mercoledì 2 marzo 2011

Il Decameron ovvero l’epopea de’mercatanti di Massimo Capuozzo

Giovanni Boccaccio è il primo grande narratore realistico della letteratura occidentale.
Egli, sulla base dei sottogeneri narrativi del passato – come exemplum, cronache, narrativa epico-cavalleresca e novellistica – crea un nuovo tipo di prosa e di racconto cui per secoli si ispirò la narrativa europea.
La rievocazione della civiltà italiana nell'autunno del Medioevo, che si è rivelata nel Decameron grandiosa e suggestiva, trova uno dei suoi centri più vivi e affascinanti nella serie di avventurosi e mossi affreschi in cui si riflette la ricchissima vita mercantile fra il Duecento e il Trecento.
Per la prima volta nella letteratura europea riceve alta consacrazione questo movimento decisivo per la nostra storia, promosso e diretto da quei veri eroi dell'intraprendenza e della tenacia umana, da quel pugno di uomini lanciati alla conquista dell'Europa e dell'Oriente, che, dopo le incomprensioni e le deformazioni di Sombart [2], siamo venuti sempre meglio scoprendo nella loro statura di uomini d'eccezione.
Isolata ancora nell'opera di Dante in un cerchio di aristocratico disprezzo per «la gente nova e i subiti guadagni», ignorata come inferiore o estranea dalla raffinata esperienza di Petrarca, lasciata ai margini persino nelle opere storiche di un Compagni o nello stilizzato narrare del Novellino, questa società irrompe nella «commedia umana» del Decameron e la domina con la sua esuberante vitalità. Non ci riferiamo solo alla folla di temi, di ambienti, di personaggi, di usi, di riferimenti vari che colora più della metà delle novelle con le tinte vivaci e sanguigne proprie a questo mondo. È la centralità nello stesso disegno ideale dell'opera, nel suo significato esemplare in senso umano e artistico, a configurare la presenza di questo ceto nella fantasia narrativa del Boccaccio come caratteristica e si vorrebbe dire insostituibile allo svolgersi del Decameron.
Diversamente da Dante, che pone la vita soprannaturale al centro della sua opera, Boccaccio descrive la realtà terrena. Egli non guarda oltre il mondo terreno, perché è il mondo reale che lo interessa e lo affascina: al centro della realtà pone l'uomo con le sue colpe e con i suoi errori, ma anche con le sue virtù e finalmente con la sua dote più grande, l'intelligenza.
Il Decameron è espressione del particolare momento storico che segna il passaggio dalla civiltà medievale a quella moderna: in esso sono presenti sia il mondo feudale, con gli ideali cavallereschi, come la dignità del comportamento, il decoro e la misura, sia la nascente civiltà comunale, con la nuova classe borghese e la sua morale affaristica.
«Rispetto al Medioevo - scrive Vittore Branca nel suo Boccaccio medievale del 1981 - egli tratteggia una realtà sociale più ampia, in cui accanto ai nobili ed ai cavalieri agiscono mercanti, servi e contadini, artigiani e bottegai. Allo stesso modo è più ampio e variegato il destinatario dell'opera boccacciana, non più costituito solo da aristocratici, ma anche dalla nascente borghesia sempre più colta. Il suo realismo non è una semplice e piatta copia della vita e del comportamento umano, ma una rappresentazione artistica del mondo. L'avventura terrena è colta in una pluralità di aspetti e in continuo divenire, è bella nonostante la morte, la sofferenza, le contraddizioni. La vita per Boccaccio è avventura, gioco alterno della fortuna, è beffa, è commedia, ma può essere anche tragedia: in ogni caso la vita è un evento unico, una realtà straordinaria».
Busi osserva che le opere veramente grandi della letteratura universale, quelle che costituiscono i pilastri saldi e immutabili della cultura, sono fornite di tanta energia «da sopportare lo squartamento, la manipolazione [...], e pungolano i contemporanei di ogni epoca [... ] a farle risorgere in un'edizione qualsiasi, e renderle, appunto, di volta in volta nuovamente originali».
In realtà è quanto Aldo Busi ha fatto con il Decameron di Boccaccio, traducendolo fedelmente dal volgare del Trecento nell'italiano dei nostri giorni ed utilizzando una lingua fresca e vivace che, senza tradire per nulla l'originale, lo avvicina al pubblico moderno, soprattutto ai più giovani per i quali lo stile trecentesco può costituire un ostacolo alla comprensione e soprattutto al godimento di questo capolavoro della nostra letteratura.
Tutto questo si percepisce già nel Proemio
Umana cosa è l'avere compassione degli afflitti[4], e se ciò vale per ciascuno di noi, figuriamoci per quelli che, bisognosi di conforto, l'hanno trovato[5]: vorrà dire che a loro volta si prodigheranno senza risparmiarsi quando gli verrà richiesto; e se mai c'è stato uno che avendone bisogno l'ha poi ricevuto, quello sono proprio io[6]. Perché dalla mia adolescenza a ora sono stato in balìa di un amore tale che, se lo narrassi, apparirebbe forse ben più nobile di quanto la mia infima persona non lascerebbe pensare. Sebbene chi ne venne a conoscenza mi lodasse per la mia forza d'animo e accrescesse la sua stima per me, tuttavia tollerarlo fu una fatica improba.
Intendiamoci, mica per crudeltà della donna che amavo, ma per il troppo fuoco appiccato nella mente da una voglia scatenata che, non contentandosi mai di stare al di qua dei limiti imposti dalle convenienze, mi faceva fare indigestione di dolore. In quello stato di abbattimento esaltato, qualche amico mi procurò non poco sollievo con i suoi discorsi caritatevoli per sdrammatizzare e consolarmi, tanto che sono fermamente convinto di non essere morto proprio grazie a una classica pacca sulla spalla. Ma siccome Egli, essendo infinito, ha ritenuto opportuno sottoporre le cose terrene alla legge immutabile che decreta una fine per tutto, anche il mio amore, intrepido quanto altri mai, che né forza di volontà né buon senso - né l’evidente vergogna, visto il pericolo a cui avrebbe potuto espormi - aveva potuto rompere o piegare, questo mio immenso amore è venuto meno, da solo, per mero susseguirsi dei giorni e delle notti. Però, al presente, mi ha lasciato quel piacere che di solito è pronto a offrire a coloro che non s'imbarcano nelle acque più cupe senza tenere un occhio al timone e, mentre prima era un vero tormento, portatosi via ogni affanno, è rimasto in me con la sua aura più carezzevole[7]. Ma anche se la pena è finita, non per questo ho perso memoria dei benefici ricevuti da coloro che per benevolenza hanno fatto propria la mia soma, memoria che solo la morte potrà cancellare.
Sono convinto che, fra le altre virtù, la gratitudine meriti un encomio particolare e il suo opposto un biasimo non inferiore e, per non fare brutta figura, adesso che mi sono liberato intendo ricambiare, per quel po' che posso, quanto ho ricevuto. E se non proprio a sollievo di quanti mi diedero una mano – i quali, vuoi per puro caso, vuoi perché hanno la testa sulle spalle, vuoi perché per fortuna non ne hanno bisogno — almeno a sollievo di quelli che la testa non sanno dove sbatterla. E per quanto il mio sostegno, o conforto che dir si voglia, certamente sia ben poca cosa per i veri bisognosi, mi sembra tuttavia che esso debba accorrere soprattutto là dove se ne ha più bisogno, anche perché, vada come vada, un giorno gli sforzi di una mano tesa saranno un bel ricordo garantito[8]. E chi oserà negare che convenga fare questo dono più alle lettrici, leggiadre, che ai maschi tout court? Le lettrici, dentro i petti, delicati, fra timori e rossori, reprimono le fiamme che l'amore dispiega per erompere e trascinare via con sé - lo sapete ben voi che lo avete provato e che lo state provando, no? E se ciò non bastasse, le donne subordinate ai voleri, ai piaceri, agli ordini di padri, madri, fratelli e mariti, devono far passare il tempo rinchiuse nell'angusta cella dei loro tinelli, e stando sedute con le mani in mano, volendo e non volendo, richiamano fra sé e sé i più disparati pensieri, certo non sempre allegri[9]. E se a forza di rimuginare sopravviene quella certa malinconia provocata da un desiderio incontenibile, meglio che se ne resti chiusa dov'è a costo dell'avvilimento che comporta sino a che... non verrà rimossa da una nuova tela di Penelope della mente. Le donne, senza una qualche tela così, sarebbero molto meno equipaggiate dei maschi a far fronte alle calamità del cuore, come tutti possiamo facilmente constatare. I maschi, se sono afflitti da pensieri malinconici o tormentosi, hanno tanti di quei modi in più per buttarseli dietro le spalle, dato che possono sentirne e vederne a piacere di tutti i colori, andare a zonzo, a uccelli, a cinghiali, a pesci e a cavallo, giocare d'azzardo e trafficare, hobby grazie ai quali chiunque può, in parte o del tutto, ritrovare la trebisonda e distrarsi da ogni chiodo fisso almeno per un po' - dopo di che, di riffe o di raffe, l'uomo ci metterà una pietra sopra o il chiodo finirà per spuntarsi in una delle tante noie della vita e amen. Perciò, affinché da parte mia almeno parzialmente si faccia ammenda all'ingiustizia della sorte che sottrae le sue stampelle proprio là dove viene meno la forza - come possiamo ben vedere nelle signore, così vulnerabili —, io intendo raccontare, a sostegno e rifugio di quelle che amano a vuoto (e non tanto di quelle tutte ago, filo e tamburello), cento storie o favole o parabole che dir si voglia, raccontate in dieci giorni da una scelta brigata di sette ragazze e di tre giovanotti costituitasi durante l'appena passata epidemia di peste. In questi racconti ci imbatteremo in casi d'amore un po' piacevoli un po' no e in numerosi e burrascosi fatti di cronaca d'attualità e non, e le signore che li leggeranno ci piglieranno sia la pazza gioia per le cose dell'altro mondo che succedono, sia l'utilità di un saggio consiglio, e sapranno distinguere ciò che va rifuggito da ciò che va perseguito, illuminazioni che non possono abbagliarci, sia detto per inciso, se prima non si sconfigge quella pena[10]. Se ciò avverrà, e voglia Iddio che sia così, c'è da dire grazie solo all'Amore, donne, che liberandomi dalle sue catene m'ha concesso di profittare dei piaceri che invece riesce a darci.
Il Proemio del Decameron, secondo l’uso della narrativa medievale, indica il fine dell’opera, il suo destinatario ed i temi che saranno in essa trattati. Nel Proemio parla il narratore principale del Decameron, che si identifica con l’autore, il quale trae spunto dalla propria esperienza biografica per spiegare le ragioni che lo hanno indotto a scrivere un libro di intrattenimento, dedicato alle donne, che tratterà i casi della vita e in particolare l’amore, realisticamente inteso in tutti i suoi aspetti.
Dare conforto a quanti soffrono è un imperativo etico per l’uomo «Umana cosa è l’aver compassione agli afflitti»: il libro si apre con una massima morale di carattere universale e tutta la prima parte del Proemio è condotta in stile elevato, con una sintassi latineggiante e un’ampia prevalenza dell’ipotassi. La stessa prima parola «Umana», assume una notevole importanza: sarà proprio l’umanità, in tutti i concreti aspetti della propria esistenza, protagonista del Decameron.
Nel Proemio, Boccaccio informa i lettori che il suo intento di scrivere il Decameron è stato ispirato da un’esperienza personale ed in particolare da quanto egli ha appreso circa il modo in cui si possono alleviare le pene d’amore. Egli narra di aver molto sofferto in età giovanile e di aver ricevuto sollievo da altri uomini mediante i loro «piacevoli ragionamenti». Il libro si propone, a sua volta, il fine di alleviare le pene d’amore altrui: le sue, con il trascorrere del tempo, si sono ormai trasformate in un piacevole ricordo. L’autore, certo, non può manifestare la propria gratitudine verso chi un tempo lo ha aiutato ricambiandolo con la stessa moneta: potrà, però spendere questa moneta a favore di altri, offrendo conforto a tutti coloro che ne hanno bisogno.
Non manca neanche il riferimento a Dio, conforme all’uso dell’epoca. Egli ha voluto che ogni umana cosa avesse fine con il tempo, e l’affievolirsi della personale sofferenza d’amore dell’autore rientra in questa legge universale. Ciononostante, il conforto che l’autore ha ricevuto per le proprie pene d’amore non discende da un intervento diretto di Dio. Sono stati altri uomini a consolarlo: nella visione di Boccaccio, infatti, il piano dell’agire umano è indipendente da quello della divinità.
Il Decameron è dedicato a tutti coloro che soffrono le pene d’amore, ma soprattutto a coloro che più necessitano di conforto. Si tratta soprattutto delle donne, ingiustamente recluse nelle loro case, soggette a regole e convenzioni sociali che le costringono a celare i propri sentimenti. Questo è uno degli aspetti più rivoluzionari del Decameron, che pone in primo piano la donna: intorno alla sua figura si delinea un’attenta descrizione realistica della società trecentesca, che si manifesta, ad esempio, nell’elencazione dei molti svaghi concessi al sesso maschile. La donna, anche per questo, non è più frutto della fantasia poetica o figura avulsa dal mondo che la circonda, ma essere concreto e reale, inserito in una trama di rapporti familiari, sociali e di costume.
Ma dedicare un’opera alle donne e qualificarla come opera piacevole poteva equivalere, nel Medioevo, a circoscriverla nell’ambito di una letteratura minore. L’insistenza dell’autore sul fatto che le donne per questo scrive siano quelle «che amano» serve quindi a nobilitare l’opera stessa, distinguendone il pubblico ed escludendo dai potenziali lettori chi, non provando così elevati sentimenti, può tranquillamente trascorrere il proprio tempo con l’ago, il fuso e l’arcolaio.
Di conseguenza l'autore indirizza il libro ad un pubblico raffinato (l'amore, secondo l'ideale cortese, è un sentimento nobile e quindi può essere sentito solo da donne gentili), ma non composto da letterati, infatti, è utile ricordare che non tutte le donne, anche se nobili e ricche, sapevano leggere. Boccaccio usa, inoltre, l'espressione peccato della Fortuna per spiegare la condizione femminile e probabilmente per evidenziare un tema che poi si rivelerà ricorrente nel romanzo e cioè la Fortuna, intesa come destino, che regola la vita dell'uomo, ma soprattutto la capacità di quest'ultimo di cambiare il corso degli eventi imponendosi sulla volontà della prima. Questa capacità, chiamata industria, si rivelerà soprattutto negli uomini della classe emergente – mercanti e nuovi borghesi – della quale fa parte il Boccaccio.
Questi nuovi ricchi non erano, però, stati del tutto accettati dai ceti nobili, quindi Boccaccio, con questo libro, vuole nobilitare questa classe alla quale sente di appartenere.
Proprio per aver riconosciuto la capacità dell'uomo di interagire col proprio destino possiamo definire questo autore come un preumanista, infatti, nel Trecento era ancora molto radicata l'idea che l'uomo era una pedina nelle mani del destino che si divertiva a muoverlo secondo un disegno preciso e, soprattutto, prestabilito.
Il secondo tema dichiarato in questo proemio è la trattazione dell'amore in tutte le sue forme a partire da quelle più serie (amore cortese) per il quale si ispira ai romanzi della grande tradizione, a quelle più frivole (amori più terreni) per i quali si ispira ai fabliaux francesi adottando un linguaggio piuttosto esplicito che fu considerato scandaloso per molto tempo. In qualsiasi forma egli parla d'amore, lo presenta sempre come una fonte di dolore per l'uomo, anche se Boccaccio introduce una novità nella letteratura trecentesca: parla dell'amore visto con gli occhi di una donna.
Dal Proemio si può, inoltre, cominciare ad intuire la struttura dell'opera in cui il narratore si identifica con l'autore stesso, ma la narrazione delle varie novelle è poi delegata ai dieci giovani che, alcune volte, passano la parola ai personaggi delle novelle che raccontano altri aneddoti.
E l’amore, tra le tematiche delle novelle annunciate dal Proemio, assume senz’altro un ruolo fondamentale. Esso comparirà nei suoi aspetti «piacevoli e aspri»; ma comunque, felice o infelice, sarà descritto in modo realistico e mai astratto o platonico, come già lascia intuire l’accenno alle «sollazzevoli cose» che si troveranno nel libro. Tra le novelle troveranno posto anche i diversi casi della fortuna («fortunati avvenimenti»): il termine è qui da intendere come vox media (potendo indicare sia la buona che la cattiva sorte); il suo significato è del tutto laico e appare ormai lontano da quello conferitogli da Dante, che la accostava alla divina Provvidenza.
Si osservi quanto Dante scrive nell’XI canto del Paradiso nei vv 28-75.
La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio[11] nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,

però[12] che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida[13]
disposò lei col sangue benedetto,

in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi[14] ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.

L’un[15] fu tutto serafico in ardore;
l’altro[16] per sapienza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

De l’un dirò, però che d’amendue
si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
perch’ad un fine fur l’opere sue[17].

Intra Tupino[18] e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,

onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov’ella frange[19]
più sua rattezza, nacque al mondo un sole[20],
come fa questo tal volta di Gange[21].

Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi[22], ché direbbe corto,
ma Oriente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto[23],
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;

ché per tal donna[24], giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;

e dinanzi a la sua spirital corte[25]
et coram patre[26] le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.

Questa, privata del primo marito[27],
millecent’anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito[28];

né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui[29] ch’a tutto ’l mondo fé paura;

né valse esser costante né feroce[30],
sì che, dove[31] Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Ma perch’io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi[32] oramai nel mio parlar diffuso.

Sono passati meno di trent’anni da quando Dante scriveva questi versi, ma la fortuna boccacciana ha preso il posto della provvidenza dantesca. E, infatti, nel Decameron la fortuna può perfino peccare; e anzi è proprio a rimedio di un «peccato della fortuna» che l’autore ha intrapreso la stesura dell’opera.
Il peccato della fortuna consiste, appunto, nell’aver posto la donna in una condizione d’inferiorità sociale che ne aggrava le sofferenze. La centralità che nel Decameron assume la donna – non più semplice oggetto dell’amore e del sentimento lirico, ma soggetto della propria avventura esistenziale – risalta anche dalla cornice in cui sono inserite le novelle. Queste ultime saranno narrate dai dieci giovani di una «onesta brigata», in cui l’elemento femminile è dominante.
Di queste novelle, Boccaccio annuncia qui l’estrema varietà, qualificandole con diversi termini desunti dalla tradizione precedente: i modelli andranno di volta ricercati nel Novellino (le «novelle» propriamente dette), nei fabliaux in versi francesi (le «favole»), negli exempla tipici della letteratura religiosa in latino del Medioevo si vedano ad esempio le «parabole» o nelle narrazioni a sfondo storico, nella fattispecie le «istorie».
Interessante anche il fatto che i tempi in cui sono ambientate le novelle sono sia quelli moderni che quelli antichi. Se si aggiunge il fatto, desumibile dalla lettura dell’opera, che anche lo spazio geografico di ambientazione delle novelle è molto vasto, si può avere un’idea della ricchezza e complessità del mondo boccacciano.
Attraverso questa varia e ricca narrazione si affermano i diritti alla vita e al piacere di una «onesta brigata»; se questa è la cornice in cui andranno inserite le novelle, il Proemio non dimentica di delineare lo sfondo storico in cui l’opera si situa: esso accenna, infatti, alla peste, che si abbatté sull’Italia nel 1348, determinando uno stravolgimento di ordine naturale sociale e morale, cui l’elemento positivo e vitale della brigata si contrappone con un contrasto molto rilevato.
Boccaccio immagina che un mat­tino, durante l'imperversare del contagio, descritto con cruda drammaticità, in S. Maria Novella si incontri una brigata di sette giovani donne e tre giovani uomini, i quali decidono di abbandonare la città appestata e di recarsi nel vicino contado. Lontano da Firenze e dalla desolazione della pestilenza, i gio­vani trascorrono le giornate in una bella villa; nella serenità della quiete campestre, la gentile brigata ricrea quel vivere nobile e cortese, quell'ordine civile e pieno di decoro, che il flagello della peste ha distrutto nella vicina città.
Nel pomeriggio, mentre la nobile compagnia sta seduta in un bellissimo prato, a turno ciascuno narra una novella; all'imbrunire i giovani danzano e cantano una ballata. Nei quindici giorni vengono narrate cento novelle, dieci al giorno, poiché il venerdì e il sabato, giornate dedicate alla preghiera e alle pratiche religiose, è sospesa la narrazione.
Ogni giorno è eletto un re o una regina che sceglie il tema delle novelle – la Fortuna, l'istinto, l'amore, i motti arguti, la beffa, la virtù –; soltanto nella prima e nella nona giornata ciascuno può narrare liberamente quanto più gli aggrada. Non solo: uno dei giovani, Dioneo, ottiene licenza di narrare sempre a proprio piacimento.
La cornice come legame fra le varie parti di un'opera è una strategia stilistica già in uso nelle opere del passato; sappiamo, ad esempio, che Boccaccio conosceva Le Mille e una notte. Nel Decameron la cornice non è semplice accostamento delle novelle, è una struttura architettonica che conferisce unità all'opera. La cornice è l'immagine del disegno coerente ed equilibrato della vita, in cui ogni evento fuggevole e momentaneo si inserisce e trova un senso e una valida giustificazione.
L'idea di raccogliere e di unificare un mate­riale narrativo vario in una cornice che lo organizzi in una solida architettura si ritrova sia nella novellistica orientale, si pensi alle Mille e una notte, che possono essere considerate il primo esempio del genere, sia nella letteratura medievale si pensi al Libro dei sette savi. Alle Mille e una notte il Decameron si ricollega anche per la circostanza della narrazione in una situazione di pericolo: in entrambi i casi, infatti, il racconto è usato, sia pure in modo diverso, per esorcizzare la morte. A differenza delle precedenti raccolte in cui l'elemento unificatore era completamente fantastico, la cornice del Decameron fa riferimento a un avvenimento tragico e reale della storia contemporanea, la peste, che coinvolge sia i narratori, e quindi il piano della finzione letteraria, sia i lettori. Essa inoltre non ha solo la funzione di giustificare la narrazione e di conferire ordine alle novelle, ma si arricchisce di un suo significato autonomo. Racchiude e sintetizza, infatti, due poli, quello della morte, simboleggiata dalla peste e dalle sue conseguenze morali e sociali, e quello della vita, rappresentata dai giovani della lieta brigata e dalla loro esistenza vissuta all'insegna dell'equilibrio, della cortesia, della misura, del benessere fisico e psicologico.
Sullo sfondo della civiltà comunale, Boccaccio disegna con rapidi tratti una serie di caratteri, da cui emerge un nuovo modello di uomo, non più il mistico medievale, ma l'uomo che ha preso coscienza di sé, delle sue possibilità, un uomo che, cosciente della presenza di Dio, non ne è tormentato; certe debolezze, certi peccati sono visti e accettati con quel tanto di umorismo che li ridimensiona e, talvolta, li ridicolizza.
Ricorre il gusto del rovesciamento, di cui l'autore si avvale, ad esempio, per mettere allegramente alla berlina, ma senza alcuna pretesa moralizzatrice, i vizi degli ecclesiastici.
Tra i numerosi ingredienti che interagiscono nel Decameron, due sono le forze principali: la Fortuna e l'Amore.
La Fortuna - intesa come intervento casuale della sorte - si manifesta sia come forza della natura, sia come azione umana, sia come intervento della collettività. Si tratta, comunque, di intrusioni che ora ostacolano, ora favoriscono le azioni dei protagonisti. L’uomo rivela la sua intelligenza quanto più sa piegare la Fortuna ai suoi scopi, in qualunque modo essa si presenti, ostile (oggi diremmo sfortuna) o amica.
L'Amore è l'altra forza fondamentale della vita, uno dei più frequenti motori delle azioni dei personaggi: concepito benevolmente come energia naturale, l’amore è visto ora come nobile sentimento, ora come passione, ora come sensualità, ora come pretesto di beffa e divertimento.
Anche l'intelligenza suscita la stima ed il rispetto del grande scrittore. Egli esprime ammirazione per chi riesce a cavarsi d'impaccio nelle situazioni più difficili e a raggiungere gli scopi - anche se bassi o birbanteschi - che si era prefisso.
Boccaccio manifesta, infine, rimpianto per la cortesia, dote dei cavalieri medievali, indice di auten­tica nobiltà d'animo.
Sul piano tematico sono presenti nell'opera due nuclei essenziali di ispirazione: da una parte un mondo cavalleresco ormai al tramonto, dall'altra una società borghese e cittadina. Boccaccio guarda con un atteggiamento di nostalgia e di rimpianto al mondo aristocratico e cavalleresco del passato, tanto che le novelle che ne celebrano gli ideali sono poste a conclusione della raccolta e sembrano costituire una sorta di Paradiso laico che si con­trappone all'Inferno della prima giornata nella quale sono raffigurati i vizi della società del tempo: l'avarizia e la viltà dei grandi signori, la corruzione del clero, la spregiudicatezza morale dei borghesi.
La vera protagonista dell'opera è, però la borghesia rappresentata nei suoi diversi livelli e nei suoi aspetti positivi e negativi. La realtà umana e naturale descritta nel Decameron appare come il campo di tensione e di scontro di due forze antagonistiche: la fortuna e l'ingegno. La prima si identifica con il caso capriccioso e imprevedibile, che predispone circostanze favorevoli e sfavorevoli con le quali l'uomo deve misurarsi armato solo della sua intelligenza, saggezza calcolatrice, capacità di previsione.
L'ingegno si manifesta non solo nell'azione avveduta e sagace, ma anche nella battuta pronta, nel motto arguto e raffinato che mortifica gli sciocchi e i tracotanti ed è apprezzato dall'antagonista intelligente, capace di gustare l'invenzione verbale ben congegnata. È proprio in virtù della parola che talora possono essere annullate le distanze sociali.
Il fornaio Cisti può permettersi il lusso di un motto mordace con il banchiere Geri Spina e Chichibìo può rivolgere una pronta e sollazzevole risposta a un gran signore come Currado Gianfigliazzi perché lo scatto dell'ingegno per un attimo rende complici un artigiano ed un banchiere, un cuoco e un signore. Dopo però ciascuno tornerà al suo posto, consapevole del proprio ruolo e della propria posizione sociale.
Esemplare è la novella Quando i forni andavano a vino, la celebre novella di Cisti fornaio, narrata dalla giovane Pampinea nella sesta giornata, dedicata ai motti di spirito.
In questa novella, però, le battute argute pronunciate dal protagonista occupano un posto secondario, messe in ombra dal quadro sociale delineato e dal ritratto del protagonista che campeggia nella pagina.
Ragazze, a proposito di questo Geri Spina - sì, il marito della signora Oretta: dovete sapere che lui e papa Bonifacio VIII [33] facevano così culo e camicia, che quando il papa man­dò a Firenze alcuni suoi emissari per sistemare certe questioncelle politiche scottanti, fu proprio Geri Spina [34] a ospitarli in casa sua per papa mandò a Firenze alcuni suoi emissari per sistemare certe questioncelle politiche scottanti [35], fu proprio Geri Spina a ospi­tarli in casa sua per vedere insieme di cavare dal fuoco le castagne pontificie. Per un motivo o per l'altro, il nobile Geri passava quasi tutte le mattine con i suddetti ambasciatori papali davanti a Santa Maria Ughi [36], dove c'era la panetteria gestita personalmente da Cisti [37] il fornaio.
Per quanto il mestiere che il destino gli aveva rifilato non fosse esattamente di quelli che ti danno un'infarinatura di distinzione sociale, al Cisti gli affari erano sempre andati a piene ceste, tanto che aveva fatto soldi a palate e viveva come un signore di ottima pasta, senza farsi mancare (tra tutte le altre cose buone che possedeva) i più eccellenti vini bianchi e rossi di Firenze e dintorni; ma mai, per niente al mondo, aveva avuto voglia di cambiare mestiere. Cisti, notando che il signor Geri e gli ambasciatori del papa gli passavano davanti alla bottega ogni mattina, pensò che, con il caldo che faceva, sarebbe stato un gran bel colpo di gentilezza offrirgli un certo suo squisito vino bianco; ma sapeva perfettamente chi era lui e chi era il signor Spina e gli sembrava che, a prendere l'iniziativa di essere lui a invitarlo, avrebbe fatto la figura di chi non sa stare al suo posto: bisognava dunque che fosse il nobiluomo a cedere alla tentazione di autoinvitarsi.
Così, ogni mattina, verso l'ora in cui era previsto il passaggio del signor Geri con gli ambasciatori, Cisti - in canottiera [38] bianchissima e grembiulone di bucato che gli davano un aspetto più da mugnaio che da fornaio - si faceva portare fuori dalla porta un secchio di rame stagnato nuovo fiammante pieno d'acqua fresca, una caraffina di terracotta senza la minima screziatura col suo vinello bianco e due calici che parevano d'argento tanto brillavano; come avvistava il gruppetto in lontananza, si metteva a sedere, dava una o due scatarrate per purgarsi la gola e incominciava a centellinare il suo vino con una tale esibizione di estasi che avrebbe fatto venire l'acquolina in bocca ai morti.
E una mattina, e due mattine, alla terza il signor Geri do­mandò:
«Allora, Cisti, com'è? Buono?» Cisti balzò subito in piedi e gli rispose: «Eccome, signore! Ah, non si può descriverlo a parole, bisognerebbe proprio assaggiarlo e basta.»
Spina, che si sentiva la gola un po' asciutta per il caldo e per un senso di spossatezza più greve del solito e per quel modo di bere di Cisti, si rivolse sorridendo agli ambasciatori e disse:
«Signori miei, credo che ci convenga assaggiare il vino di questo bravo cittadino: sospetto proprio che non ce ne pen­tiremo» e insieme a loro si diresse verso Cisti.
Il fornaio fece subito portare fuori dalla bottega una bella panca e li invitò a accomodarsi e disse ai loro servitori che già si facevano avanti per sciacquare i bicchieri; «Alla larga, ragazzi, che ci penso io: sono bravo a versare il vino almeno quanto a impastare il pane, e toglietevi dalla testa di farvi la bocca alle mie spalle!»
Sciacquò lui stesso quattro bei calici da grandi occasioni, si fece portare una caraffina del suo buon vino e, come un sommelier diplomato, versò da bere al signor Geri e ai suoi amici che, non avendo bevuto da parecchio tempo un vino di tale qualità, non la smettevano più di decantarne il bou­quet. Così, finché gli ambasciatori rimasero in città, Geri Spina andò lì con loro a farsi la sua degustazione quasi ogni mattina.
Quando le trattative si conclusero e giunse il momento della loro partenza, il signor Geri organizzò un banchetto di commiato in grande stile al quale fu invitata tutta la screma­tura della crème cittadina; anche Cisti ricevette l'invito, ma siccome non ci fu verso di convincerlo a partecipare, Geri ordinò a uno dei suoi servitori di andare da lui a farsi dare un fiasco di vino per offrirne mezzo bicchiere agli ospiti assieme agli antipasti. Il servitore, che forse non aveva mandato giù il fatto di non essere mai riuscito a assaggiare quel vi­no, ci andò con una damigiana.
Cisti lo squadrò e disse:
«Hai sbagliato indirizzo. Il signor Spina non è da me che ti manda.»
Il servitore giurò e spergiurò che invece sì, ma non riuscì a ottenere nessun'altra risposta, per cui tornò dal suo padrone e gli riferì quella. Geri Spina allora gli disse:
«Vacci di nuovo e digli che ti mando proprio io proprio da lui; e se risponde ancora nella stessa maniera, domandagli da chi è che ti manderei secondo lui.»
Il servitore tornò alla carica e disse:
«Cisti, il signor Geri mi manda proprio da te.»
«Ragazzo mio, direi proprio di no» rispose Cisti.
«E allora» disse il servitore «dov'è che mi avrebbe mandato?»
«All'Arno [39]» disse Cisti.
Quando il servitore gli riportò queste parole, il signor Spina cominciò a intuire la soluzione dell'indovinello:
«Fa' un po' vedere con che fiasco ci sei andato» disse, e appena vide la damigiana esclamò:
«Cisti ha ragione!» e dopo avergli dato una bella lavata di testa lo rispedì indietro con un fiaschetto di dimensioni ragionevoli, alla cui vista Cisti disse:
«Adesso sì che ti manda da me» e glielo riempì fischiettando.
Quello stesso giorno fece riempire un barilotto con un vino dell'identico cru e, dopo aver ordinato che lo portassero senza troppi scossoni al signor Geri, andò a trovarlo e gli disse:
«Signore, non vorrei che pensasse che la damigiana di stamattina mi abbia spaventato: ma mi pareva che si fosse dimenticato di quello che ho cercato di dirle con le mie caraffine, e cioè che questo non è vino da darsi via ai servi, perciò ho semplicemente voluto ricordarglielo. E dato che adesso non vorrei più stare a fargli la guardia per lei, gliel’ho fatto venire tutto: ne faccia pure quello che le pare e piace.»
Il signor Geri si tenne caro il dono di Cisti e lo ringraziò in misura adeguata, dandogli da allora in poi tutta la sua considerazione e trattandolo da amicone.
Nella novella La coscia fantasma i personaggi sono esaltati attraverso le loro qualità umane, che non sono mai disgiunte dal caso. Inoltre, più che l’industria, si sottolinea l’arguzia, l’istinto che caratterizza Chichibìo; vi è un’esaltazione del rischio, ancora una volta tipico del mercante.
L’individuo è in balia delle circostanze che lo portano a confrontarsi con la situazione: il caso determina il relativismo etico, per questo emerge l’assenza di una gerarchia fissa di valori; non c’è, infatti, un assoluto codice comportamentale ma i valori variano e si adattano alle circostanze. Manca inoltre un conclusivo giudizio morale, in quanto Boccaccio fa emergere ironicamente pregi e difetti dei personaggi.
Corrado Gianfigliazzi[40], come voi madamine saprete di certo almeno per sentito dire, è stato uno dei nobili più liberali e vistosi della nostra città: eccellente sportivo, non faceva al­tro che correre continuamente dietro alla sua passione per uccelli e cani - per non parlare dei suoi meriti in altri campi. Bene, un giorno che con il suo falcone se ne era andato a caccia dalle parti di Peretola, ammazzò una gru così cicciotta e tenera che la mandò immediatamente al suo cuoco di fi­ducia, un veneziano che si chiamava Chichibio, con l'ordine di arrostirla per cena come dio comanda. Chichibio, sempre con quella sua faccia tra il mattacchio­ne e lo stordito, prepara la gru, la mette allo spiedo e comin­cia a farla rosolare senza perderla di vista un istante. Man mano che la cottura procedeva, il profumo si spandeva nel­l'aria come un inno e una certa Brunetta lì del posto, di cui Chichibio era cotto da tempo, capitò in cucina proprio a gru appena tolta dal fuoco. Il profumino era davvero strug­gente e la servetta, sdilinquendosi tutta, pregò Chichibio di dargliene una coscia.
Chichibio le rispose cantando:
«Tu non l'avrai da mi / bruna Brunetta / tu non l'avrai da mi.»
Al che, Brunetta indispettita gli rispose:
«E neanche te da me. Scordatela!» e così cominciò tutto un ping-pong di paroline e paroloni e alla fine Chichibio, per non perdere la pallina del suo cuore, staccò una coscia dalla gru e gliela diede. Poi la gru venne servita in tavola a Corrado che aveva a cena un paio di ospiti e, molto meravi­gliato di vedere una coscia sola, Corrado mandò a chiamare lo chef e gli domandò dove diavolo fosse l'altra coscia. Quel bugiardone di un veneziano rispose a muso duro:
«Ciò, sior paron, le gru cianno solo una coscia e una zampa.»
«E da quando in qua hanno solo una coscia e una zam­pa?» ribattè Corrado incavolato. «Come se fosse questa la prima gru che vedo!»
Senza fare una piega, Chichibio rispose:
«Invece, sior paron, è proprio come digo mi. E ce lo pos­so far vedere dal vivo quando vuole.»
Corrado, per riguardo verso i suoi ospiti, si astenne dallo strozzarlo subito e tagliò corto:
«Va bene, dato che vuoi aprirmi gli occhi dal vivo su una cosa che non ho mai visto e che non ho mai sentito, andia­mo a vedere domani stesso, così mi tolgo la soddisfazione: ma ti giuro com'è vero Dio che se non è come dici tu, ti faccio conciare in un modo che ti ricorderai di me finché campi.»
Chiusala lì per quella sera, il giorno dopo, appena il buio si schiarì quanto bastava, Corrado uscì dal letto non meno furibondo di come c'era entrato e, ordinati i cavalli, fece montare Chichibio su un ronzino e lo portò verso un fiume sulle cui rive tutti i bird-watcher della zona accorrevano di primissimo mattino per saziarsi di gru.
«Adesso vedremo chi dei due ieri sera ha contato su balle, se tu o io» gli disse come tutto "buongiorno".
Chichibio, constatando che la rabbia di Corrado non era ancora sbollita e che adesso a lui gli toccava farcire in qual­che modo di verità la sua bugia, trotterellava dietro a Corra­do con una Gagarellà super e avrebbe fatto a pezzi anche il suo cordon bleu pur di poter tagliare la corda. Ma non pote­va, e quindi lanciava sguardi avanti, indietro, a destra, a sini­stra, e tutto quello che vedeva gli sembravano gru ben dritte su due piedi.
Erano quasi al fiume, quando fu il primo a notare che sul­la riva ce n'erano ben dodici, una più addormentata del­l'altra e tutte in equilibrio su una sola zampa, come fanno di solito quando dormono. Allora puntò subito il dito davanti a Corrado e gli disse:
«Ecco, come può vedere con i suoi occhi, sior paron, ieri sera io non me lo sono mica inventato che le gru danno una coscia e una zampa sola. Guardi quelle lì, guardi!»
Corrado guardò e disse:
«Aspetta un momentino, che ti faccio vedere io se non ce n'hanno due» e avvicinandosi al galoppo gridò: «Oh-oh!» e tutte le gru, buttata giù l'altra zampa, spiccarono una cor-settina e poi scapparono a cosce levate. Corrado si girò ver­so il suo cuciniere e disse:
«Che ti pare, magna-a-ufo? Ti pare che ce n'hanno due o no?»
Chichibio, quasi in trance, senza sapere da dove gli salis­sero fuori le parole, disse:
«E certo, sior paron, ma lei non eia mica gridato "Oh-oh!" a quella di ieri sera. Se ci gridava così, anche quella là tirava fuori l'altra coscia e l'altra zampa come queste qui.»
Corrado si scompisciò talmente per questa risposta che tutta la sua rabbia diventò una risata:
«Chichibio, hai ragione tu: ma come ha fatto a non venir­mi in mente?!» disse.
E così, grazie alla sua spassosa replica a scottadito, Chi­chibio si tirò fuori dalla padella e dalle braci e fra il padrone e il servo tutto ricominciò a filare liscio come l'olio.
La novella “Landolfo Rufolo e la cassa che non volle” narra la storia di un mercante che, volendo raddoppiare le sue ricchezze con il commercio, im­poverisce. Divenuto nuovamente ricco dopo essersi dedicato alla pirateria, quando decide di tornare in pa­tria è derubato da alcuni corsari. Caduto in mare in seguito a un naufragio, si salva grazie a una cassa nella quale trova una gran quantità di pietre preziose. Rientrato nella sua città dopo tante avventure, decide di non rischiare più e di vivere di rendita.
Questa novella ha una morale ed un significato molto chiari: l’uomo con la propria abilità e astuzia può ben poco di fronte al caso. Landolfo ha, infatti, perso per due volte i suoi averi e per altre due volte ha recuperato un patrimonio doppio e, benché lotti in tutti i modi, è sempre la casualità che prevale sul risultato d’ogni azione. Egli sfida la fortuna, come ogni buon mercante dell’epoca, ed essa lo ricompensa, finalmente, aiutandolo.
È luogo comune che la marina da Reggio a Gaeta sia forse la più piacevole d'Italia: in questo tratto c'è una costa vicinissima a Salerno affacciata sul mare che gli abitanti chiamano Costa Amalfitana, piena di piccole città, di giardini e di fon­tane, di uomini ricchi e di procacciatori d'affari, tutti commercianti abili come pochi. Tra queste cittadelle ce n'è una chiamata Ravello nella quale, benché anche oggi sia piena di gente ricca, ci fu un uomo straricco, di nome Landolfo Rufolo.
Siccome la sua ricchezza non gli bastava mai e deside­rava raddoppiarla, successe che quasi ci rimette la pelle. Questo qua dunque, com'è abitudine dei mercanti, fatti bene i suoi conti, comperò una grandissima nave, la stipò, sen­za soci tra i piedi, di varie merci e salpò per Cipro. Una vol­ta giunto, scoprì che erano molte le navi a avervi attraccato piene delle stesse merci, per cui non solo gli convenne vendere sottoprezzo ma quasi, se voleva liberarsene, ci avrebbe guadagnato di più a gettarle via, cosa che quasi lo manda in rovina. Provato dal tipico disagio di chi ci rimette, non sapendo che fare e vedendosi dall'oggi al domani poverissimo da ricchissimo che era, pensò o di farla finita o di recuperare i danni subiti con la rapina, per non tornare in brache di tela là da dove era venuto tutto in passamaneria. Trovò così un acquirente per la sua nave e con quei soldi e quelli messi in­sieme dalla vendita delle sue merci comperò una piccola im­barcazione per esercitare la pirateria, la armò di tutto punto e si mise a appropriarsi della roba altrui, meglio se turca.
La fortuna fu molto più benevola con le sue ruberie di quanto non lo fosse stata con le sue mercanzie. In meno di un anno depredò e prese tante di quelle navi ai turchi che si ritrovò non solamente padrone di quanto aveva perso ma l'aveva addirittura raddoppiato. Per cui, ammonito dal pri­mo dispiacere provato per la perdita, consapevole di aver ammassato ben di che e non volendo incappare in un secon­do dispiacere e seconda perdita, si convinse che quello che aveva doveva bastargli senza esagerare oltre, e si preparò a fare ritorno a casa sua. Scettico ormai nei confronti di ogni mercé, non si diede pena di investire i suoi soldi ma, messi i remi in mare, con lo stesso vascello con cui li aveva guada­gnati si mise sulla rotta del ritorno. Era già arrivato nell'Egeo, quando la sera si levò uno scirocco che non solo spirava contrario alla sua rotta ma ingrossava il mare in modo così spaventoso che la sua nave non era in grado di affrontarlo e perciò riparò in un golfo che l'avrebbe isolata da quel fortunale in attesa di venti più favorevoli. Poco dopo pervennero nello stesso golfo due grandi cocche genovesi, in arrivo da Costantinopoli, per sfuggire come Landolfo gli stessi peri­coli. Gli equipaggi delle navi, vista la piccola consorella e chiusale la via d'accesso al largo, quando vennero a sapere chi vi era a bordo e che razza di milionario era, come tutti gli uomini naturalmente rapaci e bramosi di pecunia, si prepararono a dargli il benservito. Fecero sbarcare a terra parte della ciurma armata di balestre fino ai denti e fecero in mo­do che nessuno potesse più discendere dalla navicella senza essere centrato in pieno. I marinai, rimorchiati dalle scialup­pe e aiutati dal mare, si accostarono alla piccola nave di Landolfo e se ne impossessarono in quattro e quattrotto senza perdere un solo uomo e senza colpo ferire: Landolfo fu trasportato su una delle cocche e, spogliata la navicella di ogni cosa, la affondarono, trattenendo Landolfo prigioniero senz'altro indosso che una misera canottiera. Il giorno se­guente il vento mutò, le cocche alzarono la vela verso Occi­dente e tennero la rotta tutto il giorno filando da dio. Ma verso il tramonto si levò un vento di tempesta che, sollevan­do marosi altissimi, divise le due cocche.
Quella su cui si trovava il misero e povero Landolfo andò a conficcarsi con impeto in una secca dell'isola di Cefalonia e come un vetro sbattuto contro un muro prima si aprì in due e poi si sfracellò completamente. I poveri marinai annaspando, in quella notte di pece e in quell'inferno di mercanzie, casse e tavo­lacci, tentavano - quelli che sapevano nuotare - di aggrap­parsi a tutto quello che si parava davanti. Landolfo, che il giorno prima aveva invocato la morte mille volte piuttosto di ritornare a casa così a mani vuote, quando se la vide ad­dosso, sai che strizza; sicché, alla prima tavola che gli capitò a tiro, vi si avvinghiò con tutte le forze sperando che Dio, se lui ci si metteva d'impegno a non affogare, gli inviasse qual­che aiuto per salvarlo da morte sicura. Mantenendosi alla bell'e meglio in groppa alla tavola squassata dal mare e dal vento, Landolfo tenne duro fino allo spuntar del giorno. A luce fatta, si guardò intorno: nient'altro che nuvoloni e mare a perdita d'occhio e una cassa, sballottata dalle onde, che di quando in quando gli si accostava minacciosamente.
Landolfo temeva di esserne colpito e forse tramortito, e ogni volta che se la vedeva vicino, con quel poco di forza rimasta­gli, la spingeva via con la mano. Malgrado i suoi sforzi, al brusco sfrenarsi di un groppo di vento che staffilò il mare, andò a sbatterci contro in pieno, tavola e tutto, con tale violenza che fu disarcionato e finì a capofitto sott'acqua. Quando, annaspando, ritornò su, con la forza del terrore e della disperazione, la tavola era già troppo lontana: a raggiunger­la non c'era neanche da sperarci, perciò nuotò verso la cassa che era molto più vicina e vi si mise a pancia in giù contro il coperchio, reggendola dritta fra le braccia alla sperindio.
In questo modo, spintonato dal mare a casaccio, senza mangia­re, va da sé, bevendo più di quello che avrebbe voluto, sen­za sapere dove era né vedere altro che mare, trascorse tutta la giornata e la notte seguente. Il giorno dopo, a Dio piacen­do o forse piacendo di più al vento, Landolfo, ridotto ormai a poco meno di una spugna, sempre tenendosi forte con entrambe le mani agli orli della cassa come fanno coloro in procinto di annegare quando si aggrappano alla prima cosa che galleggi, arrivò all'isola di Corfù, dove una donnetta sta­va lavando le sue stoviglie con la rena e l'acqua salsa per farle belle. La donnetta, come vide questo coso avvicinarsi, non distinguendo in lui alcuna forma familiare, si ritrasse piena di spavento gridando a squarciagola. Landolfo non poteva parlare e ci vedeva anche poco, perciò non le disse niente, ma poiché il mare lo spingeva verso riva, lei riuscì a vedere i contorni della cassa e poi, mettendo a fuoco lo sguardo, riconobbe dapprima due braccia umane stese so­pra la cassa, quindi distinse una faccia e, nel suo insieme, si immaginò di che cosa si trattava. Mossa da compassione, si inoltrò alquanto in mare, che era tranquillo, prese l'uomo per i capelli e lo tirò a riva con cassa e tutto e qui, a tutta forza, gli divincolò le mani dalla cassa, che mise in testa a una sua figlioletta che era lì con lei, e lui, come fosse un ragazzino, lo trascinò nell'entroterra. Lo mise quindi in un bel bagno caldo e lo strofinò tanto con l'acqua da fargli recuperare la cera smarrita e buona parte delle forze perdute, e quando ritenne venuto il momento di tirarlo fuori, lo ri­confortò con del buon vino e cibo in abbondanza e per al­cuni giorni lo curò senza fargli mancare niente, tanto che lui, rinvigorito, ritornò in sé e capì dove si trovava. La buo­na donnetta si sentì in dovere di rendergli la sua cassa che aveva ripescato con lui e di dirgli che adesso se ne andasse per la sua strada. Così fece.
Lui, che non si ricordava di che cassa stesse parlando, la prese comunque, visto che la donna gliela metteva davanti; doveva valere abbastanza da trarlo d'impiccio almeno per un paio di giorni: ma la trovò leggera e buona parte della speranza gli venne meno. Tuttavia, essendo la donna fuori casa, la schiodò per vedere cosa ci fosse dentro e vi trovò molte pietre preziose, sia montate che sciolte, di cui era fine intenditore. A quella vista, e consideratone il valore enorme, lodando Iddio che ancora non lo aveva abbandonato, si rin­galluzzì in un fiat. Ma dato che era già stato messo due volte a tappeto dalla sorte, pensò che era meglio usare tutta la cautela possibile se voleva rientrare a casa sua con quelle gioie: le avvolse in alcuni stracci e disse alla donna che la cassa non gli serviva più, che bastava un sacco, se glielo voleva dare, e che in cambio se la tenesse pure.
La buona donna accettò volentieri il baratto e lui, ringra­ziandola a più non posso per l'assistenza ricevuta, si mise il sacco in spalla e se ne andò; montato su una barca, sbarcò a Brindisi e da qui, costeggiando, arrivò sino a Trani, dove trovò alcuni suoi concittadini mercanti di stoffe che per carità di Dio lo rivestirono, mentre lui andava raccontando di tutti i suoi accidenti, cassa esclusa.
Gli prestarono un caval­lo, gli fecero compagnia e lui, col loro aiuto, ritornò a Ravello. Una volta qui, gli sembrò di essere al sicuro e, ringrazian­do Dio di avercelo fatto arrivare, aprì il suo involto e si mi­se a esaminare ogni pietra con più attenzione di prima: sco­prì che aveva tante di quelle pietre e di tale pregio che ven­dendole a un giusto prezzo, e anche per meno, si ritrovava ricco il doppio di quando era partito. Trovato modo di convenire le sue pietre in contanti, fece avere un bel gruz­zolo alla buona donnetta di Corfù che l'aveva ripescato dal mare e la stessa cosa fece a Trani con quelli che l'avevano rivestito. Col rimanente, senza più volere commerciare, si mise il cuore e il portafoglio in pace e visse in modo sopraf­fino fino alla fine.
La novella propone fin dal titolo l'identificazione del protagonista con le sue motivazioni economiche: nell'essere «impoverito» di Landolfo e nel suo tornar «ricco», Boccaccio indica i due termini tra cui si svolge il racconto, l'inizio cioè delle peripezie e la loro conclusione.
Per Landolfo il denaro è la ragione stessa del vivere (è questo l'attributo che lo caratterizza); non si rassegna a viver povero, come Boccaccio dice esplicitamente: «...veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi, acciò che là onde ricco partito s'era povero non tornasse».
La fortuna può essere quindi una combinazione imprevedibile di eventi come ad esempio la cassa che il mare sospinge verso il naufrago e che modifica una situazione o risolve una vicenda.
Attraverso le peripezie prodotte dalla fortuna il mercante dovrebbe imparare la cautela, ma Landolfo Rufolo va oltre questa lezione e decide di rinunciare alla mercatura. I ripetuti cambiamenti di condizione economica del personaggio ed il replicato e repentino modificarsi delle situazioni caratterizzano questa novella, in cui sono perciò particolarmente importanti la trama (o fabula) e l'intreccio.
Il tempo narrativo usato da Boccaccio si nota che nella prima parte il tempo della narrazione è ristretto e sintetico, cioè avvenimenti e vicende complesse, che occupano un periodo piuttosto lungo (il viaggio a Cipro, la svendita delle merci, l'anno di pirateria) sono compendiati con molta brevità, per esempio: «comperò un legnetto sottile da corseggiare e quello d'ogni cosa opportuna a tal servigio armò e guernì ottimamente, e diessi a far sua della roba d'ogni uomo e massimamente sopra i turchi».
Il tempo della narrazione è invece dilatato nella seconda parte: la permanenza in mare di Landolfo dopo il naufragio (circa due notti e un giorno) occupa nel racconto uno spazio non molto inferiore a quello di tutte le sue precedenti vicende.
L'intreccio, la variazione nell'uso del tempo, accentuano quindi il rilievo di questa parte della storia.
Questa dilatazione del tempo è funzionale al tema, poiché il mare rappresenta in concreto la fortuna ed è il mare, infatti, che agisce: spinge più volte verso di lui la cassa contenente numerose pietre preziose, che egli si ostina a respingere, e infine lo costringe ad accettarla, strappandolo dall'inutile tavola.
Nella novella La pietra diversa appare il personaggio di Calandrino, che, pur essendo attirato dall’idea di arricchirsi non ha l’intraprendenza e l’abilità che contraddistingue il mercante.
La novella appartiene all’ottava giornata ed ha per tema la beffa. Lauretta racconta una burla ai danni dello sciocco Calandrino, un personaggio realmente esistito, è il semplice, lo sciocco per antonomasia e la cosa peggiore è che Calandrino è convinto di essere furbo. Proprio tale caratteristica fa partecipare positivamente il lettore alla burla, quasi che Calandrino meritasse il crudele scherzo di cui è vittima.
Boccaccio non ha descritto l’aspetto fisico dei personaggi eccezion fatta per Monna Tessa, ma le informazioni date nella novella sono sufficienti; risulta facile immaginarli.
Calandrino, ignorante ma soprattutto credulone e sciocco, si distingue dalle figure presenti nelle altre novelle perché la sua comicità non è data dalla sua stoltezza bensì dal fatto che egli vuole essere scaltro. Egli pretende di volgere a suo vantaggio quella che è una beffa e, cosa peggiore di tutte, non ha neanche capito di essere stato beffato.
Bruno e Buffalmacco, uomini perdigiorno, senza una particolare moralità, anche loro sono più sciocchi di quanto non credono; il loro scherzo si rivela un dramma, ma continuano a ridere senza pietà e senza rivelare nulla allo stesso Calandrino.
La povera Monna Tessa, l’unica figura positiva della novella che non può opporsi alla furia del marito e che è crudelmente percossa a causa della stupidità non solo di lui ma anche e principalmente degli amici del marito. È la dimostrazione del livello di soggezione che le donne medievali avevano in una società guidata dall’uomo.
La narrazione, si svolge in tre quadri ambientati in luoghi e tempi diversi: a Firenze nella chiesa di S. Giovanni al mattino; sul Mugnone, la domenica mattina; nella casa di Calandrino subito dopo l’ora di pranzo.
Donne di bello spirito, nella nostra città, che in quanto a stravaganti e a originali ha sempre avuto il suo bel record, viveva non molto tempo fa un pittore chiamato Calandrino, un naif alquanto bizzarro che passava quasi tutto il suo tem­po in compagnia di altri due pittori, Bruno e Buffalmacco, una coppia di burloni, peraltro molto dotati di cervello e astuzia, che frequentavano Calandrino per divertirsi con le sue gaffe e la sua goffaggine.
A Firenze viveva allora anche un giovane dandy, lo spiri­toso Maso del Saggio, che riusciva sempre a prendere ele­gantemente per i fondelli chiunque volesse: costui sentì qualche racconto sulla dabbenaggine di Calandrino e decise di svagarsi a spese sue facendogli qualche bello scherzo o dandogli a bere qualche fesseria. Un giorno che andò nella chiesa di San Giovanni, lo trovò per caso intento a osservare i dipinti e i bassorilievi del tabernacolo inaugurato da poco sull'altare maggiore e pensò che quella era l'occasione pro­pizia per passare ai fatti. Così, dopo aver concertato un pia­no con un suo amico, si avvicinò con lui al banco dove Ca­landrino sedeva tutto solo e, fingendo di non notarlo, co­minciarono una chiacchiera sui poteri di certe pietre prezio­se, delle quali Maso parlava con tanta sicumera che si sareb­be detto un professore di gemmologia.
I loro discorsi calamitarono ben presto l'attenzione di Ca­landrino, che dopo un po', sentendo che non si trattava di una conversazione confidenziale, si alzò e si avvicinò a loro. Maso, felice di aver fatto centro, continuò a parlare finché Calandrino non gli chiese dove si trovavano mai quelle pie­tre portentose. Maso rispose che si trovavano per lo più in Bamberia, dove vivono i Beoti, e precisamente in una città chiamata Bengodi, dove si legano le viti con le salsicce e per dieci lire ti danno dell'oca e un papero in omaggio, e dove c'è una montagna di parmigiano grattugiato sulla cui cima abita della gente che dalla mattina alla sera prepara macche­roni e ravioli e li cuoce in brodo di capponi e li fa piovere giù per il pendio e chi più ne piglia più ne ha, e lì vicino poi scorre anche un fiume di eccellente vernaccia, senza nean­che una goccia di metanolo.
«Perbacco» disse Calandrino «quel paese è proprio una cuccagna. Ma dimmi, cosa ne fanno dei capponi che cuo­ciono?»
«Ah, se li mangiano tutti i Beoti» rispose Maso.
«E tu ci sei mai stato?» disse Calandrino.
«Se ci sono mai stato?» rispose Maso. «Se ci sono stato mille volte, ci sarò stato anche una.»
«E a quanti chilometri è da qui?» disse Calandrino.
«Ce ne saranno più di un miliardo, se non sei tardo» ri­spose Maso.
«Allora altro che l'Abruzzo!» disse Calandrino.
«A occhio e croce» rispose Maso «ci manca poco.»
L'ingenuo Calandrino, vedendo che Maso raccontava queste cose con una faccia di tolla e senza ridere, gli credet­te come si crede alle verità più palesi e, prendendole per vere, disse:
«Ah, per me è troppo lontano, ma se fosse più vicino ci verrei volentieri anch'io una volta con te, per veder rotolare giù quei maccheroni e farmi una bella mangiata. Ma dimmi, sii sincero, non è che per caso anche dalle nostre parti ce n'è qualcuna di quelle pietre miracolose?»
Maso rispose:
«Beh, sì, qui da noi ci sono due tipi di pietre magiche; prima di tutto i macigni di Settignano e di Mentisci che, una volta trasformati in macine, danno il potere di fare la farina, tanto che in quei paesi là si dice che le grazie vengono dal ciclo e le macine da Mentisci, ma siccome di questi macigni ne abbiamo un'infinità non li apprezziamo tanto, proprio come fanno là con gli smeraldi, che ce n'hanno delle monta­gne più alte di Monte Morello e a mezzanotte luccicano tan­to che ti devi mettere gli occhiali da sole: pensa che, là da lo­ro, se riesci a costruire delle belle macine e a infilarle a colla­na prima di farci il buco e poi le porti al sultano, puoi avere in cambio tutto ciò che vuoi. L'altro tipo di pietra, che noi esperti chiamiamo elitròpia, ha un potere meraviglioso, per­ché chiunque la porti con sé, fintante che ce l'ha addosso, non sarà mai visto da nessuno dove non è.»
«Roba da non crederci!» disse Calandrino. «Ma dov'è che si trova questa pietra che hai appena nominato?»
Maso gli rispose che se ne trovava qualcuna sul greto del torrente Mugnone. Calandrino disse:
«Quant'è grossa questa pietra? E di che colore è?»
Maso rispose:
«Ce ne sono di diverse misure, qualcuna più grossa, qualcuna più piccola» ma sono tutte di un colore che tira sul nero.»
Calandrino prese nota mentalmente dell'informazione e, dicendo che si era ricordato all'improvviso di certi affari da sbrigare, salutò Maso: era deciso a mettersi in cerca di que­sta pietra. Ma, non volendo farlo senza Bruno e Buffalmacco, ai quali era molto affezionato, andò a chiamarli subito per battere sul tempo altri eventuali cercatori, e perse tutta la mattina senza riuscire a trovarli. Erano già passate le tre del pomeriggio quando finalmente gli tornò in mente che stavano lavorando al monastero delle Monache Faentine e allora, nonostante il calcio che faceva, piantò lì ogni altra co­sa e corse verso il convento. Appena li vide disse:
«Amici, se mi date retta possiamo diventare gli uomini più ricchi di Firenze! Ho saputo da un signore affidabilissi­mo che nel Mugnone c'è una pietra che fa diventare invisi­bile chi la porta addosso Ci dobbiamo mettere a cercarla subito, prima che qualcun altro ce la soffi. La troviamo fa­cilmente, perché io so com'è fatta, e una volta che ci abbia­mo messo le mani sopra, dobbiamo solo mettercela in tasca e andare ai bandii dei cambiavalute, che sono sempre co­perti di monete d'argento e d'oro, e ce ne arraffiamo quante ne vogliamo. Ma ci pensate? Non ci potrà vedere nessuno, e così diventeremo miliardari in cinque minuti e non dovremo più passare le giornate a sbavare sui muri come le lumache.»
Bruno e Buffalmacco, sentendogli dire queste cose, co­minciarono a ridere sotto i baffi, si lanciarono un'occhiatina d'intesa, finsero di strabiliare per lo stupore e dissero che l'i­dea di Calandrino era proprio allucinante. Buffalmacco do­mandò come si chiamava questa pietra. Calandrino, che era di pasta grossa, se n'era già dimenticato, e quindi rispose:
«Che ce ne importa di come si chiama, quando sappiamo cos'è che fa? Invece di star qui a farla lunga, dovremmo es­sere già là a cercarla.»
«D'accordo,» disse Bruno «ma come è fatta?»
«Ce ne sono di diverse forme» disse Calandrino «ma so­no quasi tutte nere. Secondo me la cosa più intelligente è raccogliere tutte le pietre nere che vediamo fino a che non ci capita in mano quella giusta, e adesso non perdiamo altro tempo, su, in marcia.»
«Stoppati un attimo» disse Bruno e, rivolto a Buffalmacco, aggiunse: «Calandrino dice bene, ma non credo che questa sia l'ora giusta, perché il sole è alto e picchia dritto sul Mugnone e a quest'ora avrà asciugato tutte le pietre, così adesso sembrano bianche anche quelle che di mattina, pri­ma che il sole le scaldi, sono nere. E poi, oggi è un giorno fe­riale e c'è un sacco di gente su per il Mugnone, e se ci vedo­no potrebbero intuire che cosa cerchiamo e mettercisi pure loro, e poi magari la trovano e noi ci avremmo rimesso capra e cavoli. Se a voi va bene, a me pare che dovremmo metterci all'opera di mattina, quando è più facile distinguere le pietre nere da quelle bianche, e in un giorno di festa, così non ci vedrà nessuno.»
Buffalmacco dette ragione a Bruno e Calandrino sì con­vinse a accettare la decisione, perciò stabilirono di andare tutti e tre alla ricerca della pietra k domenica seguente. Calandrino li scongiurò di non fame parola a anima viva, per­ché quelle informazioni gli erano state confidate solo perché era lui, e raccontò anche quello che aveva saputo sulla città di Bengodi, giurando che si trattava della sacrosanta verità. Quando Calandrino se ne andò 1 due amici si misero d'ac­cordo sul da farsi.
Calandrino moriva dalla voglia che fosse già domenica mattina e quando finalmente la domenica venne, saltò giù dal letto all'alba, andò a chiamare i suoi compari, uscirono fuori città da Porta San Gallo, scesero al Mugnone e comin­ciarono a seguire il corso del torrente in cerca della pietra. Calandrino, che era il più entusiasta, procedeva spedito da­vanti agli altri e saltava di qua e di là come una cavalletta ogni volta che vedeva una pietra nera, che immancabilmen­te andava a fare compagnia alle altre già raccolte. I due ami­ci seguivano passeggiando e ogni tanto imitavano il suo esempio, ma Calandrino non aveva ancora fatto cinquanta metri che aveva già le tasche piene di pietre e dovette tirar su i lembi del camiciotto, che non era né stretto né corto, e legarseli alla cintura per formare un capace sacchetto che dopo non molto fu altrettanto pieno; Calandrino passò a usare il mantello e lo riempì di pietre, finché Buffalmacco e Bruno, vedendo che lui era carico e che l'ora di pranzo era vicina, si scambiarono il cenno convenuto e Bruno disse a Buffalmacco:
«E Calandrino dov'è?»
Buffalmacco, che lo aveva lì sotto gli occhi, cominciò a gi­rarsi da tutte le parti e rispose:
«E che ne so? Eppure era qui un attimo fa.»
«Un attimo fa col cavolo! Ci scommetto che quello ades­so è già a casa sua a mangiare e a noi ci ha piantati qui come due cretini a cercare pietre nere giù per il Mugnone.»
«Beh, se ci ha portati qui per tirarci in giro» disse Buf­falmacco. «ha fatto bene, perché siamo stati tanto scemi da cascarci. Pensa te, chi altri che noi sarebbe stato così boc­calone da credere che ci fossero pietre miracolose nel Mu­gnone?»
Sentendo questo, Calandrino immaginò di aver raccolto la pietra giusta e di essere diventato invisibile sotto gli occhi degli amici, perciò, raggiante per il colpo di fortuna, se ne volle tornare zitto zitto a casa: fece dietrofront e si avviò ver­so la città. Buffalmacco lo guardò incamminarsi e disse a Bruno:
«Che facciamo adesso? Io me ne andrei.»
«Andiamocene» gli rispose Bruno. «Ma giuro che questa è l'ultima che mi combina Calandrino: guarda, se fosse an­cora qui come c'è stato tutta la mattina, gli tirerei questo sasso negli stinchi e gli lascerei il ricordo di questo scherzo per almeno un mese» e dirlo, prendere la mira e tirare il sas­so nello stinco di Calandrino fu tutt'uno. Calandrino fece un salto triplo per il dolore e si morse un pezzo di lingua, ma non aprì bocca e continuò a camminare, Buffalmacco prese in mano un ciottolo di quelli che aveva raccolto e disse a Bruno:
«Guarda che bel ciottolone. Ah, se solo potessi tirarlo nelle reni di Calandrino, così!» e via che gli assestò una gran ciottolata nella schiena. Per farla breve, tra una battuta e l'altra i due amici lo lapidarono per tutto il Mugnone fino a Porta San Gallo: qui buttarono via il resto delle pietre e si fermarono a chiacchierare con le guardie del dazio che, già imbeccate in precedenza dai due, lasciarono passare Calan­drino come se non lo vedessero e poi si sbellicarono dalle ri­sate alle sue spalle. Lui proseguì curvo filato fino a casa sua, che si trovava dalle parti del Canto della Macina e, a benefi­cio della beffa, il caso volle che, mentre risaliva lungo il tor­rente e poi passava per là città, di tutte le persone che incon­trò – poche per la verità, perché quasi tutti erano a pranzo – nessuna gli rivolse la parola.
Calandrino entrò dunque in casa con il suo carico di pie­tre. La moglie, che si chiamava Tessa e era una bella donna in gamba, stava in cima alle scale tutta in pensiero per il suo ritardo e non appena lo vide cominciò a sfogarsi gridando:
«Finalmente, marito, meglio tardi che mai, eh? Tu torni a casa a mangiare quando gli altri hanno già digerito.»
Calandrino a vedersi visto strillò pieno di rabbia e di sconforto:
«Brutta stronza, che cosa ci fai lì? Mi hai rovinato! Ma questa me la paghi!» e per prima cosa salì a scaricare in una stanza la massa di pietre che si era portato a casa, poi corse furibondo dalla moglie, la brancò per le trecce, la scara­ventò a terra e cominciò a mulinare mani e piedi come un pazzo, coprendola di pugni e calci senza lasciarsi fermare dalle suppliche a mani giunte della moglie, che ormai non aveva capello in testa o osso nel corpo che non fossero la­ceri e pesti.
Buffalmacco e Bruno, che erano stati un po' a ridere con le guardie e poi avevano seguito Calandrino a passo lento e a una certa distanza, quando furono alla porta di casa sua e sentirono che stava stamburando la moglie a quel ritmo, gli dettero una voce come se arrivassero allora. Calandrino si affacciò alla finestra tutto sudato, rosso e con l'affanno e li scongiurò di venir su subito. I due amici, atteggiando le fac­ce a un'espressione adirata, salirono le scale e videro la stan­za piena di pietre, la donna per terra tutta scapigliata, con i vestiti stracciati e il viso tumefatto e livido, che piangeva da far pietà anche ai sassi, e dall'altro lato Calandrino mezzo spogliato che stava a sedere e anfanava sfinito. Loro se ne rimasero un po' a guardare la scena, poi dissero:
«E che è 'sta roba, Calandrino? Vuoi ristrutturare la casa, che c’hai qui tante pietre?» e per soprammercato aggiunsero: «E la signora Tessa? Che le è successo? Si direbbe che gliele hai suonate. Cos'è 'sta novità?».
Calandrino, stremato dal peso delle pietre e dalla rabbia con cui aveva picchiato la moglie, nonché dal lutto per la fortuna che gli sembrava di essersi giocato, non riusciva a trovare il fiato per dire una parola. Approfittando del suo si­lenzio, Buffalmacco ricominciò:
«Calandrino, se tu eri incavolato per conto tuo, non era con noi che te la dovevi prendere: insomma, prima c’hai con­vinti a cercare con te quella pietra preziosa e poi, senza dirci né addio né all'inferno, c’hai lasciati come due scemi giù nel Mugnone e te ne sei venuto via, E che maniere sono? Sta' si­curo che questa è l'ultima che ci fai.»
A queste parole Calandrino fece uno sforzo subumano per recuperare il fiato e disse:
«Non v'incazzate, amici, perché le cose non sono andate come pensate voi. Io, accidenti, quella pietra l'avevo trova­ta! State a sentire se non è vero: quando vi siete domandati la prima volta dove mi ero cacciato, io mi trovavo a meno di dieci passi da voi e, vedendo che voi non mi vedevate e ve ne stavate andando, mi sono messo davanti a voi e davanti a voi sono rimasto per tutta la strada.»
Gli raccontò così tutto quello che avevano fatto e detto dall'inizio alla fine e gli fece vedere come le loro sassate gli avevano ridotto la schiena e gli stinchi, e poi aggiunse:
«Vi dico anche che quando sono arrivato alla porta della città carico di tutto questo bendiddio di pietre che vedete qui, nessuno mi ha chiesto niente, e lo sapete quanto sono fiscali e noiosi di solito quei doganieri lì che vogliono vedere tutto quello che porti; e se questo non vi basta, per strada ho incontrato certi miei conoscenti e amici che di solito mi salutano sempre e insistono per offrirmi un cicchetto, e nessuno di loro mi ha rivolto una parola, perché non mi vede­vano. Quando però sono arrivato qui a casa, mi si è parata davanti questa femmina dannata e l'incantesimo si è rotto, perché, si sa, le donne rompono sempre gli incantesimi, e così io, che potevo essere l'uomo più fortunato di Firenze, sono rimasto il più scalognato. È per questo che l'ho riempi­ta di botte fino a farmi male alle mani, e non so chi mi tiene dal tagliarle la gola. Maledetto il giorno che l'ho vista per la prima volta e quello che me la sono portata a casa!» e, in un ritorno di rabbia, si voleva alzare per andare a picchiarla di nuovo.
Buffalmacco e Bruno, che durante il resoconto avevano simulato il più grande stupore, confermando ogni due paro­le quello che Calandrino diceva e trattenendo a stento le ri­sate, adesso che lo videro alzarsi in piedi furioso per dare un'altra ripassata alla moglie gli saltarono addosso e lo bloc­carono dicendogli che la colpa di quello che era successo non era della Tessa ma sua, perché lui lo sapeva che le don­ne rompono sempre tutti gli incantesimi e non le aveva ordi­nato di stargli alla larga quel giorno, e che sicuramente era stata qualche Entità Superiore a non fargli venire in mente questo accorgimento, forse perché non si meritava una for­tuna simile o magari perché aveva avuto intenzione di ingannare i suoi amici, che invece avrebbe dovuto informare subito della sua scoperta. E dopo avergli dato tanti perché e percome, riuscirono non senza grandi sforzi a riconciliare con lui la moglie che si lamentava, e poi lo lasciarono lì tutto immalinconito con la casa piena di pietre.
Un’ultima riflessione sullo stile. La prosa di Boccaccio presenta una grande varietà di modi, di toni e di registri, sempre pienamente correlati alla materia narrata. Versatile e mutevole, la scrittura boccacciana sa essere aristocratica nelle novelle di cortesia, umile e popolaresca nelle novelle del realismo, commossa nelle novelle d'amore. Assume tonalità ora poetiche, ora grottesche, ora tragiche, ora comiche; altre volte mantiene un tono "medio" in cui si neutralizzano i contrasti della vita. Grazie alle sue variegate articolazioni, alla perfezione della struttura sintattica che riecheggia il perio­dare classico, alla molteplicità dei ritmi e del fraseggio, la prosa boccaccesca sarà per secoli il modello cui guardarono con ammirazione i narratori d'Italia e d'Europa.
Massimo Capuozzo


[1] Giovanni Boccaccio - Giovanni Boccaccio, figlio illegit­timo del mercante Boccaccino di Chellino, nacque a Certaldo o forse a Firenze nel 1313.
Ancora adole­scente fu inviato a Napoli per imparare l'arte del mercante. L’ambiente napoletano gli si mostrò pieno di fascino; partecipò alla vita mondana della città frequentando le allegre brigate della corte angioina. Cominciò qui ad avvertire il richiamo della poesia e della letteratura ed iniziò, come autodidatta, lo studio dei classici (Ovidio, Virgilio, Tito Livio). A Napoli si innamorò di Maria d'Aquino, figlia naturale del re Roberto d’Angiò; a lei diede nelle sue opere il nome di Fiammetta.
Tornato a Firenze nel 1340, forse per il crollo economico del padre, compose le opere Ninfale d'Ameto, Fiammetta, Amorosa visione, Ninfale Fiesolano.
Nel 1348, mentre assisteva a Firenze alla ter­ribile pestilenza che con furia spaventosa flagellava l'Italia e l'Europa, mietendo migliaia di vittime, maturò in lui l'intenzione di comporre il Decameron, il suo capolavoro, in cui confluirono gli spunti degli scritti giovanili, le sue esperienze di vita quotidiana e tutto il suo ampio bagaglio culturale.
Trascorse gli ultimi anni della vita in intimo raccoglimento, confortato dallo studio dei classici e dall'amicizia con il poeta Francesco Petrarca.
Boccaccio morì a Certaldo nel 1375.
[2] Warner Sombart – Warner Sombart (1863-1941), sociologo ed economista tedesco, oltre ad essere definito il capocorrente della "nuova scuola tedesca", fu considerato uno dei maggiori autori europei del XX secolo nel campo delle scienze sociali.
Di orientamento politico liberale, studiò economia e diritto in Italia, presso le Università di Pisa e Roma e in Germania presso l'Università di Berlino.
I suoi studi universitari furono fortemente influenzati dall'ammirazione verso il pensiero filosofico di Marx, tanto da farlo diventare un interprete appassionato de “Il Capitale”.
Sombart sosteneva vivacemente che la sociologia faceva necessariamente parte delle Scienze Umane, in quanto trattava lo studio degli esseri umani per cui richiedeva una comprensione interiore, emotiva, piuttosto che una comprensione esterna ed oggettiva. La sociologia di Sombart non mirava la sua attenzione sullo studio dello straniero e dei suoi diritti civili e politici, in quanto individuo, bensì sulla sua funzione sociale: lo straniero viene considerato una categoria utile per spiegare il mutamento dei meccanismi sociali. Sombart affronta il tema dell'"altro" all'interno della sua opera più conosciuta, quella che delineerà alcuni tratti fondamentali della sociologia economica: il “Capitalismo moderno”.
Pubblicato nel 1902, il “Capitalismo moderno” rappresenta l'opera più importante del suo lavoro sociologico; opera nella quale mette in risalto il suo studio accurato sullo sviluppo economico europeo degli ultimi secoli, osservato non solo sotto il profilo storico, ma anche attraverso gli apparati relazionali che uniscono economia e società.
Il tema centrale di questo libro era caratterizzato dall'idea che lo sviluppo economico dovesse essere il punto di partenza del processo di mutamento sociale. In questo ambito assume particolare importanza la figura dell'imprenditore, secondo Sombart, figura indispensabile e necessaria per lo sviluppo nella quale si identifica lo straniero.
Per lui sono imprenditori tutti coloro i quali sono portatori di innovazione, ovvero tutti coloro che per la loro origine sociale, per la funzione della attività da loro svolta o per la posizione marginale che occupano nella società, riescono a stravolgere le linee guida tradizionali.
In altre parole, secondo Sombart, la figura dell'imprenditore fa riferimento a quei gruppi sociali dai quali provengono gli eretici, gli stranieri e gli ebrei1. Per questo motivo in Sombart, la figura dell'altro (eretico, ebreo, straniero) incarna pienamente il propulsore del processo di innovazione.
Lo straniero descritto in questa ottica, raffigura un'immagine positiva, vincente, in grado di incidere fortemente sul tessuto sociale. Lo straniero di cui parla Sombart è quello coinvolto nelle migrazioni di massa dal XVI secolo in poi, riguardanti le fasce privilegiate, tra cui gli spostamenti degli ebrei, la colonizzazione dei paesi d'oltremare - in particolare degli Stati Uniti d'America - e le migrazioni dei cristiani perseguitati per motivi religiosi.
Il punto centrale dell'analisi sociologica di Sombart riguarda esclusivamente la figura dello straniero-imprenditore; straniero perché è un immigrato, imprenditore in quanto soggetto economico.
L'arrivo in una nuova terra di questo individuo (straniero-imprenditore) dalla natura così attiva - perchè nel nuovo paese è libero da ogni freno o condizionamento nella ricerca totale dei propri interessi di guadagno e dello sviluppo del proprio spirito di imprenditore - avrà effetti positivi nella società che lo ospiterà.
Questa audace e irrefrenabile voglia di guadagno si trasformerà in un'attività imprenditoriale che darà inizio al processo di sviluppo economico e di innovazione attraverso il quale lo straniero-imprenditore riuscirà a dar vita a nuovi meccanismi e strutture sociali. Infatti secondo Sombart, lo straniero agirà in questo modo perché spinto dal bisogno e dalla sua fame di futuro, in quanto la sua primaria concentrazione nella nuova società sarà dedicata ad un'unica attività: guadagnare.
[3] Il Decameron – Il Decameron, in greco significa "dieci giornate", fu composto tra il 1348 – anno in cui infuriava a Firenze la peste – e il 1351, è una raccolta di cento novelle raccontate a turno in dieci giorni da sette fanciulle e tre giovani, racchiuse in una cornice narrativa.
[4] Umana… afflitti: L’opera si apre, secondo l’uso retorico medievale, con una massima morale.
[5] e come…quegli: Il narratore stesso, che in passato ha avuto bisogno di consolazione, si sente ora in dovere di offrirla a sua volta agli «afflitti».
[6] Per ciò che… appetito: La sintassi complessa è una delle caratteristiche del Decameron ed è particolarmente sostenuta in questo brano che, per la sua posizione proemiale, deve obbedire alle regole della retorica.
[7] Ma, sì… rimaso: Mentre l’amore, quando veniva vissuto, era pieno di affanni, adesso che è semplicemente ricordato esso è divenuto piacevole.
[8] E quantunque… avuto: Destinatarie dell’opera saranno dunque le persone più soggette alle pene d’amore, ossia (come subito dopo si dirà) le donne.
[9] La necessità di celare la propria passione per le costrizioni che la donna subisce dall’esterno è un tema che tornerà spesso nel Decameron.
[10] Il Proemio distingue tra «novelle» (narrazioni di argomento vario), «favole» (modellate sui fabliaux dei francesi), «parabole» (racconti di argomento morale) e «istorie» (narrazioni a sfondo storico).
[11] consiglio: imperscrutabile sapienza.
[13] ad alte grida: allude al grido "Eli, eli..." di Cristo morente sulla croce, quando, cioè, fu consumato i1 matrimonio con la Chiesa (cfr. Purg. c. XXIII, 74 e n.).
[14] due principi: San Francesco e San Domenico.
[16] l'altro: San Domenico, luminare della scienza teologica ("cherubica luce", dal nome dei Cherubini).
[17] l'opere sue: le opere loro, di entrambi.
[18] Intra Tupino: tra il fiumicello Topino e il fiume Chiascio, che nasce dai colli di Gubbio, detto di Sant'Ubaldo, declina a valle una fertile costa del monte Subasio, dalla quale costa Perugia riceve venti freddi e caldi attraverso Porta Sole; e,
dietro al Subasio, Nocera e Gualdo Tadino si rammaricano della poco favorevole posizione geografica.
[19] frange: interrompe e addolcisce la sua ripidezza ("rattezza"). È così individuato il luogo: Assisi.
[20] un sole: San Francesco.
[21] di Gange: il sole sorge, luminosissimo, dal Gange nel solstizio d'estate.
[22] Ascesi: antico nome di Assisi.
[24] per tal donna: per la Povertà, a cui, come alla morte, nessuno apre il cuore per amarla, incorse nell'irata riprovazione del padre, Pietro Bernardone, ricco mercante.
[26] et coram patre: latinismo. Davanti al padre, Francesco rinunciò ad ogni sostanza.
[27] primo marito: Cristo.
[28] sanza invito: senza che alcuno la cercasse.
[29] colui: Cesare. Lucano, nella "Pharsalia", narra di un certo Amiclate, poverissimo pescatore incontrato da Cesare, che usava dormire lasciando aperta la porta della sua capanna perché non temeva di essere derubato.
[30] feroce: nel senso buono di "fiera, impavida".
[31] dove: anche sul Calvario, dove Maria rimase ai piedi della Croce ("giuso") la Povertà salì con Cristo sullo strumento di tortura e pianse con lui.
[32] prendi: intendi.
[33] Papa Bonifacio: si parla del papa Bonifacio VIII che esercitò il pontificato dal 1294 al 1303.
[34] Geri Spina: è Ruggeri Spina, banchiere d'alto rango e capo della fazione fiorentina dei Neri, che appoggiava ed era appoggiata dal papa. Per questa ragione gli amba­sciatori pontifici si erano recati da lui.
[35] cose di somma importanza: affari di stato. Il papa aveva inviato ambasciatori affinchè tentassero di riappacificare i Bianchi e i Neri, le cui continue rivalità laceravano la società fiorentina; ma l'ambasceria non raggiun­se il suo scopo. Era l'anno 1300.
[36] Santa Maria Montughi: la Chiesa si trovava accanto al palazzo Strozzi ed era stata costruita dalla famiglia degli Ughi; si trovava lungo il percorso che conduceva dalla resi­denza di Geri Spina a quella dei Bianchi e a quella dei Neri.
[37] Cisti: diminutivo di Bencivenisti.
[38] farsetto: giubbetto.
[39] all'Arno: è questa la battuta arguta di Cisti; sta a significare che con un fiasco di tale capienza si va a prendere acqua e non vino.
[40] Currado Gianfigliazzi: personaggio storico vissuto nella Firenze del 1300.

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