domenica 10 aprile 2011

Letture dal Principe di Machiavelli

Cap. XII I DIVERSI TIPI DI ESERCITI E LE MILIZIE MERCENARIE Dopo aver trattato nel dettaglio tutte le caratteristiche dei principati e aver considerati i loro aspetti positivi e negativi e dopo aver visto in quali modi essi possono essere conquistati e conservati, mi rimane da discutere in generale delle modalità con cui ciascun principato può attaccare o si può difendere. Si è già detto che un principato deve avere delle sicure basi se non vuole crollare. Le basi fondamen­tali per ciascun principato, sia esso nuovo, di antica formazione oppure misto, sono le buone leggi e un buon esercito. Poiché però non ci possono essere buone leggi dove non c'è un esercito efficiente e viceversa, mi occuperò ora di considerare il problema dell'esercito e non quello delle leggi. Le milizie di cui si può servire un principe per difendere il suo territorio possono essere sue, mercenarie, ausiliarie oppure miste. Le milizie mercenarie e quelle ausiliarie sono inutili e pericolose: chi affida la sicurezza dello stato a truppe prezzolate non potrà mai essere sicuro e stabile perché queste sono disunite, ambiziose, senza regole e infedeli; coraggiose con gli amici e vigliacche con i nemici, senza timor di Dio e inca­paci di lealtà con gli uomini; quando ci si affida ad esse la completa rovina è scongiurata solo se la battaglia viene rinviata; in tempo di pace si rischia di essere spo­gliati da loro, in tempo di guerra dai nemici. La ragione è che i soldati mercenari non hanno altro scopo nella guerra che ottenere uno stipendio, che senza dubbio non è sufficiente a convincerli a morire per il principe. Sono fedeli al principe in tempo di pace ma, quando scoppia la guerra, si comportano da vili o da traditori. Non è certo difficile dimostrarlo, dato che oggi la ro­vina dell'Italia non è provocata da altro che dall'essersi messa a lungo nelle mani delle milizie mercenarie. Queste consentirono a qualcuno di ottenere dei vantaggi e sembravano particolarmente valorose quan­do guerreggiavano fra loro, ma non appena arrivarono gli stranieri si mostrarono per quello che erano. Così Carlo VIII, re di Francia, riuscì a impossessarsi "con il gesso" della penisola; c'era chi sosteneva che tutta la responsabilità era nelle colpe di cui gli Italiani si erano macchiati e in un certo senso diceva il vero; i peccati cui si riferiva erano però ben diversi ed erano quelli di cui si è detto sopra; erano colpe dei principi e, infatti, ne hanno sofferto anche loro. Voglio dimostrare meglio il danno commesso dalle milizie mercenarie. I capitani di ventura possono essere assai esperti, oppure no: se lo sono, non ci si può fidare di loro perché aspireranno al successo personale a scapito di chi li ha assoldati o, anche contro la sua volontà, di altri; se non sono valorosi il più delle volte porteranno alla rovina. Qualcuno potrebbe osservare che chiunque, prezzolato o no, può comportarsi così. Si può replicare a ciò, osservando che le armi possono essere utilizzate da un principe o da una repubblica. Il principe deve essere in prima persona il capitano dell'esercito; la repubblica deve mandare i suoi cittadini in modo che se uno non si dimostra valoroso lo possa cambiare, mentre se si dimostra tale lo possa obbligare a rimanere, senza però andare al di là dei suoi compiti. L'esperienza insegna che i principi e le repubbliche con armi proprie ottengono notevoli successi, mentre le milizie mercenarie non fanno che danni. Una repubblica dotata di esercito proprio più difficilmente diventa serva di un suo cittadino, al contrario di una repubblica che utilizza soldati prezzolati. Per molti secoli Roma e Sparta furono armate e li­bere. Gli Svizzeri sono ancora più armati e ancora più liberi. I Cartaginesi sono invece un esempio di popolo antico che si servì di milizie mercenarie, ma che, finita la prima guerra contro i Romani, venne sopraffatto dai soldati prezzolati anche se aveva a disposizione dei condottieri propri. Dopo la morte di Epaminonda, Filippo il Macedone venne riconosciuto capo dai Tebani, ma egli, dopo la vittoria, tolse loro la libertà. I Milanesi, alla morte del duca Filippo Visconti, assoldarono Francesco Sforza contro i Veneziani, ma egli, dopo aver sbaragliato gli avversari a Caravaggio, si alleò con loro contro i Milanesi, suoi padroni. Suo padre Attendolo Sforza, al soldo della regina Giovanna I di Napoli, la abbandonò improvvisamente così che lei, per non perdere il regno, fu costretta ad allearsi al re Alfonso d'Aragona. Anche se nel passato i Veneziani e i Fiorentini hanno accresciuto il loro potere grazie a questo tipo di truppe e i loro capitani non sono mai diventati principi, ma li hanno difesi, bisogna dire che i Fiorentini vennero favoriti dalla buona sorte perché i migliori capitani, dei quali potevano aver paura, o non vinsero o incontrarono un'efficace opposizione, oppure ancora rivolsero la loro ambizione altrove. Giovanni Acuto non vinse, pertanto è difficile verificare il suo grado di fedeltà; se avesse vinto però tutti i Fiorentini sarebbero stati ai suoi piedi. Lo Sforza ebbe sempre come avversario Braccio da Montone, così che le truppe di uno controllavano sempre quelle dell'altro: Francesco rivolse la sua attenzione alla Lombardia, Braccio da Montone al regno di Napoli e alla Chiesa. Consideriamo ora ciò che è appena successo. I Fiorentini assoldarono come capitano Paolo Vitelli, uomo saggio che, da privato cittadino, aveva raggiunto grandissima fama. Se avesse espugnato Pisa, nessuno può negare che ai Fiorentini sarebbe convenuto tenerlo con sé perché, se si fosse messo con il nemico, i Fiorentini non avrebbero avuto scampo. Se però avessero deciso di tenerselo avrebbero dovuto obbedirgli. Esaminando ora con attenzione la linea di condotta dei Veneziani, si vedrà che essi hanno ottenuto sicurezza e fama fino a quando hanno combat­tuto con armi proprie, e cioè prima che decidessero di abbandonare il mare, dove i nobili e il popolo ar­mato si erano mostrati sempre valorosi. Quando cominciarono a combattere sulla terraferma persero questo valore e seguirono l'usanza degli altri stati italiani. All'inizio delle loro imprese su terra, poiché non vi erano mai stati e godevano di un'ottima reputazione, non avevano da temere molto dai loro capitani di ventura; non appena però le loro mire espansionistiche aumentarono, mi riferisco qui al Carmagnola, ebbero un saggio di questo errore. Dopo aver sperimentato il valore del loro capitano e dopo aver battuto grazie a lui il ducato di Milano, si resero conto che egli non desiderava più combattere. Capirono che con lui non avrebbero più potuto vincere, perché non lo desiderava, ma non potevano allontanarlo per non perdere ciò che, grazie a lui, avevano conquistato, per cui, per sbarazzarsene, dovettero ucciderlo. Ebbero poi altri capitani come per esempio Bartolomeo Colleoni, Ruberto di San Severino, il conte di Pitigliano e altri con i quali non dovevano sperare di avere dei vantaggi, ma temere di perdere, come successe a Vailà, dove in un sol giorno i Veneziani persero quello che in ottocento anni, con tanta fatica, avevano conqui­stato. Con le milizie mercenarie le conquiste sono sempre lente, tardive e precarie mentre le perdite sono rapide e mirabolanti. Poiché gli esempi che ho portato riguardano l'Italia, che è stata a lungo governata con gli eserciti mercenari, voglio esaminare l'origine e gli sviluppi che essi hanno avuto, così da trovare un rimedio efficace. Bisogna ricordare che in questi ultimi tempi l'autorità imperiale è venuta meno in Italia, che il potere temporale della Chiesa è invece aumentato e che l'Italia si è divisa in più stati. Molte grandi città hanno preso le armi contro i nobili i quali, in precedenza appoggiati dall'imperatore, le tenevano oppresse. La Chiesa le proteggeva per aumentare il suo potere temporale. In molti altri luoghi dei notabili lo­cali divennero principi. L'Italia, insomma, è diventata quasi del tutto soggetta all'autorità della Chiesa e di poche potenze, ma i prelati e i cittadini saliti al potere non conoscevano l'uso delle armi e hanno cominciato dunque ad assoldare milizie. Il primo a dar fama ai mercenari fu il romagnolo Alberigo da Conio. Dalla sua scuola uscirono poi, tra gli altri, Braccio da Montone e Attendolo Sforza che, ai loro tempi, divennero arbitri della situazione italiana. Dopo di loro vennero tutti gli altri che fino ai nostri giorni hanno capitanato le truppe. Come risultato finale di tali virtù l'Italia è stata sottomessa da Carlo VIII, depredata da Luigi XII, sottoposta a ogni violenza da Ferdinando il Cattolico e disonorata dagli Svizzeri. La tattica che inizialmente hanno seguito è stata quella di togliere prestigio alle fanterie per aumentare la propria fama. Si comportarono così perché, es­sendo senza terre e vivendo della propria attività, pochi fanti non potevano dare loro sufficiente fama, mentre non avrebbero potuto nutrirne un numero elevato; decisero allora di tenere solo cavalieri perché un limitato numero permetteva loro di mantenerli e di ottenere fama. Si era giunti al punto che in un eser­cito di ventimila soldati c'erano solo duemila fanti. Per eliminare parte della paura e della fatica propria e dei soldati, i capitani inoltre avevano coltivato l'abitudine di azzuffarsi senza uccidersi, di fare prigio­nieri, ma senza riscatti. Di notte non andavano all'assalto e quelli che erano assediati non assalivano il campo nemico; intorno all'accampamento non ponevano steccati o fossati; non combattevano d'inverno. Tutto ciò era permesso dalle regole militari, fatte apposta per consentir loro di fuggire la fatica e i pericoli. Costoro hanno condotto l'Italia alla schia­vitù e alla vergogna. Cap XV. LE QUALITÀ PER CUI SI LODANO O SI BIASIMANO GLI UOMINI E SOPRATTUTTO I PRINCIPI Ci rimane da osservare quali devono essere i rapporti di un principe con gli amici e con i sudditi. Poiché molti hanno già scritto sull'argomento, io temo di essere considerato presuntuoso, soprattutto perché in­tendo discostarmi dal punto di vista degli altri; ma, es­sendo il mio obiettivo quello di essere utile a chi vuole capire, mi è sembrato opportuno esaminare la realtà e non la teoria. Molti hanno immaginato repubbliche e principati che non sono mai esistiti. C'è tuttavia tanta differenza tra ciò che è reale e ciò che è imma­ginario che colui il quale si preoccupa di ciò che potrebbe essere e non di ciò che è, prepara la sua rovina e non la sua salvezza. Un uomo che voglia essere buono in tutto in mezzo a tanti che non lo sono, non può che andare incontro al disastro. È perciò necessario che un principe, se vuole rimanere tale, impari a non essere buono sempre, e ad esserlo o a non es­serlo secondo le necessità. Lasciando perdere le fantasie relative a un prin­cipe e ragionando intorno ai fatti, secondo me tutti gli uomini e soprattutto i principi, posti più in alto degli altri, sono contraddistinti da alcune qualità che li rendono degni di lode o di biasimo. C'è chi viene considerato generoso e chi misero (usando un termine toscano, perché avaro nella nostra lingua è anche chi desidera avere di più con furti, mentre chiamiamo mi­sero chi, in modo eccessivo, non usa del suo); qualcu­no è considerato capace di donare, qualche altro ra­pace; qualcuno crudele, qualche altro pietoso; uno tra­ditore, un altro fedele; uno effeminato e vile, un altro virile e coraggioso; uno affabile, un altro scostante; uno lascivo, un altro casto; uno schietto, un altro tor­tuoso; uno implacabile, un altro benevolo; uno severo, un altro superficiale; uno religioso, un altro miscre­dente, e così via. Ognuno dirà che sarebbe estrema­mente lodevole per un principe possedere di tutte queste caratteristiche solo quelle positive, ma poiché tutte non si possono avere, perché la natura umana non lo consente, è necessario essere così prudenti da sfuggire soprattutto la fama dei vizi che potrebbero fare perdere il potere. Se è possibile, è prudente evi­tare anche quei vizi che non possono far perdere il potere, abbandonandosi tuttavia ad essi senza troppo timore, se invece non è possibile. Il principe non deve preoccuparsi di essere criticato per quei vizi che in­vece gli consentono di mantenere il potere. A ben considerare ci sono virtù che possono condurre alla rovina e vizi che portano al benessere e alla sicurezza. Cap XVII. LA CRUDELTÀ E LA CLEMENZA: SE SIA MEGLIO ESSERE AMATI PIUTTOSTO CHE TEMUTI O TEMUTI PIUTTOSTO CHE AMATI Prendendo in considerazione altre qualità, secondo me è meglio che il principe venga considerato cle­mente e non crudele: è necessario però che non usi male di tale virtù. Cesare Borgia era considerato cru­dele; tuttavia la sua crudeltà gli permise di restaurare la Romagna, di unirla, di pacificarla e di renderla fe­dele. Esaminando attentamente le cose si vedrà che il Borgia fu più clemente del popolo fiorentino che, per non essere considerato crudele, permise la distru­zione di Pistoia. Un principe non deve curarsi della cattiva fama dì essere crudele se ciò gli consente di te­nere uniti e fedeli i suoi sudditi: pochi esempi gli basteranno e sarà in fondo più clemente di quelli che, per troppa pietà, consentono il sorgere di disordini, dai quali nascono poi delitti e furti che colpiscono la collettività, mentre le esecuzioni ordinate dal principe riguardano il singolo individuo. Tra tutti i prin­cipi a quello nuovo è impossibile sfuggire alla fama di crudeltà perché gli stati appena conquistati presen­tano i maggiori pericoli. Virgilio fa dire a Didone: La difficile impresa e il nuovo regno dura mi fanno, i vasti confini a preservare. D'altra parte il principe deve essere prudente nel prendere decisioni e nell'applicarle, ma non deve avere timore e procedere con equilibrio, prudenza e umanità in modo che l'eccessiva fiducia non lo renda incauto e l'eccessiva diffidenza non lo renda insop­portabile. Nasce però un problema, e cioè se sia meglio es­sere amato che temuto o il contrario. Sì può risolverlo affermando che sono valide entrambe le soluzioni, ma poiché è difficile mettere in pratica le due cose insieme, quando sì è costretti a rinunciare ad una, è più sicuro essere temuti piuttosto che amati. Gli uo­mini, infatti, sono generalmente ingrati, volubili, bu­giardi, vili, avidi e, se si decide di fare il loro interesse, e non si ha bisogno di loro, sono disposti a promet­terti il loro sangue, i loro beni, la loro vita, i loro figli, come già ho detto altrove; se invece si ha bisogno di loro, si rivoltano contro. In tale caso il principe che si è fidato delle loro promesse, se non ha altre difese, crolla. Le amicizie basate sul denaro e non sulla grandezza e nobiltà d'animo sono come prese a prestito e non possono poi essere spese. Gli uomini hanno meno paura a colpire un principe che si fa amare piuttosto di uno che si fa temere, perché tale legame non è sincero e può essere rotto in qualunque occasione dall'uomo, che è malvagio. Il timore invece è un legame reso saldo dalla paura della punizione, che non viene mai meno. Il principe tuttavia deve farsi temere in modo tale da non suscitare odio, anche in assenza di amore; può essere, infatti, temuto e non odiato nello stesso tempo. Ciò è possibile se rispetta i beni dei suoi cittadini e dei suoi sudditi, nonché le loro donne. Se giudica indi­spensabile condannare a morte qualcuno, deve avere delle valide giustificazioni e dei motivi evidenti, ma soprattutto non deve toccare i beni altrui: gli uomini, infatti, dimenticano prima la morte del padre che la perdita del patrimonio. Le occasioni per depredare qualcuno, d'altra parte, non mancano. Chi sin dall'i­nizio vive di rapine trova sempre un pretesto per impadronirsi dei beni altrui; al contrario, le necessità di colpire persone fisiche sono rare e si esauriscono in fretta. Quando il principe è a capo dell'esercito e deve controllare le sue truppe è necessario che non si preoc­cupi di essere giudicato crudele, perché senza questa fama nessuno è mai riuscito a dominare un esercito e a condurlo alla guerra. Una delle mirabili imprese di Annibale fu quella di condurre in terra straniera un enorme esercito, composto di genti diverse, senza che sorgessero mai dissensi interni o verso di lui, sia nella buona sia nella cattiva sorte. E ciò fu possibile perché Annibale manifestò tutta la sua crudeltà, che, insieme ad altre doti, lo fece sempre apparire agli occhi dei suoi uomini come degno di venerazione e terribile insieme. Senza la crudeltà, le altre sue qualità non sarebbero bastate. Gli storici, stoltamente, da una parte ammi­rano i suoi risultati e dall'altra criticano la causa prin­cipale che li ha permessi. Quanto sia vero che le altre sue qualità non sa­rebbero state sufficienti lo si vede bene in Scipione, uomo di qualità rarissime non solo per il suo tempo ma per tutta la storia dell'umanità. Il suo esercito in Spagna si ribellò e ciò dipese dalla sua eccessiva cle­menza, perché aveva concesso alle truppe troppa li­bertà rispetto alle esigenze imposte dalla disciplina militare. Quinto Fabio Massimo in Senato gli rim­proverò tale atteggiamento e lo definì corruttore dell'esercito romano. Gli abitanti di Locri, in Sicilia, fu­rono sottoposti a ogni serie di angherie da parte di un luogotenente di Scipione, ma questi non fece mai giu­stizia e non punì il colpevole, proprio per il suo ca­rattere indulgente. In Senato si disse che Scipione era simile a quegli uomini in grado di non commettere er­rori, ma incapaci di correggere gli errori altrui. Il suo, atteggiamento avrebbe con il tempo compromesso la sua fama e la sua gloria, ma poiché si rimise all'auto­rità del Senato non ne subì le conseguenze, ma addi­rittura ne trasse motivo di gloria. Posso concludere tornando al problema di par­tenza: gli uomini amano per loro volontà ma temono per volontà del principe e dunque il principe saggio deve fare affidamento solo su ciò che dipende da lui e non da altri. Deve solo fare in modo di non essere odiato, come si è detto. Cap. XVIII. I PRINCIPI E LA PAROLA DATA Tutti sanno quanto sia lodevole che un principe man­tenga la parola data e viva con onestà, senza ricorrere all'inganno. Tuttavia la realtà dei fatti ci mostra dei principi che hanno ottenuto quello che volevano senza tener fede alle promesse e ingannando gli uo­mini; questi principi hanno superato nelle loro im­prese quelli che hanno sempre agito con lealtà. Ci sono due modi di battersi: uno con le leggi, l'altro con la forza. Il primo è proprio dell'uomo, l'altro delle bestie, ma poiché il primo non sempre funziona conviene ricorrere anche al secondo. Un principe deve dunque servirsi dei mezzi degli uomini e di quelli delle bestie. Gli antichi scrittori lo hanno sempre insegnato tra le righe nelle loro opere. Achille e nume­rosi altri principi dell'antichità furono affidati al centauro Chirone perché li allevasse sotto la sua disci­plina. L'avere per maestro qualcuno che era metà be­stia e metà uomo voleva appunto sottolineare il fatto che il principe deve essere in grado di servirsi delle sue due nature, perché l'una senza l'altra non dura a lungo. Della sua natura bestiale il principe deve sfruttare le qualità della volpe e del leone, perché il Icone non sa difendersi dalle insidie e la volpe non sa difendersi dalla forza bruta dei lupi. Bisogna essere volpe per ri­conoscere l'inganno e essere leone per spaventare i lupi. Coloro che fanno semplicemente la parte del leone non sanno governare. Un principe saggio non può e non deve mantenere la parola data quando ciò può tornare a suo svantaggio e quando sono venute a mancare le ragioni che lo avevano indotto a darla. Se gli uomini fossero tutti buoni non varrebbe questa regola, ma siccome non lo sono e in generale non la os­servano, non è una regola da osservare nei loro con­fronti. A un principe non sono mai mancati dei pre­testi legali per farlo. Nella storia moderna ci sono infiniti esempi di trattati di pace e di promesse non man­tenute per la slealtà dei principi, e di essi i più simili alla volpe hanno avuto la meglio. E necessario però essere abili nel mascherare questa natura e essere ca­paci di fingere e ordire inganni. Sono tanto numerosi gli uomini ingenui e legati alle esigenze del momento che l'ingannatore troverà sempre chi è disposto a la­sciarsi ingannare. Voglio ricordarvi un esempio recente. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare e trovò sempre il terreno adatto. Non ci fu mai uomo pronto a giurare e spergiurare che osservasse meno i suoi giuramenti e tuttavia egli riuscì sempre nei suoi intenti perché conosceva bene i punti deboli della natura umana. Un principe non deve possedere tutte le qualità ci­tate prima, ma è necessario che mostri di possederle. Anzi oserei quasi dire che se le ha e ne fa uso, gli sono dannose; se invece fa credere di averle, gli sono utili. Il principe deve apparire indulgente, fedele, umano, schietto, religioso e deve esserlo; nel momento in cui però non può esserlo, deve essere capace di trasfor­marsi nel contrario. Bisogna capire che un principe e soprattutto un principe nuovo non può rispettare tutte quelle norme per cui uno è considerato buono, avendo spesso la necessità, per mantenere il potere, di operare contro la lealtà, la pietà, l'umanità, la reli­gione. E indispensabile che abbia un animo disposto a mutare in concomitanza dei mutamenti della sorte, in modo che, quando gli è possibile, non si allontani dal bene ma, quando la necessità lo impone, sappia accollarsi il male. Il principe non deve mai farsi uscire dalla bocca una parola che non sia in linea con le cinque qualità di cui si è parlato, così che appaia a chi lo vede e lo ascolta tutto indulgenza, tutto lealtà, tutto integrità, tutto integrità, tutto pietà religiosa. Nulla gli è più in­dispensabile che manifestare quest'ultima virtù. In ge­nere gli uomini giudicano più dall'apparenza che dall'esperienza diretta, perché tutti vedono, ma pochi toccano con mano. Ciascuno vede l'apparenza, pochi si rendono conto della realtà e questi pochi non hanno il coraggio di opporsi alle opinioni della mag­gioranza che hanno dalla loro l'autorità pronta a di­fenderli: nelle azioni degli uomini e soprattutto dei principi, quando non c'è tribunale a cui ricorrere, si deve considerare il fine. Un principe deve dunque conquistare uno stato e conservarlo: i suoi metodi saranno sempre considerati onorevoli e verranno lodati da tutti perché il popolo, e tutti sono uguali in questo, bada sempre alle appa­renze e al risultato. Le sparute minoranze di savi non avranno alcun ruolo perché tutti gli altri si appogge­ranno al principe. Un principe contemporaneo, che non è opportuno citare, predica sempre la carità e la lealtà, ma non rispetta né l'una né l'altra; se lo avesse fatto avrebbe certo perso la sua autorità e i suoi domini. Cap. XXV: Quanto può la fortuna nelle cose umane e come si può resistere ad essa So che molti uomini pensavano e tuttora pensano che le cose del mondo sono governate dalla fortuna e da Dio e che gli uomini, anche se sono saggi, non sono in grado di modificarle e neppure di portare qualche rimedio. Di conseguenza si potrebbe pensare che non vale la pena di affannarsi e che ci si debba lasciar governare dal destino. Questa opinione ha avuto parti­colare successo ai nostri tempi a causa degli sconvolgimenti che si sono visti e che si vedono quotidianamente e che nessuno avrebbe potuto prevedere. An­ch'io in qualche caso sono stato tentato di pensare allo stesso modo. Tuttavia affinché il nostro libero arbitrio non sia completamente annullato penso che la fortuna possa determinare la metà delle nostre azio­ni, mentre per l'altra metà gli eventi dipendono da noi. Voglio paragonare la fortuna a uno di questi fiumi in piena che, quando rompono gli argini, allagano le pianure, abbattono alberi e costruzioni, portano via terra da una parte e la spingono dall'altra; tutti fuggono e ciascuno cede alla furia dell'acqua senza op­porre resistenza. Benché la situazione sia questa, gli uomini hanno la possibilità, in tempi tranquilli, di premunirsi apprestando ripari e costruendo argini in modo che se il livello delle acque si fa pericoloso, queste confluiscano nei canali o non siano sfrenate e dannose. La fortuna si manifesta nello stesso modo: mostra tutta la sua forza là dove non ci sono abilità e organizzazione che siano capaci di resisterle e rivolge il suo impeto proprio là dove sa che non esistono ar­gini o difese. Se si osserva l'Italia, che è il cuore e la causa degli sconvolgimenti, si può riconoscere una terra senza argini e ripari. Se essa fosse stata protetta convenientemente come la Germania o la Spagna e la Francia, l'inondazione non avrebbe provocato danni così grandi o non ci sarebbe stata. Non voglio dire altro circa il modo di fronteggiare la fortuna in generale. Restringendo il campo d'osservazione è possibile vedere un principe avere oggi successo e domani ca­dere nella polvere, senza che ci siano stati cambia­menti nel suo modo di essere. Io penso che ciò av­venga prima di tutto per le ragioni di cui abbiamo fi­nora ampiamente parlato: il principe che si affida alla sola fortuna crolla appena questa cambia. Penso anche che possa avere successo il principe che adatta il suo modo di agire alle particolari condizioni del mo­mento, mentre penso che vada incontro al fallimento quello che non è in grado di adattarsi ai tempi. Gli uomini, infatti, per raggiungere il loro obiettivo e cioè ottenere onori e ricchezze possono procedere in di­versi modi, con cautela o impetuosità, con violenza oppure astuzia, con pazienza o impazienza e ciascuno in modo diverso ottenere ciò che si era prefisso. Di due persone prudenti una arriva all'obiettivo e l'altra no e similmente capita che giungano allo stesso suc­cesso una persona prudente e una impetuosa: ciò dipende dall'adeguarsi o meno della situazione al loro modo di agire. È facile concludere che due persone, operando in modo diversa,, raggiungono lo stesso scopo, mentre due che operano nello stesso identico modo non riescono a farlo. Dallo stesso motivo di­pende il mutarsi del bene in male. Può succedere, in­fatti, che governando con rispetto e pazienza, le cir­costanze consentano al principe di mantenere il po­tere, ma, nel momento in cui la realtà cambia, gli può succedere di perderlo perché non ha saputo cambiare il suo atteggiamento. Non è possibile trovare un uomo che sia in grado di adattarsi ai mutamenti, perché è nella sua indole che non sappia cambiare il suo modo di essere e anche perché, avendo ottenuto buoni ri­sultati seguendo un certo percorso, non si persuade a cambiarlo. L'uomo mite non sa trasformarsi in ir­ruente, donde la sua rovina; perché se, ammaestrato dal tempo e dagli eventi, sapesse adeguarsi ai muta­menti, la sua fortuna non cambierebbe. Papa Giulio II si comportò sempre da irruente e i suoi tempi erano così adatti al suo modo di fare che raggiunse ogni volta il suo scopo. Si esamini la sua prima impresa a Bologna, quando era ancora in vita Giovanni Bentivoglio. I Veneziani erano contrari come anche il re di Spagna; la Francia era in trattative con lui e tuttavia si mosse in prima persona con tutto il suo spirito bellicoso. Veneziani e Spagnoli vennero pa­ralizzati dalla sua mossa, i primi dalla paura di questa sua azione e Ferdinando II dal desiderio di imposses­sarsi di tutto il regno di Napoli. Riuscì inoltre a tra­scinare nell'impresa il re di Francia che, vedendolo de­ciso all'azione e desiderandolo come alleato per inde­bolire i Veneziani, si rese conto di non potergli negare il suo aiuto senza arrecargli palese offesa. Giulio con la sua azione irruente ottenne quello che nessun altro pontefice, con tutta la possibile prudenza, avrebbe potuto avere. Se avesse, infatti, indugiato a Roma in at­tesa che tutto fosse perfettamente in regola, come avrebbe fatto qualunque altro papa, avrebbe fallito perché il re di Francia avrebbe trovato mille scuse e gli altri avrebbero avuto il tempo di intimorirlo. Non voglio occuparmi delle altre sue imprese, del tutto si­mili a questa e tutte vittoriose. La brevità della vita non gli fece conoscere sconfitte, ma se i tempi fossero cambiati e avessero preteso un atteggiamento più cir­cospetto, il papa avrebbe conosciuto la sconfitta. Giulio II non avrebbe mai mutato il suo modo di pro­cedere, che era connaturato alla sua indole. Per finire se la fortuna cambia e gli uomini si osti­nano nei loro atteggiamenti, essi hanno successo fino a quando i due elementi si accordano, ma vanno verso la rovina se questo non succede. Io sono convinto che è meglio essere impetuosi piuttosto che prudenti, perché la fortuna è donna ed è indispensabile, per sottometterla, percuoterla e sbatterla. Essa si lascia domi­nare dagli irruenti più che da coloro che si compor­tano senza slanci. In quanto donna predilige i giovani che sono meno cauti, più focosi e audaci nel dominarla. Esercizio 2. Comprensione complessiva 1 - Esponi a parole tue il contenuto del testo. Qual è il problema generale affrontato nel brano e quali sono gli eventuali sotto-problemi affrontati e come sono esposti? 21 Qual è la tesi di fondo sostenuta? quali sono gli argomenti a sostegno della tesi generale? 22 Vengono presentate antitesi o argomenti altrui non condivisi? se sì, quali sono quali sono le antitesi ed attraverso quali argomenti vengono eventualmente confutate? 23 - Quali sono le prove di validità degli argomenti? quali fra di esse sono dati oggettivi (fatti, nozioni, leggi generalmente valide, testimonianze, pareri o citazioni di esperti)? Quali sono dati soggettivi (opinioni personali dell'autore, suoi giudizi, sue interpretazioni, opinioni di persone diverse dallo scrivente o di determinati gruppi)?24 - A quale conclusione giunge l'autore?

1 commento:

  1. Nel capitolo XXV Machiavelli sostiene che la fortuna è arbitra di metà delle azioni umane, mentre l'altra metà resta nelle mani degli uomini. Al contrario dell'opinione comune quindi Machiavelli non accetta in modo passivo l'impossibilità di intervenire sulla realtà, giusto? Ma quali sono le argomentazioni a favore di questa tesi e quali quelle contrarie? A contrario avevo pensato la mutevolezza continua delle circostanze storiche e della fortuna e il fatto che invece la natura umana è immodificabile. Ma quali sono le argomentazioni a favore?

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