“Un uomo si trasforma a mano a mano in un vegetale a causa di una misteriosa pianta brasiliana; il petrolio in fiamme di Marghera, bombardata durante una prossima guerra, invade i canali di Venezia e distrugge la città; una parte della Luna cade sulla Terra arrestandone la rotazione; uno scienziato inventa un sistema per “acciaiare” i muscoli, un altro riproduce gli eventi del passato catturando la luce emessa secoli prima… Sono soltanto alcuni dei temi delle opere contenute in questa insolita antologia: una serie di racconti e di romanzi brevi pubblicati in Italia tra il 1891 e il 1952 nei supplementi domenicali dei quotidiani, nelle riviste letterarie, nelle collane popolari o anche in opere antologiche. Gli autori sono nomi noti nelle storie letterarie come Luigi Capuana, Ercole Luigi Morselli, Guido Gozzano, Massimo Bontempelli, Rosso di San Secondo; altri sono scrittori della narrativa popolare dell’epoca, alcuni notissimi, altri completamente dimenticati: Yambo, Emilio Salgari, Mario Contarini, Gastone Simoni, Egisto Roggero, Secondo Lorenzini, Anton Ettore Zuliani, Luigi Ugolini, Giorgio Cicognam Luigi Motta, Antonio Acierno. Tutti pubblicarono, in quell’arco di sessanta anni (cioè prima della nascita ufficiale della “fantascienza”, nel 1952), considerato il più depresso, sterile e vuoto da questo punto di vista rispetto a consimili periodi di altre nazioni. Eppure, come si vedrà, non è affatto così e soltanto una assoluta mancanza di informazione ha consolidato per decenni questo pregiudizio. Valido, per altro, unicamente per la fantascienza, dato che è almeno dal 1980, con la pubblicazione di una mezza dozzina di antologie storiche, che un simile luogo comune è stato superato per la narrativa fantastica, di cui si sono riscoperti pregevoli esempi fra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento”
Questa la quarta di copertina del libro.
Il lavoro che ci si accinge a presentare è atipico rispetto agli altri già presentati. Esso, infatti, riguarda una preziosa antologia curata da Gianfranco De Turris, intitolata “Le aeronavi dei Savoia” e reca come sottotitolo “Protofantascienza italiana”.
In questa antologia, sono raccolti 39 racconti, scritti tra il 1891 e il 1952, pazientemente ricercati e curati da De Turris con la collaborazione di Claudio Gallo, e, secondo alcuni critici, potrebbe anche sottointitolarsi “Archetipi della fantascienza italiana”. L’antologia, nel proporre una sostanziosa scelta di racconti divertenti e pressoché sconosciuti di autori noti e meno noti, ha il pregio di contestualizzarli criticamente e iconograficamente, restituendoci quasi intatto il sapore di novità e di ingenua meraviglia che dovettero suscitare all’epoca.
De Turris raccoglie racconti di marziani, astronavi e favolose invenzioni, pagine assai piacevoli, sebbene lo siano più per il loro fascino retrò che non per gli effettivi meriti artistici, a parte l’effetto di straniamento nel leggere di viaggi su Venere e di incontrare dinosauri e veneziani che vivono su una Venezia non lagunare.
De Turris afferma che le storie contenute in questa antologia dimostrano come questi scrittori avessero già recepito gli umori, le novità tecnologiche e le aspirazioni scientiste dell’epoca e le avessero travasate nelle loro storie, attenti dunque agli umori della cultura e del pubblico del loro tempo, tuttavia lo stesso De Turris scrive: «a differenza delle storie di protofantascienza americane ed inglesi, si deve dire che i nostri autori non erano convintissimi del fatto che il progresso tecnico scientifico sarebbe stato senz’altro positivo».
“Le Aeronavi dei Savoia” ha esaurito in brevissimo tempo la prima edizione e la prima ristampa, tanto che oggi non è più possibile trovarlo in commercio se non presso qualche bancarella dell’usato e questo è stupefacente per un libro così fuori dell’ordinario. Vuol dire che i lettori, appassionati di fantascienza e no, erano curiosi di conoscere quali fossero le radici di questo genere letterario in Italia.
Questo libro di protofantascienza italiana comprende racconti di autori pressoché sconosciuti oggi, ma che dovevano essere noti al pubblico dell’epoca, ma anche di autori noti, ma che non sembrava si fossero mai interessati di questo genere narrativo e comunque noti solo per gli ambienti specializzati.
È il caso di “La vita di domani” del futurista Fillia, alias Luigi Colombo, già noto per il suo libro “La cucina futurista”, un racconto del 1925, che contiene in sé già tutti gli stilemi tipici della società futura quella decisamente non tanto allegra: uomini e donne fisicamente uguali, calvi e con i lineamenti pressoché identici, una completa spersonalizzazione di tutto e tutti, numeri al posto dei nomi, armi orribili in mano ad una polizia onnipotente ed altro che connota spaventosi scenari futuribili. Da questo si deduce che o nel 1925 era già stato tutto scritto e Fillia ha letto e copiato tutto o questi stilemi li ha inventati lui e se non tutti, molti di essi. La prima ipotesi è tuttavia una strada impercorribile, perché la science fiction, come la intendiamo noi oggi, era estremamente poco diffusa in Italia e del resto lo era solo poco di più anche negli Stati Uniti.
È il caso di “Non votò la famiglia De Paolis”, una tristissima storia satirica di Donato Martucci e Uguccione Ranieri su che cosa sarebbe successo se avesse vinto il ‘Fronte popolare’ nel 1948: il mancato adempimento del proprio dovere elettorale da parte di ignari elettori provoca una vera e propria catastrofe, l’ascesa al potere dei comunisti, con relativa polizia politica e campi di concentramento; nel giro di due anni si sarebbe creata una situazione da inferno staliniano, di processi e di fame, un “buio a mezzogiorno”, con Nenni processato e fucilato ed il protagonista stesso nella “Notte dei Cardinali”, quando appunto ne sono fucilati molti.
Questo volume ci rivela che la narrativa di immaginazione scientifica ed avveniristica godeva, anche in Italia, e già verso la fine del XIX secolo, di un discreto successo di pubblico per il quale non rappresentava una novità: essa era, infatti, seguita con interesse e con continuità da una nutrita schiera di lettori, più o meno colti, a livello sia popolare sia borghese.
Nel libro Anton Ettore Zuliani non un americano immaginò per primo uno sbarco su Venere e nel 1905 pubblicò in sei puntate il racconto: è vero che la vicenda narrata aveva ancora il gusto dell’avventura salgariana più che della fantascienza, ma è altrettanto vero che gli stessi stilemi lo stesso vale anche per molta «protofantascienza» angloamericana. Sembra opportuno spiegare che cosa si intende per “protofantascienza”: la differenza è solo di percezione del fenomeno letterario, infatti, per protofantascienza si intende una fantascienza primordiale e inconsapevole di essere tale, senza “forme e rituali propri” venuti successivamente ed a partire dal 1952.
In altri termini la domanda è sempre quella di fondo sull’origine del genere ossia se è possibile parlare di fantascienza, prima che Hugo Gernsback inventasse l’espressione science fiction. Il dibattito è di antica data, ma da qualche tempo i possibilisti guadagnano terreno. Lo dimostra il successo dello Steampunk e lo conferma Gianfranco De Turris con questo libro. Egli, infatti, sostiene che si tratta di esempi d’una produzione ancora più vasta oltre che ricca di talento visionario: teletrasporti, manipolazioni biotecnologiche, cataclismi planetari, guerre futuribili, dimensioni parallele, ed altro che si manifesta nella attuale ‘sience fiction’.
È interessante comprendere il motivo dell’apparente ritardo di questo genere narrativo in Italia rispetto agli Stati Uniti. Nella premessa al suo volume, De Turris ricorda che, mentre negli Stati Uniti si sviluppò un mercato di fantascienza specializzato, con riviste che pubblicavano solo racconti di questo genere, nessuna delle testate italiane ha mai imboccato questa via. De Turris sostiene che l’intellighenzia di sinistra, un po’ per «snobismo letterario», un po’ perché riteneva impossibile lo sviluppo di una vera tradizione fantascientifica in assenza di una politica democratica e di una diffusa cultura scientifica, non ha mai preso in considerazione l’idea che potesse esistere una protofantascienza italiana.
Nella definizione di fantascienza proposta da Gernsback, ossia che i temi trattati si nutrono del sapere scientifico e manifestano un grande interesse per l’alterità e per il cambiamento, per l’attrazione verso l’altro, verso il diverso da sé, e verso le sue possibili metamorfosi, c’è forse l’indizio decisivo: già dal XVII secolo, la cultura anglosassone, aveva proiettato sulla scienza e sulla tecnica crescenti aspettative escatologiche. Il successo dell’opera coincideva con la diffusione della stampa periodica: da una parte delle riviste di divulgazione scientifica, dall’altra dei supplementi illustrati, generalmente settimanali, varati negli anni Novanta del XIX secolo, da importanti quotidiani a diffusione nazionale.
La fantascienza italiana ha sempre goduto di una pessima fama: snobbata dai critici e considerata pessima letteratura se non la negazione stessa del concetto di letteratura tanto che essa è cresciuta tanto rachitica e misera che è difficile citare qualche autore o qualche titolo.
In Italia il racconto di fantascienza nasceva, di fatto, nell’era dell’espansione industriale e dell’ottimismo evoluzionistico, dell’alfabetizzazione delle plebi e della scolarizzazione dei ceti medi, sviluppandosi dal seno della narrativa realistica, suo estremo sviluppo e superamento in senso fantastico, ma ognuno di questi fenomeni sociali era in ritardo rispetto all’occidente europeo ed americano. Erano gli anni in cui la vita pubblica cominciava a riorganizzarsi su nuove basi concrete e positive ed in cui la coscienza nazionale, costretta a fare i conti con antiche ed insanate lacerazioni, guardava alla scienza come alla madre di ogni progresso, che avrebbe saputo trovare adeguate risposte alle contraddizioni sociali e politiche del mondo.
L’immaginazione fantascientifica riusciva a dilatare ed a procrastinare l’orizzonte delle attese del pubblico.
Tra Ottocento e Novecento la scienza divenne madre di ogni meraviglia: nel 1888 Hertz dimostrava l’esistenza delle onde elettromagnetiche; nel 1895 Roentgen scopriva i raggi X, in grado di rendere visibile l’interno di corpi solidi; nel 1902 Rutherford aveva scoperto la divisibilità dell’atomo ed era riuscito a scinderlo, mentre Marconi procedeva agli esperimenti di trasmissione di onde immateriali oltre Atlantico; nel 1905 Marie Curie rendeva pubblica la scoperta del radio e della radioattività ed Albert Einstein rendeva nota la sua teoria della relatività breve.
Verso la fine del secolo si era cominciato anche a discutere della quarta dimensione. Ne parlò per primo l’astrofisico di Lipsia Friedrich Zoellner, che postulò la necessità di dimensioni ulteriori, che permettevano di ipotizzare la permeabilità della materia. Alle sue ipotesi, si associarono Carl du Prel, il barone Hellenbach ed il russo Uspenski, che, in Tertium organum, parlava della presenza, nei mistici, nei poeti e negli artisti, di una “coscienza cosmica” aperta alla quarta dimensione che, non solo occupò per decenni il pensiero dei fisici e dei filosofi, ma nutrì anche i romanzi utopici e l’espressione delle arti figurative, mentre una vasta produzione di opere divulgative e di letteratura fantastica a sfondo scientifico popolò il mercato libraio, spesso per merito di noti studiosi come Camille Flammarion.
Ad ipotesi ed a scoperte si affiancavano piccole rivoluzioni sul versante della vita pratica e quotidiana: dalla diffusione dell’illuminazione elettrica al telefono, dai tram cittadini alla comparsa dell’automobile, dai primi sottomarini alle prime aeronavi.
Di questo background scientifico si riverberarono gli effetti anche nel campo letterario e nel racconto di fantascienza si cimentarono Luigi Capuana e Massimo Bontempelli e Paolo Buzzi, Guido e Umberto Gozzano, i futuristi Fillia e Rosso di San Secondo come pure un nugolo di altri meno noti autori del tempo da Ercole Morselli ad Arnaldo Fraccaroli, mostri sacri della tradizione avventuroso-popolare (da Salgari a Motta) e una schiera di scrittori assolutamente ignoti di cui è rimasta soltanto la firma.
La produzione fu tanto prolifica e la casistica immaginativa tanto vasta che De Turris, nel riproporli, ha sentito la necessità di radunarli per temi e per sezioni: Altri mondi, Invenzioni straordinarie, Mostri, Domani possibili, Guerre future, Catastrofi, e via dicendo.
Il vasto apparato di notizie, sugli autori, sui periodici e sulle loro vicende editoriali, l’accurata introduzione rendono questo volume importante anche come strumento di studio e forniscono allo studioso una quantità di notizie e di informazioni utili a tracciare la storia del genere ed a ricostruire le coordinate letterarie e psicologiche di un mondo che abbiamo ormai lasciato alle nostre spalle.
La stessa varietà di tipologie proposte ha inoltre il merito di evocare, nella loro forma ingenua e primitiva, una serie di temi o di soggetti che il cinema ha successivamente proposto in chiave e con soluzioni moderne.
Questi racconti di avventure futuribili furono in grado di far concorrenza alle popolarissime novelle rosa d’appendice, ai feuilletton storici e di cappa e spada, e la figura dello scienziato si sostituisce a quella dello spasimante, deluso o vittorioso: l’uomo di scienza, innamorato dei propri alambicchi, assorto nella sua opera di pioniere, intestardito a violare i segreti della natura, a strapparle gli ultimi veli, vi appare come un eroe. La tuta spaziale, i volti e le usanze di esseri alieni, le geografie di mondi lontani rimpiazzano il senso di spaesamento caro agli appassionati del genere esotico: non a caso molti di questi racconti di ‘anticipazione’ furono ospitati da periodici quali Il Giornale dei Viaggi, Viaggi e avventure per terra e per mare, Il Vascello o il settimanale salgariano Per terra e per mare.
La Terra, vista dallo spazio, rivela scenari inaspettati, ma anche risibili meschinità. Soddisfatti di sé, ma già inquieti del futuro, questi scrittori amano spingere lo sguardo verso prospettive future, proiettandovi i timori del presente, materializzandovi mostri che sembrano emersi dal mondo onirico degli artisti fin de siècle.
Spesso il vero fascino di questi racconti sta proprio nella contrapposizione tra un’Italietta borghese e casalinga ed i grandi misteri del Cosmo, come per esempio nel racconto «Ciò che accadde a noi tutti il 19 settembre 19…», dove un tranquillo signore milanese assiste a una catastrofe planetaria, la distruzione della Luna e relativa caduta di giganteschi meteoriti, che arrestano la rotazione terrestre, leggendone i resoconti in Galleria o davanti a Sant’Ambrogio.
Ce n’è per tutti i gusti: dalle parodie tecnologiche dell’«Autocasa» e del «Chiesofono», un apparecchio telefononico che, nel 1891, permette di confessarsi da casa, costringendo i sacerdoti a lunghe notti insonni spese ad ascoltare le scontentezze di vedove e bigotte, alle fantasie pseudo-spiritiste di Salgari «Il mio terribile Segreto», storia di un tizio che senza spiegazione alcuna è teletrasportato in Galles, per impedire il rapimento di una fanciulla o di Gozzano «Dopo il voto tragico», un racconto volutamente ironico di fachiri, divinità funeste e valigie perdute, per finire poi con gli esperimenti di storia parallela come nel già citato racconto «Non votò la famiglia De Paolis»
Alcuni di questi racconti, comunque, sono davvero notevoli: «La Fine di Venezia» è il resoconto della distruzione di Venezia dopo un bombardamento atomico su Marghera: è una storia praticamente senza dialoghi né personaggi, dove, anzi, protagonisti sono i palazzi e le chiese, che sembrano quasi prendere vita per un istante, prima di scomparire in un mare di fuoco; oppure «La morte di Re Salibù», che, con prosa roboante e tragica, descrive le vicende di un popolo di Titani minacciati dagli oscuri complotti del Nano Necroforo e di altri loschi figuri.
A leggere questi vecchi racconti e a confrontarli con racconti di science fiction estera dello stesso periodo, si notano pochissime differenze: stesse trame fiacche, stessi personaggi tagliati con l’accetta, stessi finali inverosimili, stessi dialoghi surreali, stessi stereotipi razziali: insomma, eravamo partiti ad armi pari. Tutto questo ci porta alla constatazione che, se la fantascienza italiana fosse stata un po’ più incoraggiata e sostenuta durante la sua infanzia, magari avremmo avuto anche noi i nostri Asimov o Henlein o Farmer o le Guin.
Questa la quarta di copertina del libro.
Il lavoro che ci si accinge a presentare è atipico rispetto agli altri già presentati. Esso, infatti, riguarda una preziosa antologia curata da Gianfranco De Turris, intitolata “Le aeronavi dei Savoia” e reca come sottotitolo “Protofantascienza italiana”.
In questa antologia, sono raccolti 39 racconti, scritti tra il 1891 e il 1952, pazientemente ricercati e curati da De Turris con la collaborazione di Claudio Gallo, e, secondo alcuni critici, potrebbe anche sottointitolarsi “Archetipi della fantascienza italiana”. L’antologia, nel proporre una sostanziosa scelta di racconti divertenti e pressoché sconosciuti di autori noti e meno noti, ha il pregio di contestualizzarli criticamente e iconograficamente, restituendoci quasi intatto il sapore di novità e di ingenua meraviglia che dovettero suscitare all’epoca.
De Turris raccoglie racconti di marziani, astronavi e favolose invenzioni, pagine assai piacevoli, sebbene lo siano più per il loro fascino retrò che non per gli effettivi meriti artistici, a parte l’effetto di straniamento nel leggere di viaggi su Venere e di incontrare dinosauri e veneziani che vivono su una Venezia non lagunare.
De Turris afferma che le storie contenute in questa antologia dimostrano come questi scrittori avessero già recepito gli umori, le novità tecnologiche e le aspirazioni scientiste dell’epoca e le avessero travasate nelle loro storie, attenti dunque agli umori della cultura e del pubblico del loro tempo, tuttavia lo stesso De Turris scrive: «a differenza delle storie di protofantascienza americane ed inglesi, si deve dire che i nostri autori non erano convintissimi del fatto che il progresso tecnico scientifico sarebbe stato senz’altro positivo».
“Le Aeronavi dei Savoia” ha esaurito in brevissimo tempo la prima edizione e la prima ristampa, tanto che oggi non è più possibile trovarlo in commercio se non presso qualche bancarella dell’usato e questo è stupefacente per un libro così fuori dell’ordinario. Vuol dire che i lettori, appassionati di fantascienza e no, erano curiosi di conoscere quali fossero le radici di questo genere letterario in Italia.
Questo libro di protofantascienza italiana comprende racconti di autori pressoché sconosciuti oggi, ma che dovevano essere noti al pubblico dell’epoca, ma anche di autori noti, ma che non sembrava si fossero mai interessati di questo genere narrativo e comunque noti solo per gli ambienti specializzati.
È il caso di “La vita di domani” del futurista Fillia, alias Luigi Colombo, già noto per il suo libro “La cucina futurista”, un racconto del 1925, che contiene in sé già tutti gli stilemi tipici della società futura quella decisamente non tanto allegra: uomini e donne fisicamente uguali, calvi e con i lineamenti pressoché identici, una completa spersonalizzazione di tutto e tutti, numeri al posto dei nomi, armi orribili in mano ad una polizia onnipotente ed altro che connota spaventosi scenari futuribili. Da questo si deduce che o nel 1925 era già stato tutto scritto e Fillia ha letto e copiato tutto o questi stilemi li ha inventati lui e se non tutti, molti di essi. La prima ipotesi è tuttavia una strada impercorribile, perché la science fiction, come la intendiamo noi oggi, era estremamente poco diffusa in Italia e del resto lo era solo poco di più anche negli Stati Uniti.
È il caso di “Non votò la famiglia De Paolis”, una tristissima storia satirica di Donato Martucci e Uguccione Ranieri su che cosa sarebbe successo se avesse vinto il ‘Fronte popolare’ nel 1948: il mancato adempimento del proprio dovere elettorale da parte di ignari elettori provoca una vera e propria catastrofe, l’ascesa al potere dei comunisti, con relativa polizia politica e campi di concentramento; nel giro di due anni si sarebbe creata una situazione da inferno staliniano, di processi e di fame, un “buio a mezzogiorno”, con Nenni processato e fucilato ed il protagonista stesso nella “Notte dei Cardinali”, quando appunto ne sono fucilati molti.
Questo volume ci rivela che la narrativa di immaginazione scientifica ed avveniristica godeva, anche in Italia, e già verso la fine del XIX secolo, di un discreto successo di pubblico per il quale non rappresentava una novità: essa era, infatti, seguita con interesse e con continuità da una nutrita schiera di lettori, più o meno colti, a livello sia popolare sia borghese.
Nel libro Anton Ettore Zuliani non un americano immaginò per primo uno sbarco su Venere e nel 1905 pubblicò in sei puntate il racconto: è vero che la vicenda narrata aveva ancora il gusto dell’avventura salgariana più che della fantascienza, ma è altrettanto vero che gli stessi stilemi lo stesso vale anche per molta «protofantascienza» angloamericana. Sembra opportuno spiegare che cosa si intende per “protofantascienza”: la differenza è solo di percezione del fenomeno letterario, infatti, per protofantascienza si intende una fantascienza primordiale e inconsapevole di essere tale, senza “forme e rituali propri” venuti successivamente ed a partire dal 1952.
In altri termini la domanda è sempre quella di fondo sull’origine del genere ossia se è possibile parlare di fantascienza, prima che Hugo Gernsback inventasse l’espressione science fiction. Il dibattito è di antica data, ma da qualche tempo i possibilisti guadagnano terreno. Lo dimostra il successo dello Steampunk e lo conferma Gianfranco De Turris con questo libro. Egli, infatti, sostiene che si tratta di esempi d’una produzione ancora più vasta oltre che ricca di talento visionario: teletrasporti, manipolazioni biotecnologiche, cataclismi planetari, guerre futuribili, dimensioni parallele, ed altro che si manifesta nella attuale ‘sience fiction’.
È interessante comprendere il motivo dell’apparente ritardo di questo genere narrativo in Italia rispetto agli Stati Uniti. Nella premessa al suo volume, De Turris ricorda che, mentre negli Stati Uniti si sviluppò un mercato di fantascienza specializzato, con riviste che pubblicavano solo racconti di questo genere, nessuna delle testate italiane ha mai imboccato questa via. De Turris sostiene che l’intellighenzia di sinistra, un po’ per «snobismo letterario», un po’ perché riteneva impossibile lo sviluppo di una vera tradizione fantascientifica in assenza di una politica democratica e di una diffusa cultura scientifica, non ha mai preso in considerazione l’idea che potesse esistere una protofantascienza italiana.
Nella definizione di fantascienza proposta da Gernsback, ossia che i temi trattati si nutrono del sapere scientifico e manifestano un grande interesse per l’alterità e per il cambiamento, per l’attrazione verso l’altro, verso il diverso da sé, e verso le sue possibili metamorfosi, c’è forse l’indizio decisivo: già dal XVII secolo, la cultura anglosassone, aveva proiettato sulla scienza e sulla tecnica crescenti aspettative escatologiche. Il successo dell’opera coincideva con la diffusione della stampa periodica: da una parte delle riviste di divulgazione scientifica, dall’altra dei supplementi illustrati, generalmente settimanali, varati negli anni Novanta del XIX secolo, da importanti quotidiani a diffusione nazionale.
La fantascienza italiana ha sempre goduto di una pessima fama: snobbata dai critici e considerata pessima letteratura se non la negazione stessa del concetto di letteratura tanto che essa è cresciuta tanto rachitica e misera che è difficile citare qualche autore o qualche titolo.
In Italia il racconto di fantascienza nasceva, di fatto, nell’era dell’espansione industriale e dell’ottimismo evoluzionistico, dell’alfabetizzazione delle plebi e della scolarizzazione dei ceti medi, sviluppandosi dal seno della narrativa realistica, suo estremo sviluppo e superamento in senso fantastico, ma ognuno di questi fenomeni sociali era in ritardo rispetto all’occidente europeo ed americano. Erano gli anni in cui la vita pubblica cominciava a riorganizzarsi su nuove basi concrete e positive ed in cui la coscienza nazionale, costretta a fare i conti con antiche ed insanate lacerazioni, guardava alla scienza come alla madre di ogni progresso, che avrebbe saputo trovare adeguate risposte alle contraddizioni sociali e politiche del mondo.
L’immaginazione fantascientifica riusciva a dilatare ed a procrastinare l’orizzonte delle attese del pubblico.
Tra Ottocento e Novecento la scienza divenne madre di ogni meraviglia: nel 1888 Hertz dimostrava l’esistenza delle onde elettromagnetiche; nel 1895 Roentgen scopriva i raggi X, in grado di rendere visibile l’interno di corpi solidi; nel 1902 Rutherford aveva scoperto la divisibilità dell’atomo ed era riuscito a scinderlo, mentre Marconi procedeva agli esperimenti di trasmissione di onde immateriali oltre Atlantico; nel 1905 Marie Curie rendeva pubblica la scoperta del radio e della radioattività ed Albert Einstein rendeva nota la sua teoria della relatività breve.
Verso la fine del secolo si era cominciato anche a discutere della quarta dimensione. Ne parlò per primo l’astrofisico di Lipsia Friedrich Zoellner, che postulò la necessità di dimensioni ulteriori, che permettevano di ipotizzare la permeabilità della materia. Alle sue ipotesi, si associarono Carl du Prel, il barone Hellenbach ed il russo Uspenski, che, in Tertium organum, parlava della presenza, nei mistici, nei poeti e negli artisti, di una “coscienza cosmica” aperta alla quarta dimensione che, non solo occupò per decenni il pensiero dei fisici e dei filosofi, ma nutrì anche i romanzi utopici e l’espressione delle arti figurative, mentre una vasta produzione di opere divulgative e di letteratura fantastica a sfondo scientifico popolò il mercato libraio, spesso per merito di noti studiosi come Camille Flammarion.
Ad ipotesi ed a scoperte si affiancavano piccole rivoluzioni sul versante della vita pratica e quotidiana: dalla diffusione dell’illuminazione elettrica al telefono, dai tram cittadini alla comparsa dell’automobile, dai primi sottomarini alle prime aeronavi.
Di questo background scientifico si riverberarono gli effetti anche nel campo letterario e nel racconto di fantascienza si cimentarono Luigi Capuana e Massimo Bontempelli e Paolo Buzzi, Guido e Umberto Gozzano, i futuristi Fillia e Rosso di San Secondo come pure un nugolo di altri meno noti autori del tempo da Ercole Morselli ad Arnaldo Fraccaroli, mostri sacri della tradizione avventuroso-popolare (da Salgari a Motta) e una schiera di scrittori assolutamente ignoti di cui è rimasta soltanto la firma.
La produzione fu tanto prolifica e la casistica immaginativa tanto vasta che De Turris, nel riproporli, ha sentito la necessità di radunarli per temi e per sezioni: Altri mondi, Invenzioni straordinarie, Mostri, Domani possibili, Guerre future, Catastrofi, e via dicendo.
Il vasto apparato di notizie, sugli autori, sui periodici e sulle loro vicende editoriali, l’accurata introduzione rendono questo volume importante anche come strumento di studio e forniscono allo studioso una quantità di notizie e di informazioni utili a tracciare la storia del genere ed a ricostruire le coordinate letterarie e psicologiche di un mondo che abbiamo ormai lasciato alle nostre spalle.
La stessa varietà di tipologie proposte ha inoltre il merito di evocare, nella loro forma ingenua e primitiva, una serie di temi o di soggetti che il cinema ha successivamente proposto in chiave e con soluzioni moderne.
Questi racconti di avventure futuribili furono in grado di far concorrenza alle popolarissime novelle rosa d’appendice, ai feuilletton storici e di cappa e spada, e la figura dello scienziato si sostituisce a quella dello spasimante, deluso o vittorioso: l’uomo di scienza, innamorato dei propri alambicchi, assorto nella sua opera di pioniere, intestardito a violare i segreti della natura, a strapparle gli ultimi veli, vi appare come un eroe. La tuta spaziale, i volti e le usanze di esseri alieni, le geografie di mondi lontani rimpiazzano il senso di spaesamento caro agli appassionati del genere esotico: non a caso molti di questi racconti di ‘anticipazione’ furono ospitati da periodici quali Il Giornale dei Viaggi, Viaggi e avventure per terra e per mare, Il Vascello o il settimanale salgariano Per terra e per mare.
La Terra, vista dallo spazio, rivela scenari inaspettati, ma anche risibili meschinità. Soddisfatti di sé, ma già inquieti del futuro, questi scrittori amano spingere lo sguardo verso prospettive future, proiettandovi i timori del presente, materializzandovi mostri che sembrano emersi dal mondo onirico degli artisti fin de siècle.
Spesso il vero fascino di questi racconti sta proprio nella contrapposizione tra un’Italietta borghese e casalinga ed i grandi misteri del Cosmo, come per esempio nel racconto «Ciò che accadde a noi tutti il 19 settembre 19…», dove un tranquillo signore milanese assiste a una catastrofe planetaria, la distruzione della Luna e relativa caduta di giganteschi meteoriti, che arrestano la rotazione terrestre, leggendone i resoconti in Galleria o davanti a Sant’Ambrogio.
Ce n’è per tutti i gusti: dalle parodie tecnologiche dell’«Autocasa» e del «Chiesofono», un apparecchio telefononico che, nel 1891, permette di confessarsi da casa, costringendo i sacerdoti a lunghe notti insonni spese ad ascoltare le scontentezze di vedove e bigotte, alle fantasie pseudo-spiritiste di Salgari «Il mio terribile Segreto», storia di un tizio che senza spiegazione alcuna è teletrasportato in Galles, per impedire il rapimento di una fanciulla o di Gozzano «Dopo il voto tragico», un racconto volutamente ironico di fachiri, divinità funeste e valigie perdute, per finire poi con gli esperimenti di storia parallela come nel già citato racconto «Non votò la famiglia De Paolis»
Alcuni di questi racconti, comunque, sono davvero notevoli: «La Fine di Venezia» è il resoconto della distruzione di Venezia dopo un bombardamento atomico su Marghera: è una storia praticamente senza dialoghi né personaggi, dove, anzi, protagonisti sono i palazzi e le chiese, che sembrano quasi prendere vita per un istante, prima di scomparire in un mare di fuoco; oppure «La morte di Re Salibù», che, con prosa roboante e tragica, descrive le vicende di un popolo di Titani minacciati dagli oscuri complotti del Nano Necroforo e di altri loschi figuri.
A leggere questi vecchi racconti e a confrontarli con racconti di science fiction estera dello stesso periodo, si notano pochissime differenze: stesse trame fiacche, stessi personaggi tagliati con l’accetta, stessi finali inverosimili, stessi dialoghi surreali, stessi stereotipi razziali: insomma, eravamo partiti ad armi pari. Tutto questo ci porta alla constatazione che, se la fantascienza italiana fosse stata un po’ più incoraggiata e sostenuta durante la sua infanzia, magari avremmo avuto anche noi i nostri Asimov o Henlein o Farmer o le Guin.
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