lunedì 27 ottobre 2025

Artiste italiane della seconda metà del Settecento di Massimo Capuozzo

Nel secondo Settecento, l’Italia si presentava come un mosaico di possibilità artistiche, un paesaggio frammentato e variegato, dove ogni città custodiva tradizioni, accademie e reti di committenza proprie. Non esisteva un’autorità centrale capace di uniformare regole e percorsi; la carriera di una pittrice dipendeva dalla città in cui operava, dalle reti familiari e dall’accesso ai mecenati. Questo contesto, se da un lato imponeva ostacoli, dall’altro apriva spazi di libertà creativa: le pittrici potevano trovare percorsi personalizzati, sperimentare generi diversi, adattare il talento alle esigenze dei committenti e alle specificità di ogni contesto urbano.
Firenze e Bologna brillavano come centri culturali tra i più luminosi e stimolanti. Le accademie erano relativamente accessibili alle donne, le collezioni prestigiose offrivano possibilità di studio diretto, e la città concedeva visibilità a chi era capace di muoversi tra le regole sociali non scritte e le intricate reti artistiche. La frammentazione italiana, pur complicata, generava così opportunità diversificate: chi sapeva leggere i codici sociali e tessere relazioni poteva cimentarsi in ritratti, vedute, incisioni o nature morte, dialogando con collezionisti privati o intercettando visitatori stranieri del Grand Tour.
Rispetto, per esempio, alla Francia di Luigi XV e XVI, dove l’Accademia di Parigi codificava rigidamente l’accesso alle grandi committenze e alle esposizioni ufficiali, l’Italia offriva una varietà di possibilità più elastica. In Francia le regole erano severe, gli spazi per sperimentazioni individuali ristretti, e l’accesso ai circuiti ufficiali riservato a pochi eletti. In Italia, invece, chi sapeva destreggiarsi con astuzia e intelligenza sociale poteva ritagliarsi percorsi di libertà artistica e spazi di visibilità, muovendosi in dialogo con committenze private e ambienti colti, sfruttando le possibilità offerte da città diverse e dalla mobilità tra loro.
Roma e Venezia incarnavano questa complessità con carattere distinto. Roma, capitale internazionale del collezionismo, offriva committenze di prestigio e una scena artistica vivace, permettendo alle pittrici di intercettare interessi colti e stranieri. Venezia, mercantile e cosmopolita, legata ai salotti nobiliari e ai collezionisti del Grand Tour, apriva spazi diversi: non grandi accademie ufficiali, ma un contesto ricco di relazioni, dove la sensibilità, l’eleganza e la raffinatezza potevano emergere senza bisogno di percorsi rigidamente regolamentati.
Bologna, con la sua lunga tradizione accademica e scientifica, offriva possibilità ancora più straordinarie. La città consentiva alle donne di eccellere in campi impensabili altrove, combinando arte e conoscenza, con libertà intellettuale rara. Al Nord, Milano brillava per committenza aristocratica e reti di collezionisti colti, che permettevano di emergere nel ritratto e nelle opere di genere. In città minori come Brescia, pur con spazi più ristretti, le pittrici costruivano reti solide e durature, dimostrando capacità di adattamento, resistenza creativa e intelligenza nel tessere rapporti locali.
Napoli ed altre città meridionali offrivano un contesto più privato: botteghe familiari, cappelle e salotti diventavano i luoghi in cui le donne potevano ritagliarsi spazi di creatività. Il riconoscimento pubblico era limitato, ma la vitalità artistica non mancava. Qui talento, pazienza e capacità relazionale si combinavano per permettere alle donne di affermarsi, creare reti di committenza e farsi notare in un contesto sociale complesso.
In sintesi, rispetto agli altri grandi stati europei, l’Italia del secondo Settecento presentava pregi e limiti ben definiti. La frammentazione e la decentralizzazione costituivano un ostacolo, impedendo percorsi ufficiali uniformi e l’accesso alle grandi commissioni pubbliche, ma offrivano anche un vantaggio unico: varietà di percorsi, possibilità di sperimentare generi diversi, mobilità tra città e contatti con committenze colte e internazionali. In questo mosaico, le pittrici seppero ritagliarsi spazi, affermare talento e originalità, intrecciando abilità, sensibilità artistica e intelligenza sociale.
E dove il maschile dominava le grandi scene, le donne portavano introspezione, delicatezza e capacità narrativa: un dialogo silenzioso ma potente, che ancora oggi lascia tracce luminose nella storia dell’arte europea. Non erano numerose, ma laddove si affermavano lasciavano segni di sensibilità, intelligenza e coraggio, testimoni preziosi che possiamo ancora ammirare e comprendere.
La distribuzione delle pittrici non era per nulla un fatto casuale: alcune città aprivano maggiormente le porte al talento femminile, offrendo formazione, visibilità e committenze; altre realtà, invece più chiuse, costringevano le donne a inventare spazi e reti alternative, oscillando tra famiglia, bottega e patronage privato.
Firenze, nel Settecento, rimaneva un gioiello splendente tra le colline e i fiumi, eppure non priva di difficoltà per chi fosse donna e desiderasse fare dell’arte la propria vita. Le accademie e le grandi committenze erano saldamente nelle mani di pittori e scultori maschi: Zocchi tracciava le sue vedute urbane con precisione matematica, Ferretti ricopriva le volte di affreschi luminosi e decorazioni grandiose, imponendo un gusto che sembrava inaccessibile alle donne.
Giuseppe Zocchi (Firenze, 1716–1767) fu pittore, incisore e disegnatore di raffinata sensibilità, interprete della luce e dell’eleganza settecentesca. Formatosi nella bottega di Ranieri del Pace e sostenuto dal marchese Andrea Gerini, viaggiò tra Venezia, Milano, Bologna e Roma, nutrendo il suo gusto per il paesaggio e la società contemporanea. Le sue vedute di Firenze e delle ville granducali, realizzate a partire dal 1744, incarnano con nitore e grazia il vedutismo veneziano, documentando architetture, paesaggi e vita quotidiana con precisione poetica. Decoratore di palazzi e ideatore di modelli per intarsi in pietre dure, Zocchi seppe coniugare eleganza, rigore e delicatezza. Morì a Firenze nel 1767, lasciando opere che restano scrigni di memoria, luce e armonia, testimoni di una città e di un tempo che egli trasformò in poesia visiva.
Giovanni Domenico Ferretti, detto L’Imola (Firenze, 1692 – 1768), emerge come uno dei più raffinati interpreti del rococò toscano. La sua formazione, intrecciata tra Firenze e Bologna e segnata dall’influenza di Giuseppe Maria Crespi e dei grandi maestri emiliani, gli permise di coniugare la solidità del classicismo con la leggerezza e la brillantezza tipiche del rococò veneziano.
Attivo soprattutto a Firenze, Ferretti decorò chiese, conventi e ville nobiliari, imprimendo ai suoi affreschi una luminosità straordinaria: i colori pastello irradiavano trasparenze di cielo e armonie scenografiche, come nelle composizioni della Badia Fiorentina o di Santa Maria del Carmine. Parallelamente coltivò una pittura di genere teatrale, raffinata e vivace; celebre rimane la serie dei Travestimenti di Arlecchino, in cui la scena prende vita tra luci scenografiche, colori brillanti e un attento studio del carattere dei personaggi, dimostrando la sua maestria nel fondere narrativa, eleganza e dinamismo pittorico.
Versatile e poetico, Ferretti seppe muoversi con grazia tra sacro, mitologico e teatrale, lasciando un’impronta indelebile nel Settecento fiorentino, interprete sensibile di un’arte colta, elegante e armoniosa. Eppure, in questo regno di mascolinità e di tradizione, alcune donne, con coraggio e grazia, seppero ritagliarsi il proprio spazio, discreto ma luminoso, tra le pieghe delle regole e i corridoi degli Uffizi.

Irene Parenti Duclos nacque a Firenze nel 1754, figlia del pittore Giuseppe Parenti. Cresciuta tra colori, pennelli e il profumo delle tele, fin da bambina osservava i grandi maestri — Raffaello, Michelangelo, gli antichi — non per imitarli, ma per dialogare con essi in un incontro silenzioso che avrebbe nutrito la sua arte.
All’inizio della carriera, nel 1773, ottenne il permesso di installare il cavalletto agli Uffizi, dove copiò i capolavori dei grandi maestri. Tra il 1773 e il 1793 realizzò trentanove repliche a olio, molte richieste dai viaggiatori del Grand Tour britannico. Ogni opera, pur fedele al modello, mostrava precisione, eleganza e un tocco personale che fece crescere rapidamente la sua fama.
Nel 1784-85 soggiornò a Bologna, dove apprese la rara tecnica dell’encausto dal gesuita José María Pignatelli. La fusione di colore e cera calda le permise di conferire luminosità e profondità uniche ai suoi dipinti; le opere a encausto divennero presto il suo marchio, apprezzato e pagato a caro prezzo. La pittrice inglese Emma Jane Greenland, durante una visita a Firenze nel 1785, rimase incantata dai suoi lavori e contribuì a diffondere la tecnica in Inghilterra.
Irene non fu solo pittrice, ma anche poetessa: l’Accademia degli Arcadi la accolse tra i suoi membri con il nome di Lincasta Ericinia. La sua intelligenza e grazia le aprirono le porte delle Accademie di Roma e Bologna; dal 1783 divenne “Accademico Professore” all’Accademia del Disegno di Firenze, un riconoscimento raro per una donna artista, che testimonia la sua doppia valenza di creatrice e intellettuale.
Tra le sue opere originali, spiccano il Ritratto di Joseph Hilarius Eckel (1773) per la serie degli “Uomini illustri” agli Uffizi e l’Autoritratto del 1783, elegante e fiero, in cui Irene si mostra con gli strumenti del mestiere e un cammeo raffigurante Mercurio, esposto accanto ai ritratti di altre due artiste, Anna Borghigiani e Chiara Spinelli.
La sua impresa più celebre resta la copia della Madonna del Sacco di Andrea del Sarto. Iniziata nel 1779 e completata entro il 1780, era una replica a grandezza naturale dell’affresco originale nel Chiostro Grande della Santissima Annunziata. Il Granduca Pietro Leopoldo la acquistò nel 1781 per cento zecchini d’oro, esponendola a Palazzo Pitti fino al 1863. Quest’opera, unica di una donna esposta permanentemente alla Galleria dell’Accademia di Firenze, testimonia la precisione, la pazienza e l’eleganza di Irene.
Durante il restauro del 2011, condotto dalla Advancing Women Artists Foundation sotto la guida di Jane Fortune, emerse la tecnica dello spolvero utilizzata per trasferire il disegno dall’originale alla tela. Irene lavorava con una precisione straordinaria, seguendo passo passo l’originale; il restauro lo confermò e fu documentato nel film Irene Parenti Duclos: A Work Restored, An Artist Revealed e nel volume omonimo pubblicato da The Florentine Press.
Irene Parenti Duclos visse pochi anni, ma illuminò Firenze con il suo talento. La sua arte parla ancora oggi di grazia, coraggio e intelligenza. Ogni ritratto, ogni copia, ogni tela racconta di una donna che seppe ritagliarsi uno spazio nel Settecento con discrezione, ma con una luce propria e indimenticabile.
Accanto a Irene, Anna Bacherini Piattoli, allieva di Violante Siries, ritraeva anime più che volti. Ogni pastello, ogni miniatura era uno specchio dell’intimità dei soggetti, un ponte tra osservazione accurata e sensibilità femminile. Crescendo sotto la guida di Violante, Anna imparò la delicatezza del pastello, la forza del ritratto, la miniatura come forma espressiva; e, con pazienza e determinazione, seppe inserirsi nei circoli colti fiorentini, ottenendo committenze importanti. Non era solo pittrice: costruiva, con ogni gesto, la propria identità artistica, dimostrando che Firenze poteva diventare terreno fertile per donne audaci.




E non si può dimenticare Violante Siries Cerroti, figura pionieristica che tracciò sentieri e pose solide fondamenta per le generazioni successive di artiste.
I suoi viaggi, i riconoscimenti accademici, i ritratti eseguiti con gusto e precisione dimostrarono che una donna, pur in una città severa come Firenze, poteva affermarsi, guadagnare visibilità e lasciare un segno di continuità e legittimazione nel panorama artistico.
Violante Beatrice Siries (1709–1783) nacque a Firenze, città da sempre permeata di arte e cultura. Figlia di Louis Siries, francese e direttore dell’Opificio delle Pietre Dure, ricevette la prima formazione artistica sotto la guida di Giovanna Fratellini e dello scultore Filippo della Valle.
Nel 1726 si trasferì a Parigi, perfezionando gli studi pittorici con Hyacinthe Rigaud e François Boucher, per poi tornare a Firenze, dove sposò Giuseppe Cerroti e continuò a perfezionarsi con Francesco Conti.
Fin da giovane, Violante si distinse per versatilità, ma fu soprattutto nel ritratto che trovò la sua vera vocazione. Il suo talento attirò l’attenzione dei Medici, in particolare di Gian Gastone, e, dopo la morte di Giovanna Fratellini, il sostegno della potente famiglia Gondi le aprì ulteriori porte.
Nel 1732 fu accolta nell’Accademia delle Arti del Disegno, consolidando così la sua posizione tra le artiste più promettenti della città. La carriera di Violante la condusse spesso a viaggiare, soprattutto a Roma e Vienna, per eseguire importanti commissioni.
Tra le opere più ambiziose si annovera il gruppo familiare dell’imperatore Carlo VI, padre di Maria Teresa d’Austria, realizzato nel 1735. Tre suoi autoritratti sono oggi conservati alla Galleria degli Uffizi, che le concesse per la prima volta il privilegio di copiare i grandi maestri.
La sua abilità nel ritratto si estese anche alle opere religiose, come il San Francesco d’Assisi del 1765, proveniente dall’ex convento dei Cappuccini di Montevarchi e oggi al Museo dei Cappuccini, e la Vergine Maria che presenta il Bambino a Santa Maria Maddalena dei Pazzi del 1767, copia da Luca Giordano, danneggiata dall’alluvione del 1966 e restaurata tra il 2015 e il 2016 grazie all’Advancing Women Artists Foundation.


Negli ultimi anni della sua vita, Violante si dedicò con dedizione all’insegnamento, formando allieve come Anna Bacherini Piattoli e Maria Cosway, proseguendo così la sua opera di trasmissione del talento femminile e consolidando un’eredità artistica che continua a illuminare la storia dell’arte.
Firenze, allora, era un mosaico di luce e ombra: le sue piazze respiravano arte, i palazzi custodivano tesori, e le donne che avevano coraggio e grazia potevano, con astuzia e talento, farsi spazio. Il talento femminile qui non aveva bisogno di concessioni, ma solo di opportunità; e quando queste rare pittrici affermavano la propria voce, il loro gesto era un dialogo silenzioso ma potente, che illuminava le sale e ancora oggi ci parla di eleganza, di intelligenza e di audacia.
A Bologna, il maschile aveva una presenza forte nelle accademie: pittori come Ubaldo e Gaetano Gandolfi dominavano il panorama locale, con committenze che spaziavano dalle chiese ai palazzi nobiliari.
Ubaldo Gandolfi (San Matteo della Decima, 1728 – Ravenna, 1781) sapeva coniugare la vigorosa tradizione barocca con le forme più raffinate del Neoclassico. Allievo dell’Accademia Clementina e di maestri come Graziani, Torelli e Lelli, personalità di spicco nel panorama artistico bolognese, esordì giovanissimo in una famiglia di artisti prolifici.
La sua arte, caratterizzata da composizioni armoniose e figure vive, raggiunse vette di raffinata teatralità nelle tele mitologiche del Palazzo Marescalchi di Bologna (1770-1775), oggi in parte conservate al Museum of North Carolina.
Gaetano Gandolfi (San Matteo della Decima, 1734 – Bologna, 1802), fratello minore, completò la formazione bolognese con studi di scultura e un soggiorno a Venezia, dove l’incontro con Tiepolo illuminò la sua tavolozza di colori vivaci e composizioni scenografiche. Tornato a Bologna, realizzò affreschi e tele sacre per chiese e conventi, tra cui la monumentale Nozze di Cana (1775), e si dedicò anche al disegno satirico e alla pittura di genere, in particolare le Arlecchinate ispirate alla Commedia dell’Arte, diffuse in collezioni europee e americane.
Ubaldo e Gaetano incarnano due declinazioni complementari della pittura bolognese: il primo, riflessivo e classicista, il secondo, teatrale e cromaticamente audace. In ogni commissione seppero trasformare il tema in narrazione viva, fondendo mito, devozione e spettacolo, restituendo uno spaccato raffinato e vibrante della cultura artistica del Settecento. La città, pur dominata da figure maschili di rilievo, vantava una tradizione relativamente aperta alle donne, grazie all’esempio di Lavinia Fontana e a un tessuto accademico più flessibile. Le pittrici riuscivano così a inserirsi in ruoli di nicchia — ritrattiste, artiste di genere, miniaturiste — muovendosi con disciplina, astuzia e reti sociali sapientemente tessute in un contesto dove il maschile dettava la scala dei grandi onori.
In questo ambiente fertile di possibilità, Eleonora Monti (Brescia, 20 luglio 1727) si affermò come raffinata ritrattista e pittrice di pale religiose. Ammessa come membro onorario dell’Accademia Clementina di Bologna nel 1767, Eleonora coniugava precisione e sensibilità psicologica, catturando l’anima dei soggetti nei suoi ritratti e nelle composizioni sacre. Figlia del pittore Francesco Monti e di Teresa Marchioni, fu introdotta fin da bambina alla letteratura e alla lingua francese, ma fu il disegno a catturare il suo cuore. Il padre, riconoscendo il talento precoce della figlia, la guidò con pazienza e rigore: prima attraverso copie di stampe, poi con mezze figure, fino a condurla a una padronanza completa dell’arte del ritratto.
Eleonora non si limitava a riprodurre volti: li narrava. I suoi ritratti conquistavano nobili, religiosi e studiosi, come il gesuita matematico Sanvitali, ritratto post mortem con sorprendente compostezza. Tra i suoi committenti figuravano famiglie illustri — Martinengo, Avogadro, Barussi — e personalità come il vescovo Giovanni Molin e il podestà Piero Andrea Giovannelli. Nel 1768 ricevette la prima commissione per una pala d’altare, l’Immacolata Concezione con i santi Giovanni Nepomuceno, Antonio da Padova e Gaetano, destinata all’oratorio dei Morari a Bagnolo. Nonostante la morte improvvisa del padre, affrontò la sfida con determinazione, realizzando anche modelli in cera per studiare le pose, e da lì seguirono altre opere religiose, come la Madonna del Patrocinio per Castorio e due pale dedicate a Sant’Angela Merici. Eleonora fu, in tutta evidenza, una pioniera: in un’epoca in cui le donne erano spesso relegate ai margini dell’arte, seppe imporsi con grazia e talento, lasciando un segno che, pur nelle difficoltà, resiste nei racconti, nelle incisioni e nella memoria dei contemporanei.
Ma il vero prodigio bolognese fu Anna Morandi Manzolini (Bologna, 21 gennaio 1714), scultrice e anatomista, che modellava il corpo umano in cera con straordinaria precisione scientifica.
Anna coniugava arte e scienza con grazia discreta: ogni modello era strumento di insegnamento, ogni dettaglio un omaggio alla bellezza del corpo e della conoscenza. In un mondo che confinava spesso le donne alla decorazione domestica, Anna dimostrava come mente e mano potessero fondersi, lasciando un segno indelebile nella Bologna del Settecento.
Sposata con Giovanni Manzolini, professore di anatomia, Anna entrò nel laboratorio anatomico con determinazione, imparando a sezionare, osservare e modellare in cera ogni parte del corpo umano, fino ad allora difficilmente rappresentabile.
Alla morte del marito nel 1755, il Senato bolognese la nominò modellatrice in cera presso la cattedra di anatomia dell’Università di Bologna, con privilegi e onorari comparabili a quelli dei docenti più illustri. Le sue cere anatomiche non erano semplici riproduzioni: nervi, muscoli, vene e arterie prendevano vita come parti di una macchina armoniosa, coordinata dal cervello, strumenti di conoscenza e meraviglia, anticipando concetti fondamentali per la fisiologia e la neurofisiologia.


Ogni modello era corredato da didascalie precise, guidando studenti e studiosi nella comprensione della fisiologia e della percezione.

Anna seppe trasformare la pratica anatomica in linguaggio artistico e scientifico, dove la delicatezza della modellazione si sposava al rigore della ricerca.
Nel suo autoritratto in cera del 1750, Anna appare con abito rosa antico, lo sguardo deciso, le mani che reggono forcipe e bisturi: l’immagine di una donna che, con eleganza e fermezza, sfida i pregiudizi del suo tempo, unendo arte e scienza, talento e dedizione.
Anna Morandi Manzolini morì il 9 luglio 1774. I solenni funerali nella chiesa di San Procolo celebrarono la donna che aveva saputo coniugare arte, scienza e insegnamento. Le sue cere continuarono a parlare, testimoniando una vita di talento e dedizione, capace di trasformare la cera in conoscenza e la scienza in bellezza. In lei, Bologna del Settecento trovò un emblema di eleganza, rigore e straordinaria capacità creativa femminile, una presenza che continua a illuminare la storia dell’arte e della scienza.
Venezia, con i suoi canali scintillanti e il brulichio incessante di mercanti, viaggiatori e collezionisti stranieri, offriva un teatro d’arte diverso rispetto alle capitali italiane. I canali accademici ufficiali erano pochi, eppure le possibilità non mancavano: i salotti nobiliari, le committenze legate al Grand Tour e le botteghe mercantili creavano spazi in cui il talento femminile poteva emergere, pur lontano dalla monumentalità delle pale e dei grandi cicli maschili.
I maestri maschi, da Giambattista Tiepolo a Francesco Guardi, dettavano il gusto nelle vedute e nelle decorazioni monumentali, imponendo modelli spettacolari e teatrali. Ma Venezia, crogiolo di commerci e cosmopolitismo, lasciava margini di autonomia: le donne potevano costruire percorsi solidi nei ritratti, nelle nature morte, nei piccoli capricci e nei dettagli della vita quotidiana. Dove il maschile puntava alla grandiosità, il talento femminile narrava con grazia, precisione e sensibilità, portando una voce sottile ma riconoscibile.
Margherita Caffi e Maddalena Cattani seppero inserirsi in questo tessuto vivace: tra salotti nobiliari e collezionisti del Grand Tour, le loro opere univano gusto, eleganza e tecnica raffinata. Maddalena, in particolare, catturava gesti, stoffe e emozioni, raccontando storie quotidiane con uno sguardo femminile originale. La laguna offriva così possibilità concrete, anche se molte voci rimasero anonime e opere preziose si dispersero nel tempo.
Roma, invece, era la regina della committenza ecclesiastica e la meta privilegiata dei viaggiatori del Grand Tour. Qui il maschile dominava: Giovanni Battista Piranesi, Pompeo Batoni, Anton Raphael Mengs e altri grandi facevano scuola, determinando tendenze e stabilendo modelli.
Giovanni Battista Piranesi (Venezia, 1720 – Roma, 1778) fu incisore, architetto e teorico dell’arte, maestro nel trasformare le rovine romane in visioni sublimi. Le sue Vedute di Roma e le Carceri combinano rigore archeologico e fantasia capricciosa, oscillando tra barocco, neoclassico e sensibilità preromantica. Convinto sostenitore della grandezza dell’architettura romana, Piranesi operò anche come decoratore e architetto, lasciando tracce di austerità neoclassica e invenzione scenografica. La sua opera, sospesa tra monumentalità e visioni immaginifiche, influenzò il Romanticismo, il Surrealismo e persino le costruzioni impossibili di Escher, consacrandolo come interprete unico del sublime classico e fantastico.
Pompeo Girolamo Batoni (Lucca, 1708 – Roma, 1787) fu pittore celebrato per i suoi ritratti nobiliari e per le pale d’altare, capace di fondere la compostezza del Barocco tardo con i primi accenni del Neoclassicismo. Formatosi a Roma su modelli raffaelleschi e carracceschi, si impose con opere sacre come la Madonna in trono con santi e beati Gabrielli e la Caduta di Simone Mago, ma conquistò fama internazionale grazie ai ritratti per i viaggiatori del Grand Tour, tra cui nobili inglesi e irlandesi. Le sue composizioni allegoriche e mitologiche, il senso del colore e l’eleganza formale ne fanno interprete di un’arte raffinata, insieme solenne e misuratamente scenografica, oggi conservata nei principali musei d’Europa e del mondo.
Anton Raphael Mengs (Aussig, 1728 – Roma, 1779) fu pittore tedesco, storico e critico d’arte, acclamato come protagonista assoluto del Neoclassicismo. Formatosi a Roma tra statue antiche e modelli raffaelleschi, rinunciò al Barocco e al Rococò per cercare una bellezza ideale, nitida e composita, dove il disegno prevale sul colore e la semplicità nobile si accompagna a cromie brillanti. Realizzò affreschi monumentali come il Parnaso nella villa Albani e ritratti incisivi, dialogando con i grandi classici e con la cultura antiquaria europea. Critico acuto, teorizzò l’imitazione dei maestri come via alla perfezione, influenzando profondamente la pittura accademica e consolidando la fama internazionale del Neoclassicismo.
Le pale monumentali, i palazzi papali, le chiese grandiose erano saldamente appannaggio degli artisti maschi; le donne, al contrario, dovevano inventare percorsi alternativi, muovendosi con discrezione nei laboratori di famiglia, tra incisioni, vedute e paesaggi destinati ai viaggiatori stranieri. Roma, con la sua rete di committenti e salotti colti, era un banco di prova: chi sapeva leggere le relazioni sociali e interpretare i desideri della committenza poteva emergere, ma sempre con cautela, astuzia e intelligenza sottile.
Laura Piranesi (1754–1789), immersa tra le rovine antiche e la fervida bottega paterna di Giovanni Battista, elevava l’acquaforte e la veduta a forme di raffinata espressione femminile. Ogni incisione era una piccola magia: architetture che respirano, prospettive che narrano storie di pietra e di tempo, scorci in cui la città eterna si svela con delicatezza e rigore.
Roma, con la sua committenza internazionale e la sua rete di curiosi e collezionisti, offriva spazi in cui il talento femminile poteva emergere, pur tra le rigidità del maschile dominante.
Nata a Roma nel 1754, primogenita di Giovanni Battista Piranesi e di Angela Pasquini, Laura crebbe immersa in un ambiente permeato di arte e cultura.
Fin da giovanissima, fu avviata all’acquaforte insieme ai fratelli Francesco, Angelo, Anna Maria Rosalia e Pietro. Il padre le trasmise non solo la padronanza tecnica, ma anche l’amore per la precisione e l’eleganza del segno; a ciò si aggiungeva un’istruzione ampia, comprensiva del latino, che rivelava la sua raffinata cultura.
Attiva nella stamperia di famiglia, Laura contribuì alla realizzazione di incisioni inedite e alla gestione del laboratorio, un ruolo eccezionale per una donna dell’epoca.
Le sue opere si concentravano sul genere della veduta: architetture e rovine romane emergevano in composizioni poetiche, capaci di catturare l’anima della città. Queste stampe, più raccolte e misurate rispetto a quelle del padre, conquistavano l’attenzione dei viaggiatori del Grand Tour, che le portavano con sé come raffinati souvenir. L’uso del chiaroscuro e delle linee fluide tradiva l’influenza di un emergente gusto romantico, attento alla suggestione e all’emozione oltre la mera esattezza.
La vita di Laura non fu priva di difficoltà. Alla morte del padre, il 9 novembre 1778, la famiglia fu travolta da questioni legali e finanziarie: secondo le leggi sulle successioni, la bottega spettava al figlio maschio Francesco, lasciando Laura e i fratelli sotto la sua tutela. In questo contesto si formalizzò il fidanzamento con il falegname Giuseppe Svezzeman, accompagnato da un contratto di dote che gli consentì di aprire negozi a Roma, purtroppo destinati al fallimento.
Nel 1780 la coppia ebbe una figlia, Luisa Clara Maria Gertrude Fortunata Svezzeman, e negli anni successivi dovette affrontare difficoltà economiche, problemi di salute e numerosi contenziosi legali.
In ogni incisione di Laura Piranesi risuona la consapevolezza di una donna che seppe trasformare vincoli e restrizioni in visione, eleganza e misura: il suo talento emerge come raro esempio di raffinata sensibilità femminile nel cuore di un mondo artistico dominato dai grandi maestri maschi.

Nonostante le vicissitudini familiari, Laura continuò a incidere, lasciando un segno personale nella memoria artistica della famiglia. Molte delle sue opere sono prive di data, rendendo incerto il momento della loro esecuzione rispetto alla morte del padre; alcune, tuttavia, possono essere collocate con sicurezza dopo il 1778, come le Vedute della Basilica di Santa Maria Maggiore e di San Giovanni in Laterano.
Sebbene talvolta lette come copie o reinterpretazioni delle incisioni paterne, le opere di Laura rivelano invece un tratto autonomo, una libertà di disegno e un gusto raffinato che attestano senza dubbio la sua autentica abilità artistica.
A lungo oscurata dalla fama del padre e dell’inquieto fratello Francesco, Laura Piranesi si distingue oggi come raro esempio di donna artista pienamente attiva in un mercato esigente e raffinato. I registri di vendita e gli inventari di stampe redatti di sua mano raccontano la concreta partecipazione alla produzione della stamperia e il ruolo gestionale che seppe assumere con competenza.
Molte delle sue opere sono andate perdute o danneggiate, ma quelle rimaste rivelano una straordinaria capacità di coniugare rigore tecnico, sensibilità estetica e viva partecipazione al fervido mondo artistico romano del Settecento.

Accanto a Laura Piranesi, che a Roma affilava la propria maestria nell’acquaforte e dirigeva con perizia la stamperia di famiglia, un’altra donna tracciava il proprio cammino con grazia silenziosa e con determinazione: Maria Luigia Raggi, detta la “suora per costrizione”.
La vita l’aveva relegata fin da giovanissima nelle severe regole conventuali della Repubblica di Genova, eppure la sua anima trovava libertà nel colore e nella luce.
Tra le mura dell’Incarnazione e poi nel monastero che la ospitava, Maria Luigia trasformava la restrizione in possibilità: i cieli, le rovine, i sentieri bucolici delle sue tempere si aprivano come finestre sul mondo, visioni delicate e luminose di una città eterna e di un territorio interiore che solo lei sapeva raccontare.
Le loro opere non erano semplici rappresentazioni: erano testimonianze di donne attente e precise, capaci di catturare con sensibilità l’armonia degli spazi e la poesia nascosta nelle architetture e nei paesaggi.
Laura, con le sue vedute di Roma e le rovine incise con perizia e chiaroscuro poetico, attirava i viaggiatori del Grand Tour, che tornavano a casa con souvenir raffinati e racconti di città sognate; Maria Luigia, con le sue tempere dai toni chiari e luminosi, offriva scorci bucolici, capricci delicati, composizioni in cui la precisione del tratto incontrava la leggerezza del sentimento.
Se Laura imparava dal padre a dominare la tecnica e a trasmettere l’anima dei luoghi sulla carta, Maria Luigia trasformava le imposizioni in energia creativa, conquistando collezionisti privati e il rispetto dei contemporanei. Entrambe, pur muovendosi in contesti diversi, incarnavano la capacità rara delle donne che non si limitano a osservare: narrano, interpretano e offrono la loro visione del mondo con grazia e determinazione, lasciando un segno indelebile, oggi finalmente leggibile e ammirabile.
Le ventuno tempere su carta e pergamena di Maria Luigia Raggi, custodite al Museo di Palazzo Pretorio di Prato, sono minuscoli scrigni di meraviglia, finestre sulla Roma antiquaria e sui paesaggi che circondavano la città eterna. Ogni scena — ruderi solitari sospesi tra cielo e tempo, marine increspate dal vento, tempeste ribollenti sul mare — sembra sospesa in un fragile equilibrio poetico, dove la precisione del segno si fonde con la magia del ricordo.
Maria Luigia, suora dell’Incarnazione a Genova, seppe trasformare la disciplina e la clausura monastica in una straordinaria libertà creativa. Nel monastero fondato nel 1604 nel quartiere di Castelletto — dimora delle Monache Annunziate Celesti, le cosiddette "Monache Turchine" per il distintivo mantello — la sua arte si dispiegava in miniature raffinate e in delicati chiaroscuri a tempera. Con mano sicura e sguardo attento, catturava non soltanto l’architettura e i paesaggi circostanti, ma l’anima segreta dei luoghi. I viaggiatori del Grand Tour e i collezionisti più esigenti cercavano nelle sue opere il fascino dell’antico e la misura elegante di un talento femminile raro, capace di fondere rigore e fantasia con sorprendente armonia.
Provenienti dalla Collezione Martini, acquisite nel 1895 dal Museo grazie allo Spedale della Misericordia, le tempere si presentano in cornici di legno di pioppo dorato, e al loro interno custodiscono storie di luce e di silenzio, di mare e di pietra, di tempo che passa e di memoria che resta. Guardandole, si percepisce l’occhio attento e curioso dell’artista, capace di osservare e raccontare, di trasformare il dettaglio in poesia e la città in un racconto senza fine.
In queste opere, Roma non è solo una città, ma un palcoscenico di emozioni, e Maria Luigia Raggi non è soltanto una pittrice: è la voce silenziosa di chi, con pazienza e talento, ha saputo imprimere l’eterno nello spazio di un piccolo foglio.
Angelica Kauffman, giovane e già affermata, giunse a Roma nel gennaio del 1763 portando con sé il fascino di un talento raro e un’intelligenza raffinata, incarnando per le pittrici italiane un modello straordinario di affermazione femminile. La sua presenza dimostrava che grazia, cultura e disciplina potevano tradursi in visibilità e riconoscimento anche in una città dominata dai grandi maestri maschi. Con discrezione e sapienza, Angelica seppe muoversi tra salotti colti, accademie e committenze prestigiose, affrontando soggetti mitologici, ritratti e pale di storia con naturale eleganza, sempre guidata da un rigore accademico che non sacrificava mai la delicatezza dei dettagli e la leggerezza del gesto.
Nata a Coira, nel cantone svizzero dei Grigioni, Angelica aveva già percorso l’Italia con occhi attenti e curiosi prima di stabilirsi nella capitale. A Milano, Parma, Modena e Bologna studiò le opere di Correggio, dei Carracci, di Guido Reni, del Domenichino e del Guercino; a Firenze si esercitò copiando i capolavori della Galleria ducale, formando un gusto che univa l’intelligenza dello sguardo alla finezza tecnica.Trasferitasi a Roma si immerse nella vivace comunità britannica, perfezionando la lingua inglese e dedicandosi alla ritrattistica, mentre la sua fama cresceva tra i viaggiatori del Grand Tour. Pochi mesi dopo, la famiglia si spostò a Napoli, dove Angelica studiò con passione le opere dei maestri antichi e inviò il suo primo dipinto a una mostra pubblica a Londra: un segno precoce di una reputazione destinata a oltrepassare i confini nazionali. Nel 1763 fece ritorno a Roma e, l’anno seguente, visitò Bologna e Venezia, accolte ovunque con entusiasmo la sua abilità e il fascino della sua persona.
Nella capitale strinse amicizie decisive con Mengs, Hamilton, Batoni, Piranesi e West; ma fu l’incontro con Winckelmann a orientarla in modo duraturo verso la classicità. Egli la introdusse nelle collezioni del cardinale Albani, dove l’artista poté esercitare il proprio sguardo sulle vestigia dell’antico e affinare una sensibilità pittorica che coniugava grazia e pensiero.
In una lettera di Winckelmann del 1764 si testimonia la crescente popolarità di Angelica: impegnata in un ritratto a mezzo busto poi replicato in acquaforte, l’artista era ormai al centro dell’attenzione, favorita dalla padronanza di più lingue – italiano, tedesco, francese e inglese – che le permettevano di dialogare con i visitatori stranieri e farsi riconoscere come ritrattista brillante e ricercata. Lo stesso Winckelmann lodava la sua bellezza e la voce melodiosa, capace di gareggiare con le migliori virtuose del tempo.
In quegli anni Angelica affrontò la ritrattistica con coraggio e misura: celebre è il Ritratto dell’attore inglese David Garrick (1764, Burghley House Collection), sorprendente per la disinvoltura della posa e l’equilibrio della composizione. Parallelamente, sperimentava la pittura di storia, dando vita a narrazioni in cui la purezza classica si coniugava alla grazia femminile.

L’ovale con Allegoria della Speranza, donato all’Accademia di San Luca in occasione della sua ammissione, celebrata il 5 maggio 1765, rappresenta una primizia della sua arte. L’opera raffigura una giovane donna vestita all’antica, con il volto adagiato sulle mani incrociate sull’àncora, simbolo della Speranza cristiana, e anticipa già la limpida armonia, la grazia misurata e la delicatezza poetica che sarebbero diventate tratti distintivi della sua pittura.
I toni morbidi e luminosi richiamano l’incanto di Correggio, mentre l’armonia del volto rimanda a modelli illustri: la Madonna della Seggiola di Raffaello, la Beatrice Cenci di Guido Reni, le Sibille del Guercino e del Domenichino – del quale Kauffman copiò la Sibilla Cumana della Galleria Borghese – e le invenzioni di Mengs, tutte fonti che plasmarono il suo linguaggio pittorico. Nel volto velato di malinconia si è voluto leggere un autoritratto, ipotesi suggestiva e delicata, priva di certezza. La posa si ritrova nella coeva Penelope al telaio (Hove, Museum and Art Gallery), ulteriore conferma della sua adesione al classicismo emiliano. Lo stesso mese, l’opera approdò in Inghilterra grazie alla Free Society of Artists, inaugurando la sua consacrazione internazionale.
Nel giugno del 1766, Angelica si trasferì a Londra, incontrando Sir Joshua Reynolds. Tra i fondatori della Royal Academy of Art, Kauffman vi si distinse con ritratti di rara eleganza, come quello dello stesso Reynolds (1767, Saltram Collection, National Trust), in cui la componente allegorica si fonde armoniosamente con la sobrietà del ritratto e i richiami al mondo classico.
Il ritorno a Roma nel 1782, insieme al marito Antonio Zucchi, segnò l’inizio di un periodo di intensa maturità artistica. La loro casa-studio in via Sistina, presso Trinità dei Monti, divenne un centro pulsante di vita intellettuale e mondana, frequentato da artisti, letterati e mecenati. Tra gli amici più intimi vi fu Goethe, che la stimava profondamente e che Kauffman ritrasse nel 1787 (Weimar, Goethe Nationalmuseum). La sua fama ormai superava i confini italiani: richieste giungevano dalle corti europee e da personalità come l’imperatore Giuseppe II e Caterina la Grande di Russia.
Tra i capolavori di quegli anni spiccano l’Autoritratto del 1787 (Firenze, Uffizi), le composizioni storiche e letterarie come Virgilio legge l’Eneide ad Augusto e Ottavia (1788, San Pietroburgo, Ermitage) e le opere sacre, tra cui Natan e Davide (1797, Bregenz, Vorarlberger Landesmuseum). Partecipò inoltre, con Camuccini e Unterberger, alla decorazione della cappella del santuario di Loreto, predisponendo la scena dell’Educazione della Vergine (1790-1791), poi tradotta in mosaico, testimonianza della sua attenzione per il nascente interesse verso i “primitivi”.
Così, tra viaggi, incontri e trionfi, Angelica Kauffman costruì la sua leggenda: una donna capace di armonizzare grazia e intelletto, delicatezza e fermezza, trasformando la pittura in linguaggio di libertà e di luce.
In questo mosaico tra Roma e Napoli, le pittrici italiane del Settecento dimostravano come fosse possibile ritagliarsi spazi, affermare talento e originalità, trasformando limiti in opportunità e tessendo con pazienza reti di relazioni che garantivano visibilità e riconoscimento anche in un mondo profondamente maschile.
Napoli, più domestica e frammentata, offriva un contesto differente ma altrettanto vitale. Tra cappelle private, salotti e botteghe di famiglia, il talento femminile poteva trovare respiro e possibilità di affermazione. In questa città Angelica Kauffman realizzò il celebre Ritratto di famiglia di Ferdinando IV, esempio mirabile della sua capacità di coniugare eleganza, intimità e maestria tecnica.
Il Ritratto della famiglia reale di Napoli, oggi nella sala 37 del Museo Nazionale di Capodimonte, fu realizzato da Angelika Kauffmann tra il 1782 e il 1783, durante il suo soggiorno napoletano. Giunta da Londra, la pittrice fu accolta con tutti gli onori e divenne presto amica della regina Maria Carolina. L’opera, eseguita a Roma, fu lodata da Ippolito Pindemonte per la sua grazia e compostezza; nel secolo successivo figurava già nella Galleria dei Ritratti del Palazzo di Capodimonte, a conferma del riconoscimento ottenuto.
I protagonisti, ritratti dal vero grazie a studi preparatori, si dispongono su un unico piano, lungo una linea orizzontale che esprime equilibrio e intimità familiare. Kauffmann adotta il modello inglese dei ritratti di gruppo, conferendo naturalezza e affetto domestico alla composizione. Da sinistra a destra si riconoscono Maria Teresa, Francesco che accarezza un cane, due bambini in primo piano, poi Ferdinando, Maria Carolina, Maria Cristina, Luisa Maria, Maria Amalia e il piccolo Gennaro Giuseppe, morto in tenera età.
L’ambiente è essenziale: pochi arredi — una culla, un’arpa, un vaso su un basamento — accompagnano la scena con discrezione. Sullo sfondo, la natura serena e luminosa della Campania felix trasfigura in visione ideale di armonia e fertilità. Tutto concorre a un equilibrio sospeso tra sentimento e rappresentanza, dove la grazia neoclassica di Kauffmann si fonde con l’affetto della famiglia reale.
Napoli era allora dominata da grandi maestri maschi come Francesco Solimena e Francesco De Mura. Solimena rappresentava l’apice del barocco napoletano: composizioni monumentali, architetture sceniche, luci drammatiche e colori vibranti, con una bottega fertile che formò intere generazioni di artisti destinati a diffondere il suo linguaggio solenne in Europa. De Mura, erede spirituale, traspose quella grandiosità in una nuova leggerezza: luce dorata, tavolozza schiarita, figure morbide e gesti lirici, fondendo classicità e poesia in un rococò colto e raffinato. La sua bottega produsse Bardellino, Fischetti, Diano e Starace-Franchis, che portarono avanti la dolcezza del suo stile nelle dimore aristocratiche e nei palazzi borbonici.
Ma Napoli offriva anche spazi più raccolti, dove le donne potevano muoversi: cappelle, ritratti privati, committenti familiari. Qui era possibile costruire una carriera con discrezione e abilità, sfruttando conoscenze, talento e intelligenza sociale. L’arrivo di Kauffmann fu un esempio concreto: artista già affermata a Roma e in Europa, si muoveva con grazia tra committenze private e salotti colti, portando ritratti, soggetti mitologici e pale di storia con elegante precisione. La sua presenza dimostrava che, anche in una città dominata dai grandi maestri maschi, le donne potevano ritagliarsi spazi duraturi, conquistare riconoscimento e affermare la propria sensibilità artistica.
I salotti napoletani, scrigni di cultura e conversazione raffinata, accolsero Kauffmann con entusiasmo. Le nobildonne e i mecenati colti ammiravano la grazia con cui trattava i soggetti e la precisione dei gesti, assimilando un esempio concreto di visibilità femminile. L’esempio della pittrice offriva guida e ispirazione, confermando che il talento delle donne poteva emergere e lasciare tracce indelebili, trasformando limiti e restrizioni in opportunità di affermazione artistica.
Milano, pur vivace centro di committenza aristocratica, non lascia testimonianze significative di un’arte femminile in quel periodo.
Firenze e Bologna restarono invece i centri più favorevoli per le pittrici del secondo Settecento, seguite da Roma; Napoli e Brescia offrivano scenari più intimi, legati alla committenza privata e alle reti familiari. In tutti questi contesti, tre elementi risultarono decisivi per aprire le porte al talento femminile: accademie aperte o flessibili, mecenati colti e tradizione artistica consolidata. Grazie a essi, le donne riuscivano a ritagliarsi spazi di visibilità, affermare originalità e lasciare opere intrise di grazia, sensibilità e intelligenza.
Così, anche dove il mondo dell’arte era dominato dagli uomini, alcune donne seppero farsi notare: nei ritratti, nei pastelli, nelle incisioni, nelle nature morte o nelle botteghe familiari. Dove la pittura maschile imponeva grandiosità e teatralità, le donne portavano introspezione, delicatezza, capacità narrativa e un tocco di grazia silenziosa. In ogni città italiana, il talento femminile si affermava in dialogo con il mondo maschile, imprimendo una presenza originale e duratura nella storia dell’arte del Settecento, lasciando tracce di ingegno, eleganza e raffinata bellezza ancora oggi ammirabili.
                                                                    Massimo Capuozzo

Nessun commento:

Posta un commento

Archivio blog