venerdì 9 aprile 2010

Miti e coscienza del Decadentismo italiano di Massimo Capuozzo

Miti e coscienza del Decadentismo[1] italiano
Giovanni Pascoli
[2]
Il fanciullino e il poeta
Chi è il fanciullino se non colui che possiede la facoltà di scoprire la poesia insita nelle cose e di vedere il nuovo e il bello anche nelle realtà apparentemente più quotidiane e scialbe?
[Il fanciullino, I e III]
È dentro di noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano[3] che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi[4] suoi. Quando la nostra età è tuttavia[5] tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano[6] e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono[7], si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo,’ noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica[8] serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiano la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello[9]. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto[10] nell’età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella, occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita[11], meno badiamo a quell’angolo d’anima donde esso risuona. E anche egli, l’invisibile fanciullo, si pèrita[12] vicino al giovane più che accanto all’uomo fatto e al vecchio, che più dissimile a sé vede quello che questi. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; che ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d’un passato ancor troppo recente. Ma l’uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l’armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d’un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora.

III

Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altri né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine. [...] In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza e credenza falsa. Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere[13]; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai[14]; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione[15]. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva[16]. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna[17]. Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare[18] di trombette e di pive[19], e in un cantuccio dell’anima di chi più non crede, vapora d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora[20]. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, che ora vuoi vedere la cinciallegra che canta, ora vuoi cogliere il fiore che odora, ora vuoi toccare la selce che riluce[21]. E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente[22]. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose[23]. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare[24]. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola[25]. E a ogni modo da un segno, un suono, un colore, a cui[26] riconoscere sempre ciò che vide una volta. [...]

Gabriele D’Annunzio[27]
L’effigie di un superuomo da Le vergini delle rocce[28]
Suggestionato dal fascino della filosofia di Nietzsche, Claudio Cantelmo protagonista del brano e del romanzo, ne rielabora il pensiero in chiave personale. Nasce così un personaggio dalle accese tinte nazionaliste, che, sprezzante della massa, si prepara al suo compito: trovare la donna da cui avere un figlio che sia un “uomo superiore”.

Non si può avere maggior signoria che
quella di sé medesimo.
leonardo da vinci

Domati i necessari! tumulti della prima giovinezza, battute le bramosie troppo veementi e discordi, posto un argine all’irrompere confuso e innumerevole delle sensazioni, nel momentaneo silenzio della mia coscienza io aveva investigato se per avventura la vita potesse divenire un esercizio diverso da quello consueto delle facoltà accomodative nel variar continuo dei casi; ciò è: se la mia volontà potesse per via di elezioni e di esclusioni trarre una sua nuova e decorosa opera dagli elementi che la vita aveva in me medesimo accumulati[29].
Mi assicurai, dopo qualche esame, che la mia coscienza era giunta all’arduo grado in cui è possibile comprendere questo troppo semplice assioma: - Il mondo è la rappresentazione della sensualità e del pensiero dì pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare[30]. - E riconobbi quindi la più alta delle mie ambizioni nel desiderio di portare un qualche ornamento, di aggiungere un qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno s’accresce di bellezza e di dolore.
Messomi al conspetto della mia propria anima, io ripensai quel sogno che più volte occorse a Socrate prendendo ciascuna volta una diversa figura ma persuadendolo sempre al medesimo officio[31]: - O Socrate, componi e coltiva musica[32]. -Allora appresi che l’officio dell’uomo nobile sia ben quello di trovare studiosamente nel corso della sua vita una sene di musiche le quali, pur essendo vane, sieno rette da un sol motivo dominante ed abbiano l’impronta d’un solo stile. Onde mi parve che da qui all’Antico - eccellentissimo nell’arte di elevare l’anima umana all’estremo grado del suo vigore - potesse anche oggi discendere un grande ed efficace insegnamento. [...]
Così l’Antico m’insegnò la commemorazione della morte in un modo consentaneo[33] alla mia natura, affinché io trovassi un pregio più raro e un significato più grave[34] nelle cose a me prossime. E m’insegnò a ricercare e discoprire nella mia natura le virtù sincere come i sinceri difetti[35] per disporre le une e gli altri secondo un disegno premeditato, per dare a questi con pazienti cure un’apparenza decorosa, per sollevar quelle verso la perfezione somma. E m’insegnò ad escludere tutto ciò che fosse difforme alla mia idea regolatrice, tutto ciò che potesse alterare le linee della mia imagine, rallentare o interrompere lo sviluppo ritmico del mio pensiero. E m’insegnò a riconoscere con sicuro intuito quelle anime su cui esercitare il beneficio e il predominio o da cui ottenere una qualche straordinaria rivelazione. E anche mi comunicò infine la sua fede nel demònico[36]; il quale non era se non la potenza misteriosamente significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur da lui medesimo nella sua persona mai[37]. Pieno di tale ammaestramento e solitario, io mi posi all’opera con la speranza di riuscire a determinar per un contorno preciso e forte quella effigie di me alla cui attualità avevan concorso tante cause remote, operanti da tempo immemorabile a traverso un’infinita serie di generazioni. La virtù di stirpe, quella che nella patria di Socrate nomavasi eugenèia[38], mi si rivelava più gagliardamente come più fiero diveniva il rigore della mia disciplina; e mi cresceva l’orgoglio insieme con la contentezza, poiché pensavo che troppe altre anime sotto la prova di quel fuoco avrebbero rivelato o prima o poi la loro essenza volgare. [...] Solo, senza consanguinei prossimi, senz’alcun legame comune, indipendente da ogni potestà familiare, padrone assoluto di me e del mio bene, io aveva allora profondissimo in quella solitudine - come in nessun altro tempo e in nessun altro luogo - il sentimento della mia progressiva e volontaria individuazione verso un ideai tipo latino. Io sentiva accrescersi e determinarsi il mio essere nei suoi caratteri proprii, nelle sue particolarità distinte, di giorno in giorno, sotto l’assiduo sforzo del meditare, dell’affermare e dell’escludere. L’aspetto della campagna, così preciso e sobrio nella sua membratura e nel suo colore, m’era di continuo esempio e di continuo stimolo, avendo pel mio intelletto l’efficacia di un insegnamen­to sentenziale[39]. Ciascuno sviluppo di linee, in fatti, s’inscriveva sul cielo col significato sommario di una sentenza incisiva e con l’impronta costante di un unico stile. [...]
Chiedevano intanto i poeti[40], scoraggiati e smarriti, dopo aver esausta la dovizia delle rime[41] nell’evocare imagini d’altri tempi, nel piangere le loro illusioni morte e nel numerare i colori delle foglie caduche; chiedevano, alcuni con ironia, altri pur senza: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi esaltare in senari doppi il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l’ansia dei decasillabi la caduta dei Re, l’avvento delle Repubbliche, l’accesso delle plebi al potere[42]? Non è in Roma, come già fu in Atene, un qualche demagogo Cleofonte[43] fabbricante di lire? Noi potremmo, per modesta merce­de[44], con i suoi stessi strumenti accordati da lui, persuadere gli increduli che nel gregge è la forza, il diritto, il pensiero, la saggezza, la luce...».
Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: «Difendete la Bellezza[45]! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! Poiché oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa[46] che li predilige, come diceva Odisseo, difendetevi con tutte le armi, e pur con le beffe se queste valgano meglio delle invettive[47]. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni le punte del vostro scherno. Fate che i vostri sarcasmi abbiano tal virtù corrosiva che giungano sino alla midolla e la distruggano. Bollate voi sino all’osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodaiuoli[48]. Le vostre risa frenetiche, per cui i fautori dei valori dell’uguaglianza e salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia[49] vociferare nell’assemblea. Proclamate e dimostrate per la gloria dell’Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi. Proclamate e dimostrate che le loro mani, a cui il vostro padre Dante darebbe l’epiteto medesimo ch’egli diede alle unghie di Taide[50], sono atte a raccattar lo stabbio[51] ma non degne di levarsi per sancire una legge nell’assemblea. Difendete il Pensiero ch’essi minacciano, la Bellezza ch’essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete l’antica liberale opera[52] dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo[53]. Un ordine di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la di­struzione alla distruzione[54]!».

La disarmonia della realtà
Da L’umorismo
[55] di Luigi Pirandello[56]
L’immagine di una vecchia signora che, vestita e truccata come una giovinetta, induce il lettore al riso, fa da sfondo al discorso pirandelliano sull’umorismo.

Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira[57]; ma gli si pcjne innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene[58]; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione[59], un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario[60].
Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca[61], e poi tutta goffamente imbellettata e parata[62] d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta[63] e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario[64]. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie[65], riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico[66].
[...] L’arte in genere astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così degli individui come delle cose, l’idealità essenziale e caratteristica. Ora pare all’umorista che tutto ciò semplifichi troppo la natura e tenda a rendere troppo ragionevole o almeno troppo coerente la vita[67]. Gli pare che delle cause, delle cause vere che muovono spesso questa povera anima umana agli atti più inconsulti assolutamente im­prevedibili, l’arte in genere non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte, in cui tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro: l’anima istintiva, l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale[68]? E secondo che domina questa o quella, s’atteggia la nostra coscienza; e noi riteniamo valida e sincera quella interpretazione fittizia di noi medesimi, del nostro essere interiore che ignoriamo, perché non si manifesta mai tutt’intero, ma ora in un modo ora m un altro, come volgano i casi della vita[69].
Sì, un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino m lotta elementi opposti e repugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene, l’umorista fa proprio l’inverso: egli scompone il carattere nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze[70]. L’umorista non riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri, gli eroi; egli, per conto suo, sa che cosa è la leggenda e come si forma, che cosa è la storia e come si forma: composizioni tutte, più o meno ideali, e tanto più ideali forse, quanto più mostran pretesa di realtà: composizioni ch’egli si diverte a scomporre; né si può dir che sia un divertimento piacevole[71].

La non scelta dell’inetto
da Senilità
[72] di Italo Svevo[73]
Scritto fra il 1892 e il 1897, ‘Senilità’ viene pubblicato a, puntate sul quotidiano triestino «L’Indipendente» e nel 1898 esce presso l’editore Vram. Svevo da vita a un romanzo delicato ed elegante, pervaso da un’ambiguità sottile, non scevro da influssi autobiografici, il cui protagonista è Emilia Brentani, un impiegato di trentacinque anni.
Angiolina, una giovane prorompente e senza scrupoli, ed Emilio, un impiegatucolo con velleità letterarie avviato a una “senilità” psicologica, ossessionato dai “pericoli” della vita e incapace di abbandonarsi al “godimento”, sono i protagonisti di un rapporto complesso che si snoda lungo tutto il romanzo, anche quando la donna scomparirà dalla scena e dalla vita di Emilio.
Senilità segna l’allontanamento di Svevo dal Naturalismo e un ulte­riore passo verso lo scandaglio della vita psicologica e coscienziale dei personaggi. Cessa, infatti, con questo secondo romanzo, la tragedia dei rapporti sodali che in Una vita hanno imbrigliato e condizionato Alfonso; il dramma ora è invece tutto inferiore. Il protagonista, completamente lontano dai personaggi dei romanzi di Verga e di Zola, vive tutto nelle sue elucubrazioni mentali e nelle sue costruzioni ideali, vittima peraltro della sua inettitudine e della sua meschinità. L’inetto di Senilità si connota, ancor di più rispetto al romanzo precedente, come “contemplatore”, creando -per dirla con Eugenio Montale - un «quadrilateroperfetto» fra “contemplatori” (Emilio e Amalia) e “lottatori” (Balli e Angiolina). Quest’accentuazione della caduta nella “contemplazio­ne” fa dissolvere quell’aura romantica che Svevo ha creato in Una vita intorno al suicidio di Alfonso. Inettitudine, dunque, in questa nuova opera significa essere incapaci di dare il giusto spazio alle passioni e illudersi di poterle frenare. Emilio, infatti, le vorrebbe controllare e razionalizzare sia nella propria sfera personale sia nei riguardi di Angiolina: nei suoi confronti mette in atto un’inutile opera di “educazione” per frenare l’esplosione delle sue pulsioni erotiche. L’assurdo e l’imspiegabile fanno, in tal modo, la loro irruzione nella narrativa sveviana. Anche la malattia di Amalia si configura come l’allusione a un misterioso “male di vivere”.

Subito[74], con le prime parole che le rivolse[75], volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso[76] così: - T’amo molto e per il tuo bene[77] desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti. - La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po’ più franca avrebbe dovuto suonare così: - Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia[78].
La sua famiglia? Una sorella non ingombrante né fisicamente né moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per carattere o forse per destino[79]. Dei due, era lui l’egoista, il giovane; ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò non impediva a lui di parlarne come di un altro destino importante legato al suo e che pesava sul suo, e così, sentendosi le spalle gravate di tanta responsabilità, egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità[80].
A trentacinque anni si trovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza.
La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di una riputazioncella, - soddisfazione di vanità più che d’ambizione - non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancora meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia[81]. Il romanzo, stampato su carta cattiva[82], era ingiallito nei magazzini del libraio, ma mentre alla sua pubblicazione Emilio era stato detto[83] soltanto una grande speranza per l’avvenire, ora veniva considerato come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio artistico della città. La prima sentenza non era stata riformata, s’era evoluta. Per la chiarissima coscienza ch’egli aveva della nullità della propria opera, egli non si gloriava del passato, però, come nella vita così anche nell’arte, egli credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di prepa­razione, riguardandosi[84] nel suo più segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in attività. Viveva sempre in un’aspettativa, non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli dal cervello, l’arte, di qualche cosa che doveva venirgli[85] di fuori, la fortuna, il successo, come se l’età delle belle energie per lui non fosse tramontata.
Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch’ella ad ogni passo toccava con l’elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva[86]. Quando credette di aver compreso disse: - Strano - timidamente guardandolo sottecchi[87].
- Nessuno mi ha mai parlato così. - Non aveva compreso e si sentiva lusingata al vederlo assumere un ufficio[88] che a lui non spettava, di allontanare da lei il pericolo. L’affetto ch’egli le offriva ne ebbe l’aspetto di fraternamente dolce.
Fatte quelle premesse, l’altro si sentì tranquillo e ripigliò un tono più adatto alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche[89] che nei lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare[90] e ringiovanire come se fossero nate in quell’istante, al calore dell’occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano, indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventù e bellezza[91] ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l’avvenire ch’ella, certo, non avrebbe compromesso. Egli s’era avvicinato a lei con l’idea di trovare un’avventura facile e breve, di quelle che egli aveva sentito descrivere tanto spesso e che a lui non erano toccate mai o mai degne di essere ricordate. Questa s’era annunziata proprio facile e breve. L’ombrellino era caduto m tempo per fornirgli un pretesto di avvicinarsi ed anzi - sembrava malizia! - impigliatosi nella vita trinata[92] della fanciulla, non se n’era voluto staccare che dopo spinte visibilissime. Ma poi, dinanzi a quel profilo sorprendentemente puro, a quella bella salute[93] - ai rétori[94] corruzione e salute sembrano inconciliabili - aveva allentato il suo slancio, timoroso di sbagliare e infine s’incantò ad ammirare una faccia misteriosa dalle linee precise e dolci, già soddisfatto, già felice[95].
Ella gli aveva raccontato poco di sé e per quella volta, tutto compreso del[96] proprio sentimento, egli non udì neppure quel poco[97]. Doveva essere povera, molto povera, ma per il momento — lo aveva dichiarato con una certa quale superbia – non aveva bisogno di lavorare per vivere. Ciò rendeva l’avventura anche più gradevole, perché la vicinanza della fame turba là dove ci si vuoi divertire. Le indagini di Emilio non furono dunque molto profonde ma egli credette che le sue conclusioni logiche, anche poggiate su tali basi, dovessero bastare a rassicurarlo. Se la fanciulla, come si sarebbe dovuto credere dal suo occhio limpido, era onesta, certo non sarebbe stato lui che si sarebbe esposto al pericolo di depravarla; se invece il profilo e l’occhio mentivano, tanto meglio[98]. C’era da divertirsi in ambedue i casi, da pericolare[99] in nessuno dei due. [...]
NOTE
[1] Il decadentismo: l’origine e la diffusione – Il decadentismo è un movimento che ha origine in Francia intorno al 1880 e annovera fra i suoi maggiori esponenti i poeti Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, che si richiamano tutti all’esempio di Baudelaire. Dalla Francia, il decadentismo si diffonde negli altri Paesi, assumendo forme e modi diversi.
In Italia, la stagione decadente è aperta da Pascoli e da D’Annunzio, ma al Decadentismo sono ascrivibili, in misura diversa, la maggior parte dei nostri scrittori del Novecento.
Il rifiuto del reale – Caratteristica fondamentale del decadentismo è il rifiuto della realtà concreta, di quella realtà che, invece, aveva suscitato l’interesse e l’impegno degli scrittori detti appunto realisti, soprattutto dei naturalisti francesi e dei veristi italiani. A tale rifiuto si accompagna la volontà di superare tale realtà, di evadere da essa.
L’evasione avviene per diverse vie, che danno luogo a posizioni diverse anche lettera­rie. Di esse le più significative sono il simbolismo e il superomismo
a) Il simbolismo – Per gli scrittori che sono definiti simbolisti la realtà concreta non conta per se stessa, ma solo in quanto rimanda ad un’altra realtà di cui essa è simbolo: - una realtà più profonda, sotterranea e spesso misteriosa, cui il poeta deve tendere e che deve cercare di far affiorare nella sua poesia.
b) Il superomismo – A volte invece l’evasione decadente dal reale porta a vagheggiare esistenze eccezionali, capaci di gesti eccezionali. Nasce così, sulla scia del pensiero del filosofo Nietzsche, il mito del superuomo, dell’uomo cioè che si sente superiore alle leggi che regolano la convivenza sociale e che considera quindi gli altri uomini come gregge da dominare e come trampolino di lancio per la sua affermazione. A quello del superuomo si collegano altri pericolosi miti: l’esaltazione della violenza, della guerra, dei gratuiti gesti di forza.
c) Altre forme di evasione dal reale – Altre volte l’evasione dalla realtà si manifesta in quello che è stato definito estetismo, cioè nel vagheggiamento di esistenze raffinatissime, che si svolgono in ambienti altrettanto raffinati e spesso artificiali.
A volte, infine, l’evasione avviene nell’esotismo, cioè nel sogno di vivere in paesi re­moti e dallo splendore intenso, dove siano possibili esistenze felici, sganciate da tutti i limiti della quotidianità.
Il rifiuto della razionalità - Comune a tutte queste posizioni dei decadenti è la sfiducia nella ragione e il rifiuto dei suoi strumenti conoscitivi e valutativi. Infatti, la realtà sotterranea postulata dai simbolisti non può essere raggiunta dalla ragione, ma può es­sere captata soltanto dall’intuizione. Così pure, i miti dell’estetismo e dell’esotismo nascono in dispregio della ragione, che ne denuncia l’arbitrarietà e l’inconsistenza. E non è certo giustificabile con la ragione la volontà di affermazione del superuomo, volontà che determina lo sconvolgimento di quei rapporti sociali, come il principio d’uguaglianza, il rispetto democratico, che la ragione ha costruito attraverso il tempo.
Le nuove tecniche espressive del decadentismo - La mutata visione della realtà determina il nascere di nuove tecniche espressive. Si instaura, così, un linguaggio che più che a narrare o a descrivere tende a suggerire, a orientare cioè l’intuizione dei lettori verso le zone sotterranee intraviste dal poeta. Questo nuovo linguaggio fa spesso leva, più ancora che sul significato vero e proprio dei vocaboli, sulle suggestioni musicali e coloristiche che da essi promanano e che vengono evidenziate con accorgimenti diversi dai diversi poeti.
[2] Giovanni Pascoli - Giovanni Pascoli è il poeta che ha segnato il passaggio dall’Ottocento al Novecen­to aprendo la via alla poesia moderna.
La vita – Nacque nel 1855 a San Mauro di Romagna, quarto di otto fratelli e il padre Ruggero era l’amministratore della tenuta La Torre dei principi Torlonia perciò la famiglia godeva di un certo benessere.
La fanciullezza del poeta trascorse serena: nel 1862 entrò nel collegio dei padri Scolopi ad Urbino, dove rimase fino al 1871.
Sulla sua fanciullezza gravò l’ombra dolo­rosa della morte del padre: il 10 agosto 1867, Ruggero Pascoli fu ucciso misteriosamente, mentre tornava a casa sul suo calesse, da nemici mai identificati e rimasti impuniti. Pascoli credette di individuarlo nell’amministratore che successe a suo padre nell’amministrazione della tenuta dei Torlonia e nella sua poesia lo rappresenta come il cuculo, uccello che non si crea il suo nido, ma che occupa quello degli altri.
Con la morte del padre, seguita l’anno seguente da quella di una sorella, poi, di seguito, da quella della madre e di due fratelli. L’indigenza entrava nella famiglia: mentre la famiglia Pascoli fu costretta ad abbandonare la casa in cui viveva, la morte della madre fu considerata dal poeta la tragedia maggiore, perché venne meno il nucleo familiare, il nido.
Questa precoce esperienza di dolore e di morte sconvolse profondamente l’animo del poeta, facendogli avvertire la profonda ingiustizia del mondo: una ferita non chiusa, che si tradusse in un senso sgomento del destino tragico e inesplicabile dell’uomo, e segnò il crollo di un mondo d’innocenza e di infanzia serena cui sempre il poeta aspirò con immutata nostalgia. Nelle sue poesie torna il ricordo della tragica morte del padre, unito al tema del «nido» distrutto dalla violenza degli uomini.
Pascoli continuò i suoi studi fra gravi difficoltà economiche, e poté frequentare a Bologna l’Università dove si iscrisse alla facoltà di lettere ed ebbe come maestro Carducci di cui seguì con interesse le lezioni solo con l’ausilio di una borsa di studio che vinse nel 1873.
Il periodo bolognese lo mise in contatto con il movimento anarchico e si avvicinò così agli ideali socialisti: i dolori e le privazioni, la sfiducia in una società che lasciava impunito il delitto, maturarono in lui un’amara volontà di rivolta e di giustizia perciò aderì all’Internazionale ed iniziò a frequentare Andrea Costa, capo dell’anarchismo romagnolo.
Nel 1879, in seguito a dimostrazioni connesse all’attentato dell’anarchico Passannante contro il re Umberto I subì alcuni mesi di carcere preventivo; quando vi uscì, riprese gli studi e da quel momento in poi non si occupò più di politica, essendone rimasto evidentemente spaventato.
Non era più un ribelle, ma un uomo che chinava il capo davanti all’oscuro destino: in seguito il suo spirito si andò via via placando e si acquietò in una caritatevole guardatura nei confronti di tutti gli aspetti della vita, del male come del bene. L’unico rimedio al male gli appariva ora la pietà e l’amore fraterno fra gli uomini, unico conforto al mistero insondabile della vita, una specie di amore cristiano senza tuttavia l’accettazione della trascendenza.
Nello stesso tempo, nasceva in lui l’ideale di ricostruire il proprio focolare domestico, con le due sorelle superstiti, Ida e Maria, di ritrovare così la pace nella quiete appartata e nell’intimità degli affetti.
Laureatosi in lettere nel 1882, iniziò la carriera di professore di latino e greco nei licei dì Matera, Massa, Livorno, mentre, per più anni, partecipò a concorsi di poesia latina ad Amsterdam, vincendoli.
Pubblicò nel 1891 la sua prima raccolta di liriche, Myricae, cui seguirono i Poemetti, i Canti di Castelvecchio e i Poemi conviviali.
Passato all’insegnamento universitario, ricopri la cattedra di letteratura latina pri­ma all’Università di Messina e poi a Pisa e a Bologna, dove fu chiamato nel 1906 a sostituire Car­ducci nella cattedra di letteratu­ra italiana.
In quegli anni la sua poesia mutò registro e passò dalla rappresentazione del mondo semplice della campagna, cantato in chiave simbolica, a temi storici e celebrativi, come dimostrano le raccolte Odi e inni, Poemi italici e Poemi del Risorgimento.
Un posto importante nella produzione poetica di Pascoli occupano anche le poesie latine, riunite nella raccolta Carmina (Carmi), con cui il poeta vinse molte volte il concorso di poesia latina di Amsterdam.
Grazie alla sicurezza economica raggiunta, potè acquistare a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca, una casa nella quale ricostituì, insieme alle sorelle, il nido familiare. Alternava il soggiorno bolognese con lunghi periodi trascorsi nella sua casa di Castelvecchio, che gli consentiva il contatto col mondo campagnolo da cui proveniva e che gli era umanamente e poeticamente congeniale.
Ammalatosi gravemente nel 1908, conti­nuò l’attività letteraria fin quasi alla morte, avvenuta a Bologna nel 1912 e fu sepolto a Castelvecchio, nella casa di campagna che dal 1895 era stato il suo rifugio più caro insieme alle sorelle.
Le opere - Numerose sono le sue raccolte poetiche: Myricae, Primi Poemetti, Canti di Castelvecchio, Nuovi Poemetti, Poemi conviviali, Odi ed Inni, Poemi italici, Le canzoni dì Re Enzo, Poemi del Risorgimento. Esperto conoscitore del mondo classico e della lingua latina, in latino compose due volumi di Carmina. Fu autore anche di prose: di argomento letterario e politico-patriottico.
I due versanti della poesia pascoliana - Le raccolte di liriche pascoliane si possono distinguere in due gruppi. Al primo gruppo appartengono le Myricae, i Primi e Nuovi poemetti, i Canti di Castelvecchio, i Poemi conviviali. Al secondo gruppo appartengono Odi ed Inni, le Canzoni di Re Enzo, i Poemi italici, i Poemi del Risorgimento, Le raccolte del se­condo gruppo sono di ispirazione prevalentemente civile e sociale e costituiscono, nel complesso, la produzione artisticamente meno felice di Pascoli; il quale invece dà il meglio di sé nelle raccolte del primo gruppo, le più caratterizzate da una sensibilità de­cadente.
a) La funzione del poeta: il «fanciullino» - La prima fase dell’attività poetica di Pascoli, testimoniata soprattutto dalla raccolta Myricae, si colloca in un momento in cui la cultura italiana, seguendo un percorso già avviato in Francia nel ventennio precedente da poeti come Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, sostituiva ad una rappresentazione realistica e oggettiva della natura, una visione simbolica, capace di cogliere il mistero che palpita in tutte le cose e che non può essere indagato e spiegato con gli strumenti della ragione e della scienza.
Come i simbolisti francesi, anche Pascoli è convinto che la funzione del poeta sia di cogliere la realtà nascosta che sta al di sotto delle forme visibili e tangibili, e di cui tali forme sono simbolo.
Nella prosa Il fanciullino egli sostiene che Solo il poeta ha la dote, che è propria dei fan­ciulli, di vedere al di là dell’apparenza delle cose; che solo il poeta sa prestare ascolto e dar voce a quel fanciullino, che ogni uomo continua a portare dentro di sé, può entrare in rapporto, attraverso percezio­ni puramente intuitive e alogiche, con questo mistero. È il poeta che scopre le relazioni più inconsuete fra aspetti della realtà assai distanti fra loro, che si stupisce di fronte agli elementi più semplici della natura, che carica oggetti e immagini di significati simbolici. Egli parla alle bestie, agli alberi, ai sas­si, alle nuvole, alle stelle...’popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei’. Una dote intuitiva che gli uomini co­muni perdono via via che diventano adulti.
b) I maggiori temi pascoliani - I temi ricorrenti nelle più significative raccolte pascoliane (Myricae, Canti di Castelvecchio, Primi e Nuovi poemetti) sono tratti dalla realtà quotidiana e autobiografica del poeta, una realtà dimessa e umile, spesso dolorosa: l’infanzia segnata dalla tragica morte del padre; la madre e alcuni fratelli prematuramente perduti e la famiglia disfatta; la casa dell’infanzia, la casa-nido, rievocata nei più diver­si stati d’animo e nelle diverse ore e stagioni, fiorita di rose e di gelsomini nella calura estiva, o immersa nell’ombra della sera, mentre intorno volano le farfalle notturne e si diffonde il profumo acuto delle peonie; la campagna romagnola, piena di voci nella stagione dei lavori agricoli, o malinconica nell’abbandono autunnale; il collegio di Urbino, dove il poeta ha trascorso l’infanzia e dove i piccoli collegiali giocavano con gli aquiloni; il cimitero dove riposano i suoi morti, ed altro. È una tematica di cose sperimentate e vissute che, in astrat­to, potrebbero anche essere il bagaglio di uno scrittore realista, ma in Pascoli i dati concreti, pur rappresentati con attenta precisione, costituiscono solo il punto di parten­za dal quale le liriche muovono per suggerire altri temi e valori di cui la realtà presen­tata è simbolo: valori più vasti, che coinvolgono aspetti fondamentali e generali dell’esistenza umana.
c) Dalla realtà al simbolo: la novità di Myricae – Questo nuovo modo di cantare la natura costituì l’elemento di novità della raccolta poetica Myricae, la prima e forse la più amata da Pascoli.
L’opera fu pubblicata in una pri­ma edizione di 22 poesie nel 1891; il poeta però non smise mai di arricchirla e rivederla nel corso della sua vita, tanto che l’ultima edizione del 1903 comprendeva 156 componimenti.
Il titolo deriva da un verso della quarta Ecloga del poeta Virgilio: iuvant arbusta humilesque myricae, «piacciono gli alberi e le umili tamerici». Con esso Pascoli vuole alludere al tono volutamente basso della sua poesia, che rifiuta la retorica, il linguaggio solenne e ricercato e predilige termini quotidiani adatti a cantare le piccole cose, il mondo della natura e quello familiare. Dietro questa apparenza di sempli­cità si cela, però una ricercatezza espressiva che si affida al gioco delle onomatopee e delle corrispondenze foniche, e una visione del mondo che non si ferma alle apparenze, ma scopre negli og­getti più semplici e consueti significati profondi e spesso inquietanti.
Ad esempio, la breve lirica Lavandare può apparire, a prima vista, come un bozzetto di genere: una campagna autunnale, un aratro abbandonato, le lavandaie che sbattono i panni e cantano uno stornello. Ma attraverso questi elementi il poeta suggerisce altri significati; le figure, il paesaggio, le voci diventano il simbolo di una componente perenne dell’esistenza umana: la malinconia e l’abbandono.
Analogamente, la lirica Novembre, descrive quel particolare momento dell’anno che prende il nome di estate di San Martino. L’aria è limpida, il sole cal­do, tanto che si ha l’impressione di essere in primavera, Ma uno sguardo più attento rivela un mondo pri­vo di vita che si avvia malinconicamente verso l’inverno: la limpidezza del cielo quasi primaverile che contrasta con gli aspetti già invernali del paesaggio (rami secchi, terreno che suona «vuoto» sotto i passi, ed altro), propone, al di là del piano descrittivo, il tema del rapporto vita-morte, anzi della mor­te prevalente sulla vita. Anche la natura dunque inganna l’uomo, nascondendo dietro illusorie apparenze di vita la realtà della morte.
Le liriche Il lampo e Temporale, entrambe piccole ballate costituite da settenari, propongono una visione simbolica della natura, che appare attraversata da brividi e misteri.
La visione che emerge dalla brevissima lirica Il lampo è ben più angosciosa: la luce sinistra che appare e scompare all’improvviso rivela il mondo per quello che effettivamente è un luogo di sofferenza alla qua­le partecipano tutte le cose. L’immagine rassicurante della casa bianca è ben poca cosa rispetto al tumulto della natura, reso ancor più inquietante dal silenzio in cui si consuma la brevissima tragedia.
Temporale, infine, è la descrizione, condotta per rapide notazioni coloristiche, dell’avvicinarsi di un temporale: il cielo si fa scuro, in lontananza si ode il rumore del tuono, all’orizzonte balenano i primi lam­pi. In mezzo a una natura che si incupisce sempre più l’immagine di un casolare che si profila sullo sfondo appare rassicurante e protettiva. Ma è proprio cosi?
d) Il mondo classico pascoliano – II mondo classico, che gli offrì materia di ispirazione soprattutto nei Poemi conviviali, assume una dimensione nuova nella poesia pascoliana. Le ferme e nitide figure del mondo greco-romano, almeno quali la tradizione ce le ha tramandate, diventano anch’esse espressione delle inquietudini, delle ansie, dello sgomento del poeta di fronte alla vita e al suo mistero. Un esempio è Aléxandros: Alessandro Magno, che nella storiografia classica è celebrato per le sue doti di condottiero e di politico, si trasforma, nel componimento pascoliano, in un sognatore affascinato dall’ignoto che, giunto con le sue conquiste ai confini del mondo, si duole perché non gli resta più nulla da scoprire e quindi da sognare.
e) Il «linguaggio» pascoliano – Nei confronti del linguaggio poetico tradizionale, Pa­scoli compie un’autentica rivoluzione, che avrà grande influenza sulla poesia del Nove­cento.
Nel lessico: scompaiono i vocaboli aulici e arcaici. Il suo lessico è tratto dall’uso comune; egli usa anche voci gergali, termini tecnici derivati soprattutto dalla vita agrico­la; frequente l’uso di voci onomatopeiche (il verso dei vari uccelli, il don don delle campane).
Nella sintassi: al periodo ampio, costruito, proprio degli scrittori del passato, si sostitui­sce il periodo breve, con frequenti spezzature e sospensioni.
Nella metrica viene meno il verso compatto e sonoro e vi si sostituisce una versificazione spezzata, ricca di pause, di cesure, di riprese melodiche, con rime interne che danno particolare risalto ad alcuni vocaboli-chiave. Nel complesso, ne risulta una musicalità sommessa, ma estremamente articolata e mossa.
[3] Cebes Tebano: Cebete di Tebe è un personaggio del dialogo platonico Fedone che, parlando con Socrate, ipotizza che in ognuno di noi vi sia un fanciullino che ha paura della mone.
[4] tripudi: gioie.
[5] tuttavia: ancora.
[6] ruzzano: fanno chiasso.
[7] temono ... piangono: l’asindeto esprime a livello morfologico il susseguirsi delle sensazioni che investono allo stesso tempo il fanciullo reale, colui che diverrà poi adulto, e quello interiore, che è lo stupore poetico che rimane intatto in ognuno di noi.
[8] antica: perché è presente in ognuno sin dal primo uomo sulla Terra.
[9] tinnulo ... campanello: nell’espressione onomatopeica (parola o gruppo di parole il cui suono richiama il loro signifi­cato), attraverso l’iterazione delle doppie n-l, si riproduce il richiamo squillante (tinnulo) del fanciullino.
[10] distinto: in maniera chiara.
[11] perorare ... vita: occuparci di cose che consideriamo di vitale importanza.
[12] si pèrita: sta in soggezione. Il fanciullino è più imbarazza­to nei riguardi del giovane che dell’uomo maturo o del vecchio, perché, come viene spiegato subito dopo, il giovane sembra vergognarsi del suo passato troppo recente, e non rie­sce quindi ad apprezzare questa fonte interiore di saggezza e di poesia; invece, l’uomo, l’uomo riposato, è giunto in un’età in cui ritrova la sua pace ulteriore, la sua serenità e, perciò, riesce a provare un vero piacere e a cogliere le emozioni che solo il fanciullino è capace di suscitargli.
[13] vede ... vedere: la sensibilità del fanciullino supera la real­tà visiva, cogliendo le sensazioni che sottostanno a essa.
[14] ricordando ... mai: la visione del fanciullino è quella di una realtà inedita, prenatale, che è antecedente a quella che egli sta vivendo. È evidente in queste affermazioni come per Pascoli l’infanzia sia il presupposto che consente di recuperare una condizione originaria, autentica, ormai perduta.
[15] Egli è quello ... ragione: egli percepisce la presenza di una realtà più profonda, che va oltre quella che tutti vedono.
[16] Egli è quello ... ci salva: è proprio quando precipitiamo nel più profondo dolore che il fanciullino emerge e ci salva dallo smarrimento nel quale ci porterebbe il nostro lato più cupo proprio perché adulto.
[17] Egli fa ... donna: il fanciullino rende umano l’amore per­ché lo nutre di delicata sensibilità e puro affetto, liberandolo della componente primitiva, sessuale. È opportuno sottolinea­re il rifiuto pascoliano per il sesso, visto come espressione impura di violenza, di quella cattiveria e di quella prevarica­zione che concerne esclusivamente il mondo degli adulti, definito appunto un mondo di belve che ruggiscono (bramire).
[18] fanfare: musiche composte per gli eroi.
[19] pive: cornamuse.
[20] e in un cantuccio ... da allora: il fanciullino continua ad alimentare, anche in chi non crede più, quella fede religiosa che aveva nutrito le sue speranze da bambino.
[21] Egli d fa perdere ... riluce: è rilevante la straordinaria modernità di quest’affermazione se si riflette sull’accelerazio­ne temporale che caratterizza oggi il mondo degli adulti e la conseguente incapacità di soffermarsi su quelle piccole cose che riescono a toccare l’io più profondo, come quando si era bambini.
[22] egli è l’Adamo ... sente: dal rimando al passo della Genesi (II, 19-20), in cui si dice che Adamo da il nome a tutte le cose, appare evidente come la voce poetica del fanciullino sia per Pascoli l’unica possibilità di ricreare la realtà e ridarle il suo autentico significato.
[23] Egli scopre ... ingegnose: si pensi alle misteriose “corri­spondenze” che, secondo Baudelaire, si creano tra le cose per dar vita a un significato “altro” rispetto a quello logico e reale; la poesia coglie, in tal modo, i rapporti analogici tra la realtà, gli oggetti e le sensazioni.
[24] Impicciolisce … ammirare: è racchiusa in questa espressione la poetica delle liriche pascoliane, nelle quali egli porta in primo piano le piccole cose, in quanto in esse si ritrova l’originaria freschezza e poeticità, lasciando poi sfumare sullo sfondo i paesaggi.
[25] Né il suo linguaggio … parola: il linguaggio poetico, essendo simbolico, arricchisce la realtà con molteplici significati e, suscitando sensazioni e immagini, lascia intendere più di quanto non dica.
[26] a cui: in base al quale.
[27] Gabriele D’Annunzio: La vita - Nato a Pescara nel 1863 da famiglia agiata, Gabriele D’Annunzio, nel 1874 fu iscritto a Prato nell’allora famoso Collegio Cicognini dove si fece subito notare per l’irrequietezza e la vivacità del suo carattere, la palese tendenza al divertimento e allo scherzo malizioso e pesante. Ancora in collegio pubblicò, nel 1879, una raccolta in versi: Primo Vere.Conseguita nel 1881, la licenza liceale si stabilì a Roma dove entrò in contatto con ambienti sia letterari sia aristocratici, iniziando una fortunata attività di giornalista, di scrittore, di uomo di mondo. Si iscrisse quindi alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma, ma non la frequentò mai, perché impegnato in altri interessi di studio e l’abbandonò presto, già impegnato in collaborazioni giornalistiche e nelle prime fortunate prove di scrittore.
Fu nella redazione del Capitan Fracassa di Scarfoglio e lavorò alla Cronaca bizantina, un periodico fondato da Sommaruga. Sposò improvvisamente la duchessa Maria Harduin di Gallese, dopo una romantica e breve fuga in treno.
Negli anni successivi accentuò i tratti già presenti nei suoi primi scritti e divenne lo scrittore dell’alta società romana, della quale esaltò i riti mondani.
Nel 1889, dopo un soggiorno a Francavilla, compose Il Piacere.
Da Roma passò a Napoli, dove dal 1891 al 1893, abitò con Maria Gravina ed in questo periodo nacquero numerosi lavori come le Odi Navali, il Poema Paradisiaco e il Trionfo della Morte.
A Firenze, D’Annunzio si occupò della propria rinomanza, che coltivava con una vita volutamente sontuosa e con scandali calcolati abilmente. Tra i tanti gesti clamorosi vi fu una campagna elettorale che lo portò in Parlamento dove sedette all’estrema destra, facendosi notare per qualche clamoroso colpo di scena quale il passaggio nel 1900 all’estrema sinistra. Il soggiorno alla Capponcina fu all’insegna di altri amori, tra i quali la relazione con l’attrice Eleonara Duse che descrisse impietosamente nel romanzo Il Fuoco del 1910.
Nel 1910, oppresso dai debiti, si trasferì in Francia, ad Arcachon, presso Bordeaux, dove compose molte opere teatrali (come Le Martyre de Saint Sébastien, e poetiche come La Contemplazione della Morte e le Canzoni delle Gesta d’oltremare per l’impresa libica.
Nel 1915, Scoppiata la prima guerra mondiale e cominciata in Italia l’agitazione interventista, D’Annunzio Dal Francia ritornò in Italia dove diventò uno dei più fanatici interventisti, pronunciò da Quarto un discorso che apparve come un appello a correre in guerra.
Fervente interventista, La guerra gli offrì il momento più eroico della sua vita e l’occasione per le sue spericolate ed eccentriche gesta: la Beffa di Buccari, il volo su Trieste nel 1915 e un volo su Vienna nel 1918, coraggiose imprese caratterizzate da un individualismo che poteva essere sospetto di esibizionismo: Ferito in un incidente perdette l’occhio destro e durante la convalescenza scrisse Il notturno.Nell’immediato dopoguerra fu animatore di gesti nazionalisti e diffuse il mito della vittoria mutilata: L’ultima azione fu la marcia su Fiume, città della quale divenne legislatore sino al 1921 che mirava a rivendicare Fiume all’Italia contro le decisioni delle potenze alleate e del governo italiano stesso.
Trascorse l’ultimo periodo della vita in aristocratico isolamento in una villa presso Gardone Riviera da lui battezzata il Vittoriale, che trasformò in un mausoleo fastoso della sua vita e della sua opera: che trasformò in un mausoleo fastoso della sua vita e della sua opera e qui morì nel 1938.Le opere - La sua produzione è vastissima. D’Annunzio conobbe e assimilò la produzione del decadentismo straniero, soprattutto francese, ma anche del decadentismo inglese, nonché il romanzo introspettivo russo di Dostojeskij.
Gli anni di questa avida sperimentazione giovanile furono quelli che seguirono la conclusione dei suoi studi liceali, dal 1881 al 1893, e che egli trascorse prima a Roma, poi a Napoli. Appartengono a questi anni raccolte di liriche (le più famose sono Canto novo e il Poema paradisiaco), novelle e romanzi, in cui mise a frutto la lezione appresa dagli scrittori stranieri.
È autore di liriche (ricordiamo fra le molte raccolte, i quattro libri delle Laudi), di novelle (Le novelle della Pescara), di romanzi (Il piacere, il Trionfo della morte, Le Vergini delle rocce, L’innocente ed Il fuoco), di prose autobiografiche (il Notturno, le Faville del maglio, il Libro segreto), di opere teatrali (più famosa di tutta, la tragedia di argomento abruzzese La figlia di Jorio).
La poetica - Definito da B. Croce “dilettante di sensazioni”, D’Annunzio interpreta il gusto decadente e intende il poeta come soggetto inimitabile dotato di acuta sensibilità. L’arte è attività suprema, fortemente soggettiva ed esaltante.
Alla base del pensiero dannunziano è possibile riscontrare queste tre componenti: estetismo, panismo, superomismo.
Il Piacere è considerato la vera e propria “bibbia” del decadentismo italiano, in cui il protagonista incarna il simbolo della sfrenatezza sensuale che sfocia nella lussuria, generando insoddisfazione e inappagamento dei desideri. Andrea Sperelli è un personaggio autobiografico, poiché è l’incarnazione di quello che l’autore avrebbe voluto essere.
L’esteta vive da uomo fuori dal comune perché eccezionalmente dotato e raffinato. Nel romanzo il poeta rivela una ricerca della bellezza come prototipo di una donna affascinante e sfuggente, espressione di ciò che può ammaliare un esteta.
L’estetismo tende a rappresentare immagini cariche di compiacimento estetico. Il culto per la parola predilige quella provocatoria, suggestiva e la forma preziosa e barocca. Soprattutto in Alcyone l’autore esprime il panismo, il cui nome deriva dal dio Pan che tornato sulla terra, invita gli uomini a immergersi nelle cose, a immedesimarsi in esse; le parole e le immagini si fanno evanescenti, mentre il linguaggio è analogico ed evocativo.
Una concezione decadente della realtà consente di attribuire alla natura caratteristiche umane e all’uomo di immergersi nella natura. Si attenua fino quasi ad annullarsi la distinzione tra il soggetto-poeta e l’oggetto-natura.
Dietro alle parole c’è però il vuoto più completo di pensiero, ma soprattutto di sentimento. È riscontrabile nel poeta il desiderio di imporsi, di agire e ciò sconfina in megalomania già riscontrabile nel poeta adolescente che negli anni maturi risente della nuova filosofia tedesca (superomismo).
D’Annunzio, avendo rifiutato di porsi una problematica del vivere, si proiettò in una vita attiva e combattiva. Il suo vitalismo si rivelò in due sensi: come insofferenza di una vita comune e normale e come vagheggiamento della “bella morte eroica”. Egli perciò insiste sui temi della grandezza, dell’orgoglio, dell’eroismo estetizzante.
Costretto a reprimere gli impeti adolescenziali , seppe fondere vita e arte in una sintesi di eroismo e decadentismo. Egli determinò la svolta più importante del decadentismo, quella superomistica, a cui aderì dopo la lettura nietzschiana. Il superomismo si adeguò alla carriera tribunizia, ma prima ancora la via era stata imboccata con i romanzi “Il Trionfo della morte” (1894) e “ Le Vergini delle rocce” (1895) per proseguire con “Il fuoco” e “Forse che si forse che no” (1910) i cui protagonisti (Giorgio Aurispa, Claudio Cantelmo, Stelio Effrena e Paolo Tarsis) incarnavano la figura del superuomo tribuno proponendolo come il modello del nuovo capo politico, il cui compito era ricondurre “il gregge all’obbedienza”. In D’Annunzio il superuomo trovava la sua perfetta identificazione, con l’artista, la vita inimitabile diveniva l’arte stessa, banco di prova delle sperimentazione delle passioni e della volubilità dell’uomo. In lui non fu tanto la vita a tenere dietro l’arte, ma fu l’arte a seguire le eccentricità della vita e ciò costò al poeta un’accusa di divismo e superficialità.
È da notare che esiste, in contrapposizione ai due aspetti del vitalismo, un senso di stanchezza improvvisa: sentì il desiderio di purificazione, di innocenza e allora si rifugiò nei ricordi a lui più cari. L’opera che meglio esprime questa condizione è “Poema Paradisiaco“ (1893), in cui una buona assimilazione del simbolismo francese gli consentì di rinnovarsi in misura soddisfacente.
Vi è il passaggio dalla sensualità alla purezza e all’innocenza di una vita semplice. In questi improvvisi ripiegamenti interiori mancava una amara consapevolezza della caducità delle cose e della precarietà dell’uomo: questi motivi si potevano avvertire solo superficialmente, ma non c’era un sincero proposito di rinnovamento dello spirito.
Da un affannoso fiorire di sensazioni e di immagini si genera il “Notturno”, che egli compose al buio e nel quale si alternano e si intrecciano due motivi: il rimpianto dell’adolescenza e della vita in genere consumata e perduta; l’immediato rimpianto dell’azione di guerra, del rischio mortale del volo su Vienna. Il “Notturno”, nato come diario, si arricchisce di sogni, ricordi, visioni, apparendo come una autoglorificazione.
D’Annunzio si spoglia quindi di qualsiasi dimensione superumana e tensione vitalistica per attuare un sincero ripiegamento interiore
a) La donna e l’amore - D’Annunzio è stato definito da Croce “dilettante di sensazioni”; dilettantismo che sta nella disposizione verso la vita e la realtà: non è un carattere estetico, ma psichico.
Il poeta fu subito vittima di accuse di immoralità dopo la pubblicazione di “Intermezzo di rime” che egli stesso definì un “libercolo di versi inverecondi”, “il prodotto di una infermità, di una debolezza di mente, di una decadenza momentanea”. D’Annunzio si sentiva indebolito dall’amore e dai piaceri dell’amore.
L’amore non ha nulla in lui delle malinconie e delle fantasticherie dell’adolescenza, ma è un’esperienza caratterizzata dall’ambizione, da una complessa concezione della vita. Egli, infatti, ricercava negli amori un molteplice godimento: il diletto di tutti i sensi, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità. Essendo un esteta, anche nell’amore, traeva dalle cose molta parte della sua ebbrezza. Il poeta preparava con cura l’incontro amoroso, preoccupandosi di curare la sua casa fino a farla diventare un perfetto teatro e dagli oggetti sentiva sprigionarsi un gusto afrodisiaco.
L’amore è passione, compiacimento sensuale, si slega da qualunque vincolo morale e dall’istituzione del matrimonio. D’Annunzio trasferisce in poesia, con abile calcolo, le sue esperienza erotiche, alimentando così il suo personale mito di instancabile e straordinario amatore.Nel periodo romano utilizza le pagine della “Cronaca bizantina” per rendere pubbliche le occasioni della sua vita privata.
La figura femminile è connotata da accesa sensualità, da una bellezza seducente e raffinata e talvolta da una componente lussuriosa e aggressiva.
È significativa la versione dannunziana della storia di Francesca da Rimini. Mentre nell’episodio dantesco la protagonista conserva la delicatezza e il pudore, pur esprimendo la forza della passione, l’opera dannunziana diventa, secondo la stessa definizione dell’autore, un “poema di sangue e lussuria”.
b) Il mito del superuomo – Intorno al 1894-95, a seguito della lettura del filosofo Nietzsche, entra prepotente, nella produzione dannunziana, il mito del superuomo, cioè dell’uomo d’eccezione, superiore alla morale comune, nato per dominare gli altri uomini. Il tema del superuomo sarà presente, d’ora innanzi, nella molteplice e varia produzione del D’Annunzio: nei romanzi, in quasi tutte le tragedie, nei libri delle Laudi ad eccezione di Alcyone.
Al mito dell’uomo d’eccezione si accompagna quello della nazione d’eccezione, guerriera, dominatrice e civilizzatrice. D’Annunzio esalta perciò le guerre coloniali e vagheggia per l’Italia imprese di conquista e di espansione imperialistica.
Ma egli non si limitò a celebrare il superuomo nei suoi scritti; volle impersonarlo anche nella vita. Non di rado visse, magari coprendosi di debiti, come un principe del Rinascimento, fra splendidi arredi, levrieri e cavalli di razza. Combatté con grande coraggio nella prima guerra mondiale, ma non nella promiscuità delle trincee, bensì compiendo gesti vistosi, come il volo su Vienna, la beffa di Buccari, in cui appagava la sua individuale volontà di affermazione.
c) La «tregua» dell’Alcyone - Il terzo libro delle Laudi, Alcyone, rappresenta una tregua dello spirito del superuomo e un abbandono del poeta al mondo della natura. Il libro comprende le liriche ispirate prima da un soggiorno primaverile a Fiesole, poi (e sono le più numerose) da una estate marina in Versilia.
Caratteristica dell’Alcyone è l’immedesimazione e l’immersione del poeta nel grembo della natura, che gli si rivela attraverso le sensazioni che essa suscita e che D’Annunzio coglie con acutissima percezione: sensazioni di cose concrete (aghi di pino, frutti maturi, riverbero delle onde, pioggia che batte sugli alberi, ed altro), che, nei versi dannunziani, suggeriscono sapientemente l’atmosfera delle ore e della stagione, ma, nello stesso tempo, le inquietudini, o il senso di appagamento, che esse generano nel poeta.
d) Le opere «notturne» - L’aggettivo «notturno» è tratto per estensione dal titolo di un’opera dannunziana, Il Notturno, che il poeta compose durante la guerra, quando, ferito a un occhio, fu costretto a rimanere per lungo tempo nell’inerzia e nell’oscurità. È un’opera che esprime uno stato d’animo meditativo e doloroso. La denominazione di «notturne» fu perciò usata per indicare tutte le sue opere di taglio più pessimistico e meditativo (La contemplazione della morte, Il compagno dagli occhi senza cigli, ed altre). In tali opere, lontane dai trionfalismi e dagli orpelli abituali, la critica ha individuato alcuni dei momenti più riusciti della poesia dannunziana.
e) Il tecnico della parola - Già in un’opera giovanile il poeta affermava: «divina è la parola». E questo culto, quasi religioso, della parola è stato l’elemento caratterizzante della sua attività di scrittore.
Egli si vantò di conoscere più di ogni altro l’arte di «collocare le parole» nel periodo e nel verso. Sfruttò al massimo il valore musicale delle pause, che, isolando le parole, danno loro rilievo e consentono che la loro eco si dilati.
Una singolare abilità tecnica ebbe anche in campo metrico. Usufruì ed alternò i metri più diversi, che usò come strumenti raffinati per costruire quelle che egli chiama, con espressione derivata dalla musica, le sue «frasi musicali».
Questa eccezionale abilità tecnica, tuttavia, non fu sempre al servizio di un’autentica ispirazione. Nella vastissima produzione dannunziana non di rado le parole suonano a vuoto, compiaciute di se stesse e fine a se stesse. In questi casi, la poesia scade a retorica fastidiosa e stucchevole.
[28] Le vergini delle rocce - Ideato dal 1893 e composto tra il 1894 e il 1895, il romanzo esce nel 1895, prima sulla rivista diretta da Adolfo De Bosis «Il convito» e poi in volume, pubblicato dalla casa editrice Treves.
Ad esso D’Annunzio affida il nuovo messaggio ideologico cui era approdato agli inizi degli anni Novanta, sotto le suggestioni della conoscenza del pensiero di Nietzsche. Il protagonista della vicenda, Claudio Cantelmo, è infatti un essere eccezionale, un superuomo; pieno di disprezzo nei confronti della massa e della mediocrità borghese, convinto di poter generare un figlio destinato a risollevare l’Italia dalla sua desolante condizione e salvarla. Apparentemente dunque Claudio non ha più le debolezze, i lati oscuri e incerti caratteristici di Andrea Sperelli e degli altri personaggi dannunziani; in concreto, tuttavia, anch’egli finirà con lo sperimentare l’immobilità e il fallimento, a conferma del fatto che nell’immaginario dello scrittore pure il più energico vitalismo è intrecciato ad un senso di sconfitta, di perdita, di morte.
Claudio, giovane di origini nobili, nutre un profondo disgusto per la società italiana contemporanea, che gli appare sopraffatta dagli squallidi interessi borghesi per l’apparenza e il denaro, e sogna la conquista di Roma e la costituzione di un nuovo Stato. Si persuade che solo un figlio da lui generato potrà compiere questa straordinaria impresa. E allora, abbandonata Roma, ritorna nella sua terra natale, l’Abruzzo, dove si mette alla ricerca di una donna che sia degna di diventare sua moglie e madre di suo figlio. Le sue mire ricadono su tre fanciulle, appartenenti alla famiglia aristocratica dei Capece Montaga; Violante, Anatolia e Massimilla. Ma nessuna delle tre diventerà sua sposa; Claudio, infatti, non riesce a decidere quale sia la prescelta, mentre le tre vergini e la loro famiglia vengono avvolte da un destino di disfacimento e di morte.
[29] Domati ... accumulati: a parlare è il protagonista Claudio Cantelmo, che esprime le sue considerazioni sul superuomo, il nuovo eroe dannunziano che riesce con la volontà a domi­nare le energie vitali della prima giovinezza e a convogliarle in un’attività nuova e decorosa.
[30] Il mondo ... lavorare: è espressa qui la nuova fede di Cantelmo-D’Annunzio nel superuomo, l’eroe-intellettuale che supera la crisi dell’uomo decadente e si eleva sulla mediocrità del mondo borghese per affermare la sua sensibilità e la sua volontà.
[31] Officio: compito, dovere (latinismo).
[32] Socrate ... musica: così come Socrate considerò la filo­sofia la musica del mondo, D’Annunzio riscontra nella poesia la virtù sublime di sentire e cantare la musica.
[33] consentaneo: conforme.
[34] grave: profondo.
[35] le virtù ... difetti: il chiasmo (figura retorica che consiste nella disposizione in modo incrociato e speculare dei membri corrispondenti di una o più frasi) sottolinea l’importanza per il superuomo di unificare le sue virtù e i suoi difetti al fine di canalizzarli in un’unica fonte di energia positiva per realizzare le azioni eroiche.
[36] demònico: è il dàimon che Socrate sente dentro di sé, ossia la manifestazione della presenza del divino nell’uomo.
[37] il quale ... mai: D’Annunzio avverte il dàimon come il genio artistico, presenza dionisiaca che gli consente di realizzare una poesia potente, elevata.
[38] nomavasi eugenèia: si nominava (enclisi) eugenèia; il ter­mine eughèneia (è questa la corretta traslitterazione dal greco) significa proprio «nobiltà di stirpe» (letteralmente «di buona stirpe»). Il concetto rientra in quello di superuomo che genera una poesia nobile.
[39] sentenziale: composto di verità e precetti.
[40] Chiedevano intanto i poeti: D’Annunzio si interroga qui sul ruolo che debbano avere i poeti in una società nella quale hanno perso il loro prestigio.
[41] dopo... rime: dopo aver esaurito l’abbondanza delle rime. Viene qui tratteggiata la figura dell’intellettuale romantico e decadente, che reclama la bellezza antica.
[42] Dobbiamo... potere?: le domande, chiaramente ironiche, descrivono il poeta che esalta la vita democratica con il metro adoperato per le odi civili (senarii doppii ... decasillabi.
[43] Cleofonte: demagogo ateniese del V secolo a.C.; fu il fautore della guerra contro Sparta, ma, mancatogli il consenso popolare, venne accusato di tradimento dal partito oli­garchico.
[44] mercede: ricompensa.
[45] Difendete la Bellezza!: gli imperativi che da ora innanzi si susseguono impetuosi mostrano l’appello di D’Annunzio agli intellettuali a difendere l’aristocrazia della bellezza dalla volgarità del mondo.
[46] cantori ... Musa: i poeti.
[47] difendetevi... invettive: la tutela della bellezza deve esse­re attuata anche attraverso la satira dei valori borghesi.
[48] coloro ... chiodaiuoli: la similitudine enfatizza il pensiero di D’Annunzio della democrazia vogliono uniformare gli uomini così come il chiodaio uniforma le teste dei chiodi.
[49] stallieri della. Gran Bestia: i rappresentanti del popolo, riuniti in Parlamento, vengono qui assimilati agli stallieri (ser­vi delle stalle). L’espressione Gran Bestia deriva dall’Apocalisse e fu ripresa da Nietzsche per indicare la folla agitata nelle sue adunanze.
[50] a cui ... Taide: Taide era un’antica prostituta del mondo greco, che Dante, nel XVIII canto dell’Inferno, presenta im­mersa nello sterco a grattarsi: «...quella sozza e scapigliata fante / che là si graffia con l’unghie merdose» (w. 130-131).
[51] stabbio: letame.
[52] l’antica liberale opera: la poesia, prodotto di libertà.
[53] il Verbo: la Parola è vista da D’Annunzio come uno strumento di potere, per cui la poesia si coniuga con l’azione in un programma di predominio sulla massa da parte di pochi e nobili intellettuali capaci di trasformare la società con il pote­re della Parola, della cultura.
[54] Opponete ... distruzione!: ogni mezzo è lecito per il pre­valere della Bellezza, anche la distruzione della democrazia come risposta al tentativo di distruzione della Bellezza.
[55] L’umorismo - Pirandello spiega in questo saggio come la disgregazione dell’Io e l’indecifrabilità della realtà mettano in crisi i criterì portanti dell’arte tradizionale. Il quadro compatto e ordinato della rappresentazione naturalista si frantuma sotto l’urto della coscienza, che impone alle forme la sua soggettività disintegrata e caotica: per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte, in cui tutto è in fondo combinato, congegna­to, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro di noi quattro, cinque anime in lotta fra loro.
Anche nella creazione artistica per Pirandello, in polemica con Croce, assume un ruolo deter­minante la ragione, che attraverso il sentimento del contrario rovescia il senso abituale delle cose, sconvolgendo proporzioni, armonie, simmetrìe naturali o artificiali. L’arte umorìstica ri­nuncia al compito tradizionale di idealizzare la realtà o di rappresentarla nella sua apparenza immediata e tende invece a far emergere le contraddizioni e i contrasti della vita. Con un’azio­ne eversiva essa denuncia le piatte convenzionalità e le forme standardizzate dell’esistenza e s’accanisce a smascherare le rassicuranti illusioni dietro cui l’uomo moderno s’affanna a nascon­dere le proprie lacerazioni inferiori. E lo fa con un accanimento, con una tensione emotiva che assume a tratti le forme della violenza e dell’inquisizione persecutoria, che si ripercuote come una vibrazione sismica su tutti gli elementi dell’universo narrativo, arrivando a frantumarne le strutture tradizionali, che si conservano nel racconto solo come scheletri vuoti. Cosi lo spazio diventa la proiezione esterna detta vita psichica, animandosi di segni e valori simbolici, spesso minacciosamente allusivi a ima condizione carceraria,; il tempo, liberato dalle leggi meccaniche, si assolutezza e spazializza nell’eterno presente della coscienza; i corpi si deformano e si alterano manifestando all’esterno la condizione di alienazione e di angoscia esistenziale degli uomini; i fatti perdono la loro statica obiettività, immersi nel fluire caotico della vita e nella selva inestri­cabile delle interpretazioni individuali; le azioni, perduta ogni deterministica necessità, divenute orfane della legge della causalità, finiscono in balia dell’imprevedibile caprìccio del caso e ten­dono a mostrare il loro carattere velleitario e inconcludente.
[56] Luigi Pirandello - Per la profondità con cui rappresenta la crisi di valori della società borghese del tempo, l'opera di Pirandello viene considerata uno dei vertici del Decadentismo europeo: egli fu innovatore del romanzo, compositore di novelle interessanti, capaci di comunicare i suoi pensieri e la sua concezione della vita attraverso il mondo di carta di personaggi e situazioni, iniziatore di una forma nuova di teatro che coinvolgerà in modo molto profondo la produ­zione contemporanea e successiva.
La vita - Luigi Pirandello nacque presso Girgenti (oggi Agrigento), il 28 luglio 1867, da un'agiata famiglia della borghesia commerciale di origine ligure che si era tra­sferita in Sicilia fin dal 1700 per sfruttare alcune solfare della zona.
Dopo aver ricevuto in casa l'istruzione elementare, si iscrisse all'Istituto Tecnico, per poi passare al ginnasio, in quanto mostrava un forte interesse per gli studi umanisti­ci.
Nel 1880 si trasferì con la famiglia a Palermo; qui frequentò gli studi liceali, poi completati con l'Università, dapprima nel capoluogo siciliano, poi a Roma e a Bonn in Germania. Nella città tedesca conseguì la laurea nel 1891, discutendo una tesi in tedesco sui dialetti siciliani e presso la cui università ha in­segnato per un anno.
Tornato a Roma l'anno successivo, collaborò con alcune importanti riviste letterarie e fu introdotto negli ambienti culturali della capitale.
Nel 1894 a Girgenti sposò Maria Antonietta Portulano, figlia di un socio del padre; dal 1897 per molti anni fu professore presso la facoltà di Magistero dell'Università di Roma.
Nella vita dello scrittore, per il resto piuttosto tranquilla, fu molto doloroso e condizionante l'episodio della malattia mentale della moglie, che non resse al disastro economico della famiglia a causa di un allagamento della miniera in cui il padre di Pirandello e la famiglia della moglie avevano impiegato gran parte dei loro capitali (1903).
Il disastro economico costrinse Pirandello a esigere un pagamento per le sue prestazioni letterarie che prima aveva reso per lo più gratuitamente.
Dal 1909 collaborò al Corriere della Sera, su cui vennero pubblicate molte sue novelle.
Nel 1904 fu pubblicato Il fu Mattia Pascal.
Fra il 1910 e il 1915 una serie di opportunità favorevoli consentì a Pirandello di affrontare l'attività teatrale, che in seguito assorbì sempre più le sue energie: questa prima fase del teatro di Pirandello è di ispirazione regionale, ma essa viene presto superata a favore di una svolta ispirata a tematiche e situazioni di caratte­re più generale.
Nel 1914 fu pubblicato I vecchi e i gio­vani, grande affresco storico incentrato sul motivo, ricorrente nella narrativa sici­liana, della profonda delusione di fronte agli ideali risorgimentali.
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale causò nella famiglia una serie di sof­ferenze, legate all'internamento in un campo di concentramento austriaco del figlio Stefano, alla partenza per la guerra dell'altro figlio maschio, Fausto, e all'aggravarsi della malattia mentale della moglie, che venne internata in una casa di cura nel 1919.
Ciò nonostante nel 1917 inizia la seconda fase del teatro pirandelliano in cui vanno collocati capolavori come Così è (se vi pare) del 1917, Sei personaggi in cerca d'autore del 1921, opera che scon­volge i canoni della drammaturgia tradizionale e che ottenne un grande succes­so internazionale, ed Enrico IV del 1922.
Nel 1924 Pirandello aderì pubblicamente al Fascismo: si trattò di un'ade­sione più di interesse che di sostanza. Dal 1925 assunse la direzione artistica del Teatro d'arte di Roma, presso cui in seguito lavorò la giovane attrice Marta Abba, primadonna della Compagnia e ispiratrice delle opere dell'autore.Del 1926 è la pubblicazione in volume del romanzo Uno, nessuno, centomila, che già nel titolo esplicita il motivo della scomposizione della personalità del­l'uomo in molte sfaccettature quanti sono gli uomini che gli vivono intorno, osservandolo e entrando in rapporto con lui.
Gli ultimi anni della sua vita furono segnati da un notevole successo: nel 1929 fu chiamato a far parte della Reale Accademia d'Italia; nel 1934 gli fu con­ferito il premio Nobel per la letteratura.
Morì nel dicembre del 1936 mentre assisteva alle riprese del film tratto dal suo romanzo Il fu Mattia Pascal.
Le opere – Pirandello iniziò a scrivere poesie che presto abbandonò a favore del genere narrativo. Dopo la pubblicazione su riviste di alcuni racconti, Pirandello diede alle stampe nel 1901 il romanzo L'esclusa, in cui compaiono non pochi temi caratteristici delle sue opere più mature, tra cui il contrasto tra apparenza e realtà e la frantumazione del concetto di verità.
Pirandello nelle sue opere, siano esse romanzi, novelle o opere teatrali, ricorrono i medesimi temi, che nascono da una spregiudicata volontà di scandaglio della natura umana, riflette le inquietudini del suo tempo e se ne fa interprete.
Perciò, se la sua opera appartiene per buona parte al periodo anteriore alla prima guerra mondiale, egli ha ottenuto la fama maggiore ne­gli anni del dopoguerra, quando queste inquietudini diventavano più diffuse e sensibili.
Pirandello è autore di novelle (Novelle per un anno), di romanzi (L’esclusa, Il fu Matila Pa­scal, I vecchi e i giovani, Uno, nessuno, centomila) e di una vastissima produzione tea­trale (Enrico IV; Pensaci, Giacomino; Così è se vi pare; Il giuoco delle parti; Diana e la Tuda; La signora Morli uno e due; Sei personaggi in cerca di autore; per citare solo alcuni drammi) con la quale si è affermato in Italia il cosiddetto «teatro d’idee». Importante anche il suo saggio sull’Umorismo.
«La maschera e il volto» - Ogni essere umano - dice Pirandello - è fissato, bloccato in una specie di maschera immobile che Io fa apparire sempre uguale a se stesso. Ma l’individuo non è fisso, immobile, non è cioè quello della «maschera», ma è in continua trasformazione; ogni persona non è mai, nel tempo, uguale a se stessa: il buono non è sempre buono, il furbo non è sempre furbo ed altro L’uomo di oggi, in altre parole, non è lo stesso dell’uomo di ieri, né di quello che sarà domani. «Non c’è uomo - scri­ve lo stesso Pirandello - che differisca più da un altro che da se stesso nella successio­ne del tempo».
La «maschera» diventa cosi una prigione della nostra vera natura; a volte diventa così soffocante e intollerabile che si tenta di spezzarla, di uscirne fuori, col rischio di mettere a repentaglio la propria posizione sociale, di essere considerati dei pazzi. È questo il tema di alcune tra le più felici novelle pirandelliane, come La carriola e Il treno ha fischiato. Ma esso è presente anche in altri numerosi scritti, il più importante dei quali è il romanzo Il fu Mania Pascal, dove il protagonista approfitta di alcune circo­stanze favorevoli per buttar via il suo se stesso tradizionale, per darsi un altro nome e un’altra vita; ma l’esperimento non gli riesce, ed egli è costretto a ritornare nella sua «maschera».
Che cosa è la verità - Per Pirandello non esiste una sola verità, ma tante verità quanti sono gli uomini; il mondo, perciò, risulta privo di certezze obiettive. Nel romanzo Uno, nessuno, centomila, il protagonista si accorge, ad un tratto, che coloro che lo circondano, a cominciare da sua moglie, Io vedono ognuno in modo diverso dall’altro e tutti poi diversamente da come egli vede se stesso. Sente così la sua personalità come polverizzarsi; non è più uno, ma centomila e perciò nessuno. Analogamente, nella commedia Così è (se vi pare), la giovane donna, sulla cui identità corrono voci contraddittorie, incalzata dalla curiosità degli altri personaggi, si presenta velata sulla scena e dichiara: «La verità? è solo questa... Io sono colei che mi si crede».
Il «caso» e lo scacco - Spesso nell’opera pirandelliana il susseguirsi delle azioni non è determinato da un controllabile e logico rapporto di causa e di effetto, ma da spinte imprevedibili, dal «caso» appunto. Il caso scompiglia le programmazioni razionali e orienta arbitrariamente le vicende.
Da questa situazione deriva all’uomo un senso di insicurezza, di precarietà, di sfidu­cia in se stesso, nelle sue decisioni e nelle sue azioni, di cui non può prevedere e controllare le conseguenze. La più semplice ed in sé innocua delle sue azioni può infatti, per effetto del caso, determinare conseguenze imprevedibili e a volte sgomentanti.
Altro tema pirandelliano è quello dello scacco, del fallimento, che è comune agli individui e alle intere società. Esso si lega, in parte, al tema del caso, perché è proprio quest’ultimo a togliere all’uomo la fiducia di poter orientare il suo destino e di agire positivamente di conseguenza. I personaggi di una novella pirandelliana, Notte, concludono tristemente che il fallimento è l’essenza stessa della vita, nella quale non si può sapere «perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire».
L’umorismo pirandelliano - Queste idee trovano conferma nel Saggio sull'umorismo, del 1908, testo fondamentale della riflessione dell'autore sull'arte e sulla vita.
La prima idea su cui si basa la sua concezione della vita è la netta opposi­zione - chiamata antinomia, o dicoto­mia - tra vita e forma. La vita è flusso continuo, movimento incessante grazie al quale l'individuo, che pure mantiene un'identità di fondo dalla nascita alla morte, tuttavia varia atteggiamenti, idee, comportamenti. La forma, al contrario, è l'insieme delle convenzioni sociali che paralizzano il flusso della vita, imponendo rapporti e atteggiamenti ste­reotipati, accettati dalla collettività in cui uno è inserito.
L'uomo risulta pertanto inguaiato dalla forma, impossibilitato ad imprimere se stesso, a manifestare le sue esigenze più profonde. Solo in rari momenti egli riesce a emergere e a imporsi. Così si determina di necessità una profonda differenza tra l'essere - quanto ciascuno sente di se stesso - e l'apparire il modo di vivere condizionato dalle inconsuetudini della società. L'uomo spes­so è costretto a portare una maschera, che le autenticità ai suoi gesti, ai suoi comportamenti. Egli così si adegua alla forma che la società gli vuole imporre, ma con gravissime conseguenze sulla sua dimensione vitale più autentica.
Altro elemento cardine del pensiero dell'autore è il concetto di relativi­smo, ossia la certezza che non esiste una verità universale, ma che ogni singolo individuo è portatore della sua verità, spesso sconosciuta agli altri, che non la possono pertanto comprendere e giudicano comportamenti e azioni degli uomi­ni solo dal loro limitatissimo punto di vista.
Ne deriva il dramma dell'impossi­bilità di comunicare, in quanto mancano comuni termini di riferimento. Un individuo spesso non conosce il dramma del suo simile, si limita a vedere un comportamento esteriore, che pure giudica sulla base di categorie sue, non di quelle dell'altro, a lui sconosciute. Da qui la solitudine che avvolge i personaggi. L'uomo è solo nell'avventura dolorosa della vita, spesso ritenuto pazzo quan­do m rari momenti ritrova se stesso, chiuso nelle sue ragioni, esposto al rischio del ridicolo e dell'incomprensione.
L'autore, per far comprendere il suo concetto di umorismo, riferisce un esem­pio efficacissimo: un'anziana signora, con i capelli ritinti, tutti unti non si sa da quale orribile manteca e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili provoca, a chi la vede, il riso, proprio perché si avverte che è diversa da quanto ci si aspetterebbe di vedere. Ma se si riesce a fare un passo avanti, e si riflette sul fatto che ella non prova piacere a pararsi così...ma che forse soffre e lo fa sol­tanto perché pietosamente s'inganna che riesca a trattenere a sé l'amore del mari­to più giovane di lei, allora si riesce a provare pietà per il personaggio. Si comprende meglio allora la sua umanità; inoltre gli aspetti grotteschi del suo comportamento, tramite la riflessione, stimolano la pietà, la comprensione per il suo dramma.
Lo scrittore nelle sue opere dovrà, pertanto, mettere in primo piano soprattutto gli aspetti profondi, inconsueti, assurdi della realtà. Il perso­naggio risulterà frammentato e disgregato: uno, nessuno, centomila, sintesi artistica di riso e di pietà.
L’amaro destino degli uomini è guardato da Pirandello attraverso il filtro dell’umorismo, che nasce, come dice lo stesso Pirandello, allorché di una situazione a prima vista comica, si vede successivamente anche il risvolto doloroso, che trasforma il primo moto di comicità in sorriso dolente ed amaro.
[57] nella concezione ... si rimira: nell’opera umoristica la riflessione non si limita a un ruolo passivo nella creazione.
[58] ma gli si ... spassionandosene: la ragione sottopone il sentimento ad analisi lucida e distaccata.
[59] ne scompone... scomposizione: l’azione della ragione rompe l’apparente unità dell’immagine sorta dal sentimento.
[60] sentimento del contrario: con quest’espressione Pirandello indica la nuova visione della realtà, prodotta dalla frantumazione del sentimento a opera della ragione.
[61] manteca: unguento
[62] imbellettata e parata: truccata e vestita.
[63] a prima giunta: a prima vista.
[64] avvenimento del contrario: per Pirandello il comico nasce automaticamente dalla percezione di un’immagine difforme dalle aspettative comuni.
[65] la canizie: il grigiore dei capelli.
[66] Ed è... umoristico: la differenza consiste nella compresenza, nell’umorismo, di pietà e riso.
[67] L’arte... vita: l’arte tradizionale rappresentando l’universale e il caratteristico tradisce la natura molteplice e variabile della vita.
[68] Ma se noi... sociale?: le molteplici personalità presenti nella coscienza di ogni individuo rendono impossibile la rap­presentazione unitaria di un personaggio.
[69] E... vita: gli uomini sono portati a riconoscersi per interi in quella parte della loro personalità che si afferma temporanea­mente sulle altre in base alle circostanze.
[70] l’umorista... incongruenze: l’arte umoristica si pone il compito di andare oltre le apparenze e cogliere il carattere contraddittorio delle cose.
[71] composizioni ch’egli... piacevole: l’arte umoristica rivela le incertezze e il disorientamento dell’uomo.
[72] Senilità – Emilio Brentani, alimentando i suoi sogni di gloria letteraria, trascorre la sua vita piatta, e monotona insieme alla sorella Amalia, una zitella invecchiata anzitempo, che gli fa quasi da madre. Il momento dell’evasione da questo mondo grigio sembra venire da una donna, Angiolina, che gli offre l’idea allettante di un’avventura facile e breve. Ma verso questa donna Emilio ha un atteggiamento ambiguo. Nelle sue fantasticherie, per una sdolcinata sentimentalità di letterato, egli la indica fra sé e sé con il nome di Ange, vezzeggiativo di Angela. E, dopo il primo appuntamento in cui ella gli rivela la sua precedente storia d’amore, egli decide di educarla: vivendo con lei in una Trieste policroma tra mare e monti, egli è disposto a sacrificare tutto per questo suo travolgente amore. Un aspetto del tutto diverso di questa donna emerge dall’altro nome che Emilio le dà: la chiama, infatti, Giolona per indicare la sua sensualità, quando ne parla con il suo amico, lo scultore Stefano Balli, un fortunato dongiovanni. Una sera una terribile rivelazione sconvolge Emilio: entrato nella stanza di Angiolina, vede esposte tutte le foto degli uomini con cui ella ha avuto precedentemente delle relazioni. Viene così travolto da sensazioni diverse e contrastanti: la gelosia verso la donna, la forza comunque persistente della passione, la consapevolezza di aver ingannato gli altri sull’importanza della sua relazione con lei. Un altro elemento si aggiunge a complicare la situazione psicologica di Emilio: egli scopre che la donna sta per sposare Volpini, un sarto, che l’avrebbe fatta sua garantendole un contratto notarile. Ora Angiolina gli appare una donna che si vende agli altri; l’uomo si ferma dunque a osservarla: ogni suo gesto è un civettare costante e fastidioso, manifestazione di un’insaziabile volontà e voluttà di piacere. Addirittura Emilio avverte quasi come una colpa la sua soggezione alla donna, ancora da lui fortemente amata. Invoca, perciò, l’aiuto di Stefano Balli, il cui inserimento tra Emilio da una pane e Angiolina e Amalia dall’altra sortisce degli esiti imprevisti e disastrasi. Entrambe le donne, infatti, si innamorano di Stefano: Angiolina, che gli fa da modella, viene presa da improvvisa passione per lui, mentre Amalia, segretamente ma vanamente innamorata di lui, ricorre come droga all’etere profumato per dimenticare la delu­sione amorosa, contraendo una grave polmonite.
Emilio, dopo aver rotto la relazione con la donna poiché si accorge dei suoi tradimenti, assiste alla morte della sorella. Il romanzo si conclude con la solitudine del protagonista, ossessionato da un assurdo sogno alimentato dalla perdita delle due donne: la notizia che la sua Ange è fuggita da Trieste con uno dei suoi tanti amanti gli dà l’impressione che sia fuggita da lui la vita stessa. Egli guarda alla sua esistenza passata come un vecchio fa con la sua giovinezza; nel suo ricordo deformato e allucinato da una senilità fisica, e mentale vede entrambe le donne mesco­late fra loro e vagheggia un’unica ideale, ma irreale, creatura femminile: bella e giovane come Angiolina e sensibile come Amalia. In realtà la conciliazione fra le due figure è solo fittizia, frutto della sua mente di letterato ozioso. La sorella, infatti, è come se fosse morta per la seconda volta; Angiolina, invece, gli appare mentre pensa e piange: pensa come se avesse capito il mistero dell’universo e piange come se il mondo si fosse chiuso ai suoi desideri.
[73] Italo Svevo – Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nasce a Trieste nel 1861; a dodici anni vie­ne mandato in Baviera a compiere gli studi, che continua poi a Trieste frequentando l’Istituto Superiore di Commercio. In seguito al fallimento dell’industria paterna si im­piega in una banca. Nel 1896 sposa una lontana parente, Livia Veneziani, e successiva­mente si impegna nella conduzione dell’industria di vernici sottomarine del suocero. Nel frattempo non intermette i suoi interessi letterari, e collabora a giornali locali. Nel 1892 esce il suo primo romanzo, Una vita; nel 1898 il secondo, Senilità. La scarsa attenzione della critica lo disanima, e solo molto più tardi, e per impulso dello scrittore irlandese Joyce, che vive per alcuni anni a Trieste e gli diviene amico, riprende l’atti­vità letteraria: nel 1923 esce il suo romanzo più importante, La coscienza dì Zeno. Muore in un incidente d’auto a Motta di Livenza nel 1928. Altri suoi scritti, che sono stati pubblicati postumi, sono: La novella del buon vecchio e della bella fanciulla (1929), Corto viaggio sentimentale e altri racconti mediti (1954), Commedie (1960), Epistolario (1967).
Il «caso Svevo» - I tre romanzi che costituiscono la produzione maggiore di Svevo, Una vita (1892), Senilità (1898), La coscienza di Zeno (1923), ebbero un singolare destino che fece parlare di un «caso Svevo». Mentre ora sono considerati dalla critica fra le testimonianze più significative della nostra letteratura fra Ottocento e Novecento, quando furono pubblicati passarono quasi del tutto sotto silenzio. Svevo rimase pressoché ignorato fino a che Montale, in un suo articolo, lo fece conoscere all’Italia, e lo scrittore irlandese James Joyce, amico di Svevo, lo fece conoscere all’Europa.
La formazione culturale di Svevo - La formazione culturale di Svevo fu assai poco legata alla tradizione italiana; fu piuttosto una formazione di tipo mitteleuropeo, cioè legata alla cultura del centro Europa. Svevo era orientato verso questo tipo di cultura dalla stessa condizione politica di Trieste, che, nonostante il suo diffuso irredentismo, fece parte fino al 1918 dell’impero asburgico, anzi ne costituì lo sbocco sul Mediterraneo. A questo si aggiunga che egli compì i suoi studi in Germania.
Fra romanzo naturalistico e romanzo di introspezione analitica - I primi due romanzi, Una vita e Senilità, risentono ancora dell’interesse nutrito dal giovane Svevo per i natu­ralisti francesi. Di tipo naturalistico è infatti il loro impianto narrativo: in essi le vicen­de si susseguono in ordine cronologico, legate da rapporti di causa e di effetto; è natu­ralistico anche l’interesse per gli ambienti sociali, come, ad esempio, in Una vita, per l’ambiente bancario, che Svevo conosceva per diretta esperienza.
Tuttavia, già in questi romanzi è evidente l’attenzione di Svevo per l’indagine introspettiva, cioè per una profonda analisi della psicologia dei personaggi, soprattutto dei protagonisti. In questo senso ebbero grande influenza su Svevo il pensiero del medico e filosofo austriaco contemporaneo Sigmund Freud, l’iniziatore della psicanalisi, e le ricerche che questi compiva a Vienna e che miravano a scandagliare i fondi più sotterra­nei della coscienza umana.
Nel terzo romanzo, La coscienza di Zeno, l’impianto naturalistico dei primi due scompare del tutto. Il racconto è concepito infatti come una specie di diario che il pro­tagonista Zeno Cosini scrive su esortazione dello psicanalista che deve curarlo. Le vi­cende della sua vita non sono esposte in ordine cronologico, ma recuperate sul filo del­la memoria, via via che gli si presentano alla mente. E non contano per quello che so­no realmente state, ma per il modo, lo stato d’animo con cui il personaggio le ha vissu­te e per le reazioni che gli suscitano nel ricordo. È per questa via che Svevo introduce il lettore nella psicologia, anche dell’inconscio, del suo personaggio.
La figura dell’«inetto» nei romanzi di Svevo - Comune a tutti i protagonisti sveviani è l’incapacità di adeguarsi all’ambiente in cui vivono, di inserirsi in esso. Restano così degli esclusi, degli emarginati; si tratta di un’emarginazione vissuta passivamente, perché essi non cercano neppure di lottare per opporvisi, ma vi si abbandonano con abulia.
Solo il protagonista del terzo romanzo, La coscienza di Zeno, in un certo senso si salva, perché finisce con l’accettarsi così com’è, e nello stesso tempo prende le distanze dalla sua abulia e inettitudine, guardando ad esse con chiara coscienza e con ironia.
[74] Subito: l’incipit è indice della modernità della tecnica narrativa sveviana, che fa iniziare il romanzo in medias res, senza preamboli.
[75] che le rivolse: il protagonista Emilio Brentani parla ad Angiolma Zarn, donna con la quale intreccia una relazione sentimentale.
[76] a un dipresso: pressappoco.
[77] per il tuo bene: espressione che fa trasparire il comporta­mento contorto, non spontaneo del protagonista, che si crea un alibi per la sua inettitudine.
[78] La parola .,. famiglia: il narratore mette a nudo l’autoinganno di Emilio.
[79] più vecchia ... destino: emerge qui il tema di fondo del romanzo: la senilità, che caratterizza i due fratelli, come disposizione dello spirito più che vera e propria vecchiaia fisica.
[80] Dei due ...la felicità: il rapporto con la sorella si presenta ambiguo sin dall’inizio: da un lato, infatti, ella è rappresentata come una figura materna che lo protegge (più vecchia...madre dimentica di se stessa); dall’altro lato, egli ne sente la respon­sabilità paterna (piccola e pallida.. .destino impanante legato al suo e che pesava sul suo), avvertita, però, nel contempo come alibi e ostacolo a vivere pienamente la propria vita.
[81] Da un impieguccio ... sfiducia: il grigiore della vita di Emilio è espresso chiaramente dalla presenza dei tre diminutivi (impieguccio, famigliuola, riputazioncella), che connotano la condizione del personaggio. Il contrasto che essi creano con il successivo superlativo lodatissimo pone, inoltre, in rilievo l’inerzia di Emilio.
[82] carta cattiva: carta non pregiata.
[83] detto: definito.
[84] riguardandosi: preservandosi.
[85] di qualche cosa che doveva venirgli: l’iterazione della lo­cuzione esprime il senso di attesa tipico dell’inetto, incapace di agire.
[86] Angiolina ... udiva: da notare come la descrizione di Angiolina sia in forte contrasto con quella precedente della sorella Amalia sia per l’imponenza fisica (nonché caratteriale) della prima rispetto alla gracilità della seconda sia per la carica vitale che emerge dagli svariati accenti cromatici (bionda dagli occhi azzurri...un color giallo di ambra soffuso di rosa...tanto oro che la fasciava), espressioni di bella salute e di sensualità. Sono questi colori topici che connotano l’aspetto della donna seducente sin dalle origini della letteratura.
[87] sottecchi: di nascosto.
[88] ufficio: ruolo
[89] liriche: poetiche.
[90] rinnovellare: rinnovarsi.
[91] Raggiante di gioventù e bellezza: Angiolina rappresenta la donna ispiratrice, capace di risvegliare nel letterato Emile entusiasmo e vitalità; ma ella ha anche quel che a Emilio manca,la gioventù e la bellezza, qualità che scaturiscono soprattutto da una forte energia vitale.
[92] trinata: ornata di merletti.
[93] bella salute: ritorna l’epiteto, già incontrato prima, con cui il narratore connota Angiolina, attraverso il punto di vista ossessivo di Emilio.
[94] rètori: cultori delle parole, letterati (Emilio si ritiene tale).
[95] e infine ... felice: Emilio che, mortificato nei suoi desideri e spinte vitali, traversava Li vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità, si sente felice e appagato per la sola contemplazione di Angiolina.
[96] compreso del: preso dal.
[97] egli non ... poco: ancora una volta, in Emilio come in Alfonso (protagonista di Una vita), emerge questa assenza di ascolto, come elemento distintivo dell’inetto sveviano.
[98] Se la fanciulla ... meglio: Emilio si accontenta sia se Angiolina è onesta, in quanto comunque egli non la infastidìrebbe, sia se è già “depravata”, m quanto allora intesserebbe con lei, come egli desidera, una stona facile, non troppo sena
[99] pericolare: correre dei pericoli. Ancora una volta, quindi, evitando di attuare scelte, Emilio non si espone, così da non correre rischi e trovando validi alibi alla propria impotenza a vivere.

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