere di mafia già nel 1957 recensendo il libro di Renato Candida, comandante dei carabinieri ad Agrigento, al quale l'autore si ispira per il personaggio, protagonista del romanzo, Bellodi. Renato Candida aveva scritto un libro sulla mafia precorritore dei tempi in cui Candida aveva visto il passaggio dalla mafia rurale a quella degli appalti, quando se vi fosse stata “volontà politica” si sarebbe potuto impedire “il transito” dall’una all’altra fase. Sciascia lo aveva conosciuto a Racalmuto, ne aveva apprezzato il dichiarato antifascismo e l’avversione alla mafia: tra i due si aprì una “intesa” che poteva sembrare impossibile. Diventarono anche amici e si incontravano spesso. Sciascia stesso portò all’editore il libro sulla mafia che Candida aveva scritto: quel che preoccupava Candida era la DC. Per il libro, Candida fu trasferito a Torino, dove spesso Sciascia ebbe poi modo di incontrarlo. Riferisce infine alcuni episodi, narratigli da Candida, circa assurdi comportamenti, che si verificavano anche all’interno dell’arma dei carabinieri.
La prima edizione fu anticipata sulla Rivista "Mondo Nuovo" del 9 ottobre 1960 e la prima edizione comparve con una "Nota" che dichiarava la verità sottintesa alla finzione del romanzo scritta in una libertà non piena, ma significativa nei confronti di una letteratura che fino a quel momento aveva fornito della mafia una rappresentazione apologetica e di una società che, negli organi politici e d'informazione, ne negava addirittura l'esistenza. Questo concetto fu ribadito nell'"Avvertenza" dell'edizione scolastica del 1972.
Siamo in Sicilia, in un paese dell'entroterra palermitano, gli ambienti sono quelli dei poveri villaggi, dei quali non è citato il nome, di artigiani, di contadini e di operai, “governati” dalla mafia.
Il libro inizia con una breve ma essenziale descrizione di un autobus in partenza, luogo del delitto, dove un piccolo imprenditore edile, Salvatore Colasberna, presidente di una piccola impresa edilizia chiamata Santa Fara, è ucciso con due colpi di arma da fuoco, mentre sta salendo su un autobus per Palermo nella piazza di San Salvatore perché non aveva ceduto alle minacce della mafia, dominante su tutta la vita siciliana. Subito dopo l'omicidio, le forze dell'ordine, recatesi sul posto, cercano testimoni, che possano fornire qualche informazione utile per le indagini, ma non riescono a farlo in quanto nell'autobus non c'è più nessuno. All'arrivo dei carabinieri, i passeggeri si allontanano alla chetichella, l'autobus resta vuoto e rimangono soltanto l'autista ed il bigliettaio, che comunque di fronte alla divisa non riconoscono il morto e non si ricordano chi fossero i passeggeri. Il venditore di panelle, rimasto a terra al momento del delitto è scomparso. Un carabiniere lo trova, come al solito, all'ingresso della scuola elementare mentre vende i suoi prodotti e lo accompagna dal maresciallo. Ma neanche lui sa nulla e, anzi, dice di non essersi accorto nemmeno dello sparo. Dopo due ore di interrogatorio il panellaro ricorda che, all'angolo tra Via Cavour e Piazza Garibaldi, verso le sei, le sei e trenta, ha sentito due spari. Il panellaro è il tipico cittadino che ha paura della mafia. Si comporta in modo vile ed è diventato uno schiavo della mafia. La sua caratteristica fondamentale è l’omertà, che protegge la criminalità ed ostacola le indagini: al pari dell’autista, il bigliettaio ed i passeggeri dell’autobus svolgono la funzione di oppositore.
Qui appare per intero il vero problema esposto nel romanzo: le caratteristiche del modo siciliano, la loro idea sul tema della famiglia, degli affetti, delle relazioni, della giustizia e sopratutto appare interamente e nella maniera più visibile il tema dell'omertà.
Le indagini sono affidate al capitano Bellodi, comandante della compagnia di Carabinieri, protagonista della vicenda: il capitano Bellodi, un giovane alto e di colorito chiaro, determinato, intuitivo, coraggioso ad affrontare un’inchiesta contro la mafia è emiliano di Parma, ex partigiano, destinato a diventare avvocato, ma rimasto in servizio nell'arma in nome di alti ideali, non condividendo, peraltro, il clima di omertà che caratterizza la Sicilia e i suoi abitanti. Don Mariano Arena lo definisce un “uomo”, perché tratta dignitosamente gli investigati, senza insultarli o senza mancar loro di rispetto.
Intanto in un bar di Roma, un'importante persona politica chiede ad un onorevole del suo partito, che si intuisce essere la Democrazia Cristiana, di far trasferire Bellodi, a causa dei problemi che sta creando, designando l'omicidio di Colasberna come omicidio mafioso.
Bellodi intanto interroga un proprio confidente, doppiogiochista noto alla mafia: Calogero Dibella detto Parrinieddu. Il capitano ascoltando le menzogne che l'informatore riferisce, riesce comunque, con quelle sue gentili maniere da "continentale", a sapere il nome di Rosario Pizzuco, un capomafia anch’egli un mandante dell’omicidio di Colasberna, ma non lo vuole ammettere.
Il nome del presunto omicida, un certo Diego Marchica detto Zicchinetta, è dato al capitano, o meglio al brigadiere, dalla moglie di Paolo Nicolosi, un potatore scomparso e certamente ucciso per aver riconosciuto l'assassino, visto le coincidenze che accompagnano la sua scomparsa.
Bellodi scopre nel fascicolo investigativo del Marchica che è un noto sicario ed è stato diverse volte in carcere, processato e condannato per molti reati, ma scagionato per altrettanti, causa insufficienza di prove, riconosciuto come l’esecutore materiale del delitto di Colasberna. Bellodi nota inoltre, una fotografia che lo ritrae insieme con don Calogero Guicciardo e all'onorevole Livigni.
Nel frattempo Parrineddu è assassinato e Bellodi ottiene, grazie ad un'inquietante testimonianza scritta prima di morire, che Marchica, Pizzuco e il padrino don Mariano Arena, siano fermati, ma l'interrogatorio si risolverà in un nulla di fatto. Don Mariano Arena è un anziano capo-mafia: a prima vista potrebbe apparire un galantuomo, una persona rispettabile, ma è il mandante dell’omicidio del Colasberna. Gode dell’appoggio della maggior parte della popolazione locale e la sua vera arma è l’omertà.
Quanto a crimini a don Mariano Arena non mancava niente, dalla a di abigeato alla z di zuffa. Ed è lo stesso don Mariano a tributare all'ufficiale dei carabinieri un doveroso riconoscimento. Nell'incontro con Bellodi, Sciascia fa pronunciare a don Mariano la frase contenente l'espressione idiomatica "quaquaraquà", destinata a divenire celeberrima e collegata nella cultura popolare al mondo mafioso e ai concetti che lo governano: ««Io - proseguì poi don Mariano - ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, che mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini. E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più in giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere con le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre. Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.»
I giornali fanno molto clamore e pubblicano le foto di Arena insieme a Mancuso; questo dimostra le persone vicine che lo sostengono. Il fatto porta a un dibattito in Parlamento al quale partecipano anche due anonimi mafiosi e alcuni onorevoli. Anche il capitano Bellodi è presente assieme ad un compagno. Durante l'acceso dibattito un sottosegretario dichiara che la mafia esiste solamente "nella fantasia dei socialcomunisti".
Confessioni e ritrattazioni, considerazioni fuori campo e voci di corridoi nei Palazzi romani, preparano poco a poco «l'Iliade di guai» che finirà per annullare l'inchiesta. Bellodi, che intanto era rimasto a Parma, dopo aver preso una licenza di un mese, legge sui giornali spediti da un carabiniere dalla Sicilia, che il castello probatorio è stato smantellato grazie ad un alibi di ferro costruito da rispettosissimi personaggi per il Marchica, opera, naturalmente, di uomini politici interessati a tutelare la propria posizione. L'omicidio di Nicolosi è attribuito all'amante della moglie e don Mariano è scarcerato.
Scarcerati i colpevoli, trasferito il maresciallo Ferlisi, Bellodi, spedito in licenza a casa, è colto, mentre scorrono i titoli di coda, «nell'indolente sera di Parma» a passeggiare con l'amico Brescianelli, a riflettere sul suo allontanamento e a promettere, soprattutto alla sua coscienza di ex partigiano e «servitore di Stato», un prossimo ritorno in Sicilia.
Con i pensieri e l'ultima affermazione di Bellodi il romanzo si chiude: "Bellodi si sentiva come un convalescente: sensibilissimo, tenero, affamato. "Al diavolo la Sicilia, al diavolo tutto". Rincasò verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve, silenziosa, deserta. "In Sicilia le nevicate sono rare" pensò: e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentiva un po' confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia e che ci sarebbe tornato.
"Mi ci romperò la testa" disse a voce alta."
Oltre a “Il consiglio d’Egitto” (1963), gli anni Sessanta vedranno nascere alcuni dei romanzi più sentiti dallo stesso autore, dedicati proprio alle ricerche storiche sulla cultura siciliana: “A ciascuno il suo” (1966) e “Morte dell’Inquisitore” (1967. Nello stesso anno esce un’”Antologia di narratori di Sicilia”, curata da Sciascia con Salvatore Guglielmino.
Il 1970 è l’anno del pensionamento e della pubblicazione de “La corda pazza”, una raccolta di saggi su “cose siciliane” nella quale l’autore chiarisce la propria idea di "sicilitudine". Il 1971 è l’anno de “Il contesto”, libro destinato a destare una serie di polemiche politiche. Tuttavia si fa sempre più forte la propensione ad includere la denuncia sociale nella narrazione di episodi veri di cronaca nera: gli “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel” del 1971, ”I pugnalatori” del 1976 e “L’affaire Moro” del 1978 ne sono un esempio. Nel 1974, nel clima del referendum sul divorzio e della sconfitta politica dei cattolici, nasce ”Todo modo”, un libro che parla "di cattolici che fanno politica".
Dopo diversi anni di attività politica, lo scrittore è segnato dalla malattia che lo costringe a frequenti trasferimenti a Milano per curarsi. Carichi di dolenti inflessioni autobiografiche sono i brevi racconti gialli “Porte aperte” del 1987, “Il cavaliere e la morte” del 1988 e “Una storia semplice”, in cui si scorgono tracce di una ricerca narrativa all'altezza della difficile e confusa situazione italiana di quegli anni. Leonardo Sciascia morì a Palermo il 20 novembre 1989.
Giallo d’autore: Leonardo Sciascia e Il giorno della civetta. di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia di massimo capuozzo Giallo d’autore: Leonardo Sciascia e Il giorno della civetta. di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia di massimo capuozzo Giallo d’autore: Leonardo Sciascia e Il giorno della civetta. di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia di massimo capuozzo Giallo d’autore: Leonardo Sciascia e Il giorno della civetta. di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia di massimo capuozzo Giallo d’autore: Leonardo Sciascia e Il giorno della civetta. di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia di massimo capuozzo
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