domenica 9 novembre 2025

“Artiste scandinave: tra tradizione e cosmopolitismo nelle corti del Nord” di Massimo Capuozzo

 “Artiste scandinave: tra tradizione e cosmopolitismo nelle corti del Nord”

Alle studiose scandinave

Care studiose di Danimarca e Svezia, vi invito a volgere la vostra attenzione verso un aspetto ancora troppo trascurato nella storia dell’arte: il ruolo della femminilità nella creazione artistica.
È giunto il momento di indagare, valorizzare e permettere alle artiste e alle espressioni creative femminili, che hanno contribuito così profondamente alla vita culturale dei vostri paesi, di emergere, spesso invisibili nelle narrazioni tradizionali.
Ognuno dei vostri studi, frutto di ricerche approfondite e reso accessibile al pubblico, rappresenta un piccolo, ma decisivo passo verso una comprensione più completa e condivisa.
La storia dell’arte ha bisogno della vostra voce e del vostro impegno per riconoscere pienamente questa eredità silenziosa, ma essenziale, e conferirle la dignità che le è dovuta.
In danese:
Kære forskere i Danmark og Sverige, jeg opfordrer jer til at rette jeres opmærksomhed mod et aspekt, der stadig er alt for overset i kunsthistorien: kvindelighedens rolle i kunsten.
Det er tid til at undersøge, fremhæve og lade de kvindelige kunstnere og kreative udtryk, der har bidraget til jeres landes kulturliv, komme frem, ofte usynlige i de traditionelle beretninger.
Hvert af jeres skrifter, resultatet af grundig forskning og offentliggjort online, repræsenterer et lille skridt mod en mere komplet og fælles forståelse.
Kunsthistorien har brug for jeres stemme og forskning for fuldt ud at give værdighed og anerkendelse til denne stille, men essentielle arv.
In svedese:
Kära forskare i Danmark och Sverige, jag uppmanar er att rikta er uppmärksamhet mot ett område som fortfarande är alltför försummat inom konsthistorien: det kvinnliga i konsten.
Det är dags att undersöka, lyfta fram och låta de kvinnliga konstnärerna och kreativa uttrycken, som har bidragit till era länders kulturliv, träda fram, ofta osynliga i de traditionella berättelserna.
Varje skrift av er, resultatet av noggrann forskning och publicerad online, är ett litet steg mot en mer komplett och delad kunskap.
Konsthistorien behöver er röst och ert arbete för att fullt ut ge värdighet och erkännande åt detta tysta men väsentliga arv.

Prima di addentrarci nell’universo dell’arte femminile in Scandinavia, è necessario porre uno sguardo delicato sulla sua singolare posizione nel vasto panorama europeo.
Mentre l’Italia, la Francia e i Paesi Bassi offrono percorsi artistici già ampiamente tracciati e familiari, i regni del Nord si rivelano come terre appartate, dove il flusso creativo ha seguito rotte più lente e misurate, modellate da geografia, clima e strutture politiche che hanno custodito la loro singolare armonia.
Qui, l’arte femminile non nasce come semplice riflesso dei grandi centri, ma come voce consapevole e raffinata, capace di dialogare con le influenze europee pur rimanendo profondamente radicata in sensibilità locali, aspirazioni civiche e prestigio culturale.
Questo capitolo si distingue dunque da quelli precedenti non tanto per la descrizione delle opere quanto per la cura di collocarle entro un tessuto storico e sociale che ne rende comprensibile l’originalità e la funzione.
La creazione femminile nordica si rivela così strumento di espressione personale e collettiva, ponte tra la tradizione europea e la costruzione di una identità nazionale, capace di accorciare le distanze tra un Nord a lungo percepito come periferico e la storia dell’arte più ampiamente conosciuta.
In questo modo, il lettore potrà avvicinarsi a una Scandinavia che, pur riservata e discreta, manifesta una creatività intensa, ordinata e armoniosa, un’eleganza sottile che non chiede confronto, ma riconoscimento, e che conferma come l’arte femminile possa incarnare, con grazia e misura, il dialogo tra sensibilità locale e aspirazioni universali.
Fino al secolo dei Lumi, la Scandinavia sembrava avvolta da una delicata cortina di lontananza rispetto al cuore pulsante dell’Europa occidentale, come se il Nord custodisse il proprio respiro in un ritmo più misurato, lontano dall’impeto delle capitali: Parigi, Londra, Roma.
Questa distanza non era frutto del caso, ma derivava da complesse ragioni storiche, geografiche e sociali, radicate in un passato profondo e persistente.
Le vie della cultura, che scorrevano rapide tra mercati, accademie e salotti, incontravano nei territori nordici ostacoli naturali e sociali: il freddo dei climi, la scarsità delle grandi città, l’accentramento del potere nelle mani della monarchia e dell’aristocrazia. Così, laddove nei regni mercantili e nelle repubbliche più aperte fiorivano corti di spirito e circoli intellettuali, nelle contrade del Nord la vita culturale appariva più raccolta, più misurata, ma non meno intensa nel suo gesto di sopravvivenza e di identità.
Il severo dominio del luteranesimo, imposto come religione di Stato, sanciva un’ortodossia rigorosa, che regolava non solo le pratiche spirituali, ma anche la temperanza del pensiero e della forma artistica. Ogni ardire estetico o speculativo che si avventurasse oltre i confini del dogma rischiava di essere soffocato, e così la cultura nordica si sviluppava in uno spazio di prudenza e concentrazione, dove l’eleganza era temperata da disciplina e misura.
La distribuzione della ricchezza, concentrata in pochi grandi casati, determinava altresì una selezione naturale della committenza: gli artisti potevano affidarsi solo alla benevolenza reale o al favore di famiglie influenti, mentre l’arte, più che diffondersi liberamente, doveva conquistarsi il diritto di esistere.
In questo senso, le accademie, i salotti e i cenacoli, così prolifici altrove, nacquero in Scandinavia più tardi e con uno sviluppo più graduale, e per lungo tempo i maestri nordici guardarono ai modelli meridionali come a una guida, prima di affinare una voce autenticamente propria.
Questa percezione di marginalità culturale si intreccia inevitabilmente con la storia politica.
La Svezia, dopo le vicende tumultuose della Grande Guerra del Nord 
e l’avvento dell’Età della Libertà, vide la monarchia cedere parte della propria autorità a favore di istituzioni parlamentari più forti, trasformando così il rapporto tra artista e committenza.
In Danimarca, pur conservando continuità monarchica, le riforme illuminate e l’amministrazione delle questioni norvegesi crearono un ambiente in cui l’arte non era semplice ornamento, ma strumento consapevole di legittimazione del potere, attraverso il quale la corte si presentava come epicentro culturale. Ritratti, sculture e edifici monumentali non sono dunque meri decori: sono strumenti attraverso cui la corona comunica autorità, prestigio e apertura europea, tessendo un dialogo tra tradizione locale e modelli continentali.
Alla complessità politica si accompagna poi quella storiografica: le fonti nordiche, spesso in lingue rare e difficili per gli studiosi esterni, hanno generato per secoli la percezione di un ritardo o di una marginalità artistica.
Senza un paziente lavoro di ricostruzione e di contestualizzazione, molte opere rischierebbero di apparire secondarie, mentre in realtà riflettono condizioni locali peculiari, coerenti e profondamente radicate. Solo attraverso lo studio accurato di queste fonti si coglie la funzione civica, morale e politica di ritratti, monumenti e palazzi: ogni opera diventa allora testimonianza di un percorso culturale cosciente, volto a coniugare identità nazionale e prestigio europeo.
Il ritardo stilistico nell’adozione dei linguaggi rococò e neoclassici non deve essere letto come inferiorità, bensì come mediazione delicata e consapevole tra sensibilità locale e modelli continentali. La luce nordica, la scelta dei soggetti, l’attenzione alle forme rurali e domestiche rivelano una coerenza interna e un’originalità elegante, frutto di precise condizioni storiche, politiche e sociali.
Comprendere questa trama sottile di relazioni e influenze è essenziale per apprezzare l’arte del Nord nella sua raffinata autonomia, e per leggere ogni opera non come semplice ornamento, ma come linguaggio vivo, intimamente legato a potere, identità e bellezza.
In Svezia, la fine della Grande Guerra del Nord e la tragica morte di Carlo XII nel 1718 segnarono l’apertura di un capitolo nuovo e luminoso, l’Età della Libertà, che si estese dal 1719 al 1772, imprimendo un ritmo più civile e misurato alla vita del regno. Il Paese, fino ad allora plasmato da una monarchia assoluta e da un fervore militare che permeava ogni ordine del giorno, si trasformò in uno Stato costituzionale, in cui il Riksdag, il Parlamento, assunse una centralità inedita. La corona, pur privata di gran parte dei poteri decisionali, non smise di incarnare un ruolo simbolico e morale di grande rilievo: la monarchia continuò a fiorire come promotrice di cultura, e la corte, con la sua raffinata presenza, esercitava un’influenza delicata e persistente sulla vita artistica del regno.
Questo periodo di apertura politica favorì l’emergere di una borghesia urbana colta e intraprendente, curiosa delle novità culturali europee e pronta a diventare protagonista attiva del mecenatismo. In tal modo, la costruzione del gusto artistico nazionale divenne un dialogo tra sensibilità locali e modelli continentali, e l’arte cominciò a definirsi non solo per il piacere estetico, ma come strumento di legittimazione sociale e culturale.
Con l’ascesa al trono di Gustavo III nel 1771, che qui vediamo in un ritratto di Alexander Roslin, la Svezia visse una svolta: il sovrano, con un colpo di Stato privo di spargimenti di sangue, restaurò l’autorità reale, temperandola con i lumi dell’Illuminismo.

Gustavo III cercò un equilibrio tra forza monarchica e modernità politica, consolidando il potere del trono, ma mantenendo apertura culturale e razionalità amministrativa. La sua corte divenne non solo centro di governo, ma fulcro di una diplomazia culturale che mirava a trasmettere ordine, virtù e prestigio internazionale; ogni gesto, ogni commissione artistica, ogni iniziativa educativa fu concepita come strumento per costruire un’identità nazionale consapevole e raffinata.
Le riforme illuministe e la politica interna del sovrano si intrecciarono così con lo sviluppo della cultura e delle arti, dall’istruzione alla musica, fino alla creazione di un tessuto civico che coniugava coscienza nazionale e apertura europea.
In Danimarca, pur seguendo un percorso diverso, la storia politica svolse un ruolo altrettanto fondamentale per la vita artistica.
Sotto il regno di Federico V (1746–1766), che qui vediamo in un ritratto di Carl Gustaf Pilo, la corona garantì stabilità e prosperità, esercitando un controllo assoluto sulle istituzioni, ma con spirito illuminato.

L’autorità monarchica si accompagnava alla promozione culturale e scientifica, e le riforme amministrative, seppur più lente rispetto a quelle svedesi, crearono un terreno fertile per le arti, dove ogni iniziativa culturale rispondeva a una logica di ordine e armonia. La reggenza di Federico VI, avviata nel 1784 a causa della malattia del padre Cristiano VII, consolidò questa dinamica: il giovane sovrano introdusse riforme economiche e sociali, sostenne istruzione e arti, e si adoperò per rendere lo Stato più efficiente e moderno, combinando autorità centrale e attenzione al benessere del regno.

La differenza tra i due regni emerge con chiarezza: in Svezia, il secolo fu caratterizzato da una danza tra aperture parlamentari e restaurazioni monarchiche, che favorirono una borghesia urbana vivace e culturalmente partecipe; in Danimarca, la stabilità della corona permise un mecenatismo più coerente e centralizzato, in cui la monarchia rimaneva il cuore pulsante della vita culturale e scientifica, e le riforme illuminate si innestavano con gradualità e armonia nel tessuto sociale.
Su questi fondali politici, l’arte nordica del Settecento germogliò e fiorì.
In Svezia, l’Età della Libertà favorì la nascita e il consolidamento di centri intellettuali e artistici che divennero fari per tutto il paese. L’Accademia delle Scienze, fondata nel 1739, e la Reale Accademia Svedese delle Arti, non furono semplici istituzioni di formazione tecnica, ma luoghi di raffinata mediazione culturale, in cui tradizione e innovazione si incontravano.
Gli artisti, confrontandosi con i modelli francesi e italiani, adattavano le tecniche e i linguaggi al gusto nordico, delineando un’identità artistica insieme nazionale e cosmopolita. La monarchia, pur limitata nel potere politico, sostenne con fermezza il mecenatismo accademico, offrendo risorse, prestigio e opportunità di studio all’estero, tessendo una rete che legava le élite artistiche svedesi a quelle europee.
La vitalità delle accademie si manifestò in tutti i campi: dalla pittura di Gustaf Lundberg e Alexander Roslin, alla scultura di Johan Tobias Sergel e Carl Gustaf Pilo, fino alla musica di Johan Helmich Roman, in cui armonia europea e sobrietà nordica si fusero in una sinfonia singolare.

Con l’avvento di Gustavo III, il sostegno alle istituzioni culturali si intensificò, assumendo una funzione simbolica e nazionale: l’Accademia Svedese, fondata nel 1786, non fu solo centro letterario di eccellenza, ma strumento per costruire identità, legittimare il sovrano e promuovere la lingua e la cultura svedese.
Teatri, accademie e biblioteche divennero così spazi di coesione sociale, dove la cultura non era ornamento effimero, ma tessuto costitutivo di una nazione illuminata e consapevole del proprio ruolo in Europa.
Anche in Danimarca il percorso istituzionale fu significativo, seppur con caratteristiche proprie.
La fondazione dell’Accademia Reale Danese di Belle Arti nel 1754, promossa da Federico V, segnò un momento di centralizzazione e codificazione della formazione artistica: pittori e scultori vi imparavano tecniche precise e canoni estetici uniformi, riflettendo il gusto regale e illuminato. Così, la corona si fece custode e promotrice di un’arte disciplinata, capace di dialogare con il continente senza perdere la propria voce, creando un equilibrio tra rigore tecnico, splendore estetico e funzione simbolica del potere.
Nelle corti nordiche, la vita artistica si dispiegava come un raffinato tessuto, in cui il mecenatismo reale garantiva risorse e prestigio agli artisti, favorendo la presenza di maestri stranieri come Jacques Saly e Pierre Laurent, i quali portarono i modelli francesi e italiani, armonizzandoli con la sensibilità del Nord.
Accanto alla pittura e alla scultura, anche la scienza e le arti applicate ricevettero un vigoroso impulso: istituzioni come la Noble Academy di Sorø e il Fonden ad usus publicos promossero studi sperimentali e progetti innovativi, tessendo una trama culturale che coniugava ricerca scientifica, pratica artistica e prestigio nazionale.
Così, in Svezia e in Danimarca, le accademie e le istituzioni artistiche si trasformarono nel motore della modernizzazione culturale.
Il ritmo e la struttura del cambiamento differivano: in Svezia, l’apertura più rapida e l’alternanza politica favorirono un dialogo vivace tra borghesia, corte e accademie; in Danimarca, la stabilità monarchica e la centralità del re permisero una modernizzazione più graduale, ma altrettanto incisiva, in cui l’autorità del sovrano assicurava continuità e prestigio internazionale. In entrambe le realtà, questi luoghi non furono solo centri di insegnamento o produzione artistica, ma laboratori di identità nazionale, strumenti di prestigio politico e veicoli di legittimazione culturale, capaci di trasformare un Nord percepito come periferico in parte attiva e riconosciuta della storia europea.
La fioritura artistica trovò nei ritratti, nella scultura e nella musica espressione di uno statuto civile e simbolico.
In Svezia, la ritrattistica divenne linguaggio privilegiato per esprimere prestigio, virtù e grazia sociale.
Gustaf Lundberg seppe fondere con sottile eleganza il gusto francese con una sensibilità tipicamente nordica, creando ritratti di straordinaria misura e armonia.

Alexander Roslin, formatosi in Francia, introdusse un respiro cosmopolita, combinando idealizzazione della corte e introspezione psicologica, mentre Pehr Hilleström, con un approccio più documentario, immortalò scene della vita urbana e rurale, offrendo un vivido specchio della società svedese e consolidando la funzione civica della pittura.



Nella scultura, Johan Tobias Sergel e Carl Gustaf Pilo combinarono monumentalità e raffinatezza, ideali classici e sensibilità contemporanea, rafforzando il legame tra arte e prestigio politico.
La musica, infine, rispecchiò l’apertura europea della Svezia: compositori come Johan Helmich Roman coniugarono armonia, grazia e sobrietà nordica, creando uno stile coerente con la visione illuminista di una cultura che aspirava a educare al gusto e alla civiltà. Sotto Gustavo III, pittura, scultura e musica divennero strumenti di coesione nazionale, capaci di incarnare il prestigio della monarchia e l’identità culturale di un paese desideroso di dialogare con l’Europa.
In Danimarca, la centralità della corte e delle accademie generò uno sviluppo altrettanto raffinato, ma con caratteristiche proprie. La pittura di corte, incarnata da Johan Friedrich Clemens e da Carl Gustaf Pilo, si distingueva per eleganza formale e controllo tecnico, mentre Jacques Saly, con la sua celebre Statua equestre di Federico V a Copenaghen, conferì alla scultura un senso di solennità classica, emblema del potere monarchico. Il neoclassicismo danese, rigoroso e disciplinato, si estese all’architettura e alle arti decorative, traducendo il gusto francese in forme sobrie, misurate e funzionali alle esigenze della corte e della città. Anche la musica beneficiò di un mecenatismo lungimirante: teatri, scuole e orchestre, sostenuti dalla corona, diffusero opere raffinate, armonizzando influenze europee con sensibilità locale.
Il teatro delle commedie di Nicolai Eigtved a Kongens Nytorv, la Scuola Reale di Balletto fondata da Pierre Laurent e la promozione delle arti figurative costituirono un sistema integrato in cui pittura, scultura e musica collaboravano alla formazione di una cultura regale e civica, educando il pubblico al gusto e alla misura.
In entrambe le corti, l’arte non si limitava a ornamento: rappresentava il vincolo tra identità nazionale, prestigio internazionale e coesione sociale.
In Svezia, la raffinatezza gustaviana e la vivacità delle accademie diffusero un linguaggio artistico capace di parlare al popolo e all’Europa; in Danimarca, la stabilità monarchica e il controllo accademico tradussero il gusto illuminista in forme coerenti e durature.
Pittura, scultura e musica furono così strumenti di governo, mezzi di educazione civica e veicoli di legittimazione, elevando la Scandinavia da periferia culturale a protagonista riconosciuta della scena europea.
Accanto a corti e accademie, la vita culturale settentrionale si dispiegava anche nei contesti domestici e popolari, dove arte e tradizione si intrecciavano alla quotidianità e alla pratica religiosa.
In Svezia, l’arte popolare — dai motivi floreali dei kurbits ai celebri cavalli Dala — non era semplice ornamento, ma linguaggio identitario. Decori domestici, stoffe dipinte e oggetti di uso quotidiano riflettevano sensibilità estetica, memoria collettiva e radicamento territoriale, combinando tradizione contadina e apertura ai modelli cosmopoliti. Le chiese rappresentavano spazi privilegiati per pittura e scultura sacra: altari, pale e decorazioni ligneo-scultoree offrivano simboli di devozione e coesione sociale, spesso realizzati da artisti locali che fondevano sensibilità popolare e accademica. Anche le donne, spesso anonime, partecipavano a questa cultura visiva domestica e religiosa con ricami, miniature e decorazioni, tessendo un filo invisibile ma prezioso che univa estetica, fede e vita quotidiana.
In Danimarca e in Norvegia, l’arte popolare e l’artigianato assunsero ruolo altrettanto significativo.
Nelle residenze nobiliari e borghesi, intagli lignei, decorazioni dei mobili e tessuti dipinti intrecciavano influenze italiane e francesi con sensibilità nordica. Nelle chiese norvegesi, la fusione tra decorazione lignea e pittura dimostrava come arte sacra e artigianato popolare potessero coesistere armoniosamente, incarnando l’anima severa e poetica dei fiordi e delle valli. Questa sinergia tra pratiche locali e modelli accademici costituiva una sorta di scuola diffusa, educando al gusto e alla misura anche fuori dalle grandi corti.
Così, nella Scandinavia tardo-settecentesca, pittura, scultura, architettura, musica e artigianato domestico formarono un sistema organico e coerente, in cui estetica e identità, élite e popolo, sacro e quotidiano si influenzavano reciprocamente.
La cultura nordica si presentava ora come una civiltà originale, coesa e consapevole del proprio ruolo all’interno del grande dialogo europeo, trasformando la lontana periferia settentrionale in protagonista della storia artistica continentale.
Nella seconda metà del XVIII secolo, alcune donne si distinsero in Svezia, pur in un contesto in cui le possibilità professionali restavano fortemente limitate. La loro pratica si concentrava spesso su disegno, miniatura e ricamo, ritenuti più consoni alla sensibilità femminile, mentre le esposizioni pubbliche, organizzate dall’Accademia di Belle Arti a partire dal 1784, ammettevano le donne quasi esclusivamente per opere ornamentali o decorative. Tra queste figure emergono Margaretha Christina Embring ed Eva Christina Barckenbom, citate negli elenchi dei pittori svedesi del XVIII secolo, insieme alla raffinata Anna Maria Ehrenstrahl.
Anna Maria Ehrenstrahl (Stoccolma, 4 settembre 1666 – Stoccolma, 22 ottobre 1729), figlia del celebre David Klöcker Ehrenstrahl e di Maria Momma, si dedicò alla pittura di allegorie e ritratti, seguendo le orme paterne. 
Formata direttamente dal padre, lavorò sin da giovane come assistente nel suo laboratorio, occupandosi dei dettagli delle opere e ricevendo incarichi autonomi, benché la sua educazione artistica fosse principalmente orientata a completare i lavori paterni. Eppure, nonostante la formazione subordinata, il suo stile mostrò una cifra personale e un’eleganza che riflettevano chiaramente l’influsso paterno, conferendo alle sue opere un tocco di sensibilità e grazia che rimase unico nel panorama artistico del tempo.
Nel 1688 Anna Maria Ehrenstrahl contrasse matrimonio con Johan Wattrang (1652–1724), appartenente all’antica e rispettabile famiglia Wattrang e vicepresidente della Corte d’Appello di Svezia.
Nonostante l’unione coniugale, Anna Maria non abbandonò mai la sua vocazione artistica: continuò a dipingere per l’intera vita, accettando commissioni occasionali e godendo di una reputazione solida e rispettata nel suo tempo.
Molte delle opere pervenuteci sono copie dei dipinti del padre, pratica all’epoca diffusa e altamente stimata, come il celebre ritratto di Carlo XI. Tuttavia, Anna Maria produsse anche lavori originali, tra cui spiccano l’allegoria delle Quattro Stagioni (1687), il raffinato ritratto di gruppo Amore e Psiche, un ritratto del giovane principe Ulrik (1685), e ritratti di figure illustri come Ulrika Eleonora di Danimarca e Amalia Königsmarck.
Non trascurò inoltre soggetti più intimi e delicati, come numerosi ritratti di animali a guazzo, e nel 1690 ricevette compensi per ritratti raffiguranti principi defunti, segno della sua versatilità e del riconoscimento ufficiale.
Tra le sue opere più celebri si annoverano sei ritratti degli ex presidenti della Corte d’Appello, donati alla stessa istituzione nel 1717 e firmati con il suo nome, gesto che consolidò il suo prestigio artistico. In questa occasione, Sofia Elisabet Brenner le dedicò una poesia celebrativa, riconoscendola come pioniera tra le donne artiste svedesi e come modello di talento e determinazione.
Anna Maria Ehrenstrahl è oggi rappresentata, tra gli altri, nelle collezioni del Nationalmuseum di Stoccolma, e nel 1911 uno dei suoi ritratti fu esposto alla mostra dell’Associazione delle artiste svedesi nella medesima città, testimoniando la duratura ammirazione per la sua arte. Attiva all’inizio del Settecento, è spesso ricordata come una delle prime artiste svedesi di rilievo, capace di tracciare un solco duraturo che avrebbe definito il contesto artistico per le generazioni successive.

 

Nel corso del Settecento, le donne che ambivano a una carriera artistica si trovarono a confrontarsi con ostacoli imponenti. La condizione femminile nel mondo delle arti era profondamente segnata da limitazioni strutturali: l’accesso alla formazione accademica restava spesso precluso, la pittura a olio – con i suoi studi anatomici, i materiali costosi e le tecniche complesse – era quasi esclusivamente appannaggio degli uomini, e le esposizioni ufficiali seguivano norme sociali che privilegiavano il genere maschile. Eppure, alcune artiste seppero emergere, sostenute da mecenati illuminati, da reti familiari attente o dalla propria straordinaria determinazione: il talento, coniugato alla volontà di inserirsi nei circuiti ufficiali e cosmopoliti, consentì loro di conquistare, seppur parzialmente, il riconoscimento in un contesto ostile.
Le loro opere non erano meri esercizi estetici: esse incarnavano un atto di affermazione sociale e culturale, contribuendo a ridefinire i confini del possibile per le donne e consolidando la presenza femminile nella storia artistica svedese. Molte ricevevano un’educazione privata, operando come dilettanti colte, appartenenti ai ceti nobili o borghesi, per le quali l’arte rappresentava un segno di distinzione, raffinatezza e sensibilità culturale.
Solo a partire dal 1784 le donne ottennero il privilegio di esporre all’Accademia di Belle Arti, sebbene le loro creazioni rimanessero per lo più circoscritte a disegni, miniature e ricami. Pur formalmente ammesse, queste artiste spesso restavano ai margini, considerate dilettanti o amatrici, e le figure femminili di rilievo rimasero rare, soprattutto nella seconda metà del secolo. Tuttavia, ogni opera da loro prodotta testimonia la capacità di resistere alle restrizioni imposte, trasformando la pittura in un linguaggio di autonomia, talento e presenza culturale, e lasciando un’impronta indelebile nella memoria artistica del Nord Europa.
Ulrika “Ulla” Fredrica Pasch (Stoccolma, 10 luglio 1735 – Stoccolma, 2 aprile 1796) si staglia come una figura di rara luminosità nel panorama artistico svedese del XVIII secolo, in un contesto in cui la presenza femminile era fortemente circoscritta. Sorella del celebre Lorens Pasch il Giovane, Ulrika seppe distinguersi grazie a un talento raffinato e a una sensibilità singolare, che le permisero di eccellere nei ritratti e nelle scene di genere. La sua pittura fonde la grazia e l’eleganza del rococò con una nitidezza nordica, conferendo ai soggetti – e in particolare alle figure femminili – una dignità e una presenza insolite per l’epoca.

Il suo lavoro come miniaturista e ritrattista le valse l’ingresso nella Reale Accademia Svedese delle Arti, rendendola una delle prime donne in Svezia – e forse in tutta la Scandinavia – a esercitare la pittura come professione autonoma e ufficialmente riconosciuta. La carriera di Ulrika rappresenta, al contempo, un contributo estetico di rilievo e un segnale di emancipazione artistica femminile, aprendo la strada alle generazioni successive.
L’attività di Pasch va letta anche nel contesto della corte di Gustavo III, interprete di un dispotismo illuminato che trasformò arte e cultura in strumenti di coesione nazionale e prestigio politico. In questo clima, la pittura non era mera decorazione: ritratti e scene di genere divenivano veicoli di distinzione sociale, strumenti di educazione estetica e morale, mezzi per rafforzare l’immagine della monarchia. L’opera di Ulrika, con il suo equilibrio tra eleganza europea e sensibilità nordica, offriva ai soggetti ritratti non solo una presenza fisica, ma anche un significato simbolico legato alla civiltà, all’educazione e al decoro.


Ulrika non fu dunque soltanto un’artista di talento, ma anche un nodo di raccordo tra cosmopolitismo e identità svedese, tra gusto rococò e valori illuministi, contribuendo a definire il linguaggio visivo e morale della Svezia gustaviana. La sua opera testimonia come, anche in un contesto tradizionalmente maschile, una donna potesse esercitare influenza culturale e partecipare alla costruzione dell’immagine politica e sociale del suo tempo.
Nacque in una famiglia profondamente immersa nell’arte: il padre, Lorens Pasch il Vecchio (1702–1766), affermato ritrattista, e la madre, Anna Helena Beckman, le trasmisero un ambiente domestico sensibile e colto. La famiglia Pasch rappresenta una delle dinastie artistiche più importanti della Svezia del Settecento, le cui radici risalgono a Johan Pasch, pittore di corte, e a Danckwart Pasch, originario di Lubecca.
Il padre e la madre formarono i figli al disegno e alla pittura: il primogenito Lorens Pasch il Giovane (1733–1805), Ulrika e la sorella minore Hedvig Lovisa Pasch (1744–1796). Tra i parenti artisti figurava anche Margareta Stafhell, rinomata calcografa, a testimonianza di un contesto familiare in cui la vocazione artistica era parte integrante dell’identità stessa.
Dalla più tenera età, Ulrika manifestò un talento straordinario per il disegno e la pittura, riconosciuto e coltivato dal padre. La sua formazione, simile a quella del fratello Lorens, le permise di sviluppare una sensibilità particolare per il colore e una nitidezza di tratto che avrebbero caratterizzato tutta la sua produzione. A differenza di Hedvig Lovisa, Ulrika si dedicò con totale impegno alla pittura, trasformando la passione infantile in una vera vocazione professionale.
Nel 1752, con la partenza del fratello per perfezionarsi all’estero, la carriera del padre subì un rapido declino: incapace di adattarsi ai nuovi gusti rococò, Lorens Pasch il Vecchio vide diminuire le commissioni e, con esse, il benessere familiare. La situazione peggiorò ulteriormente con la morte della madre nel 1756, e Ulrika, allora ventunenne, accettò di lavorare come governante presso lo zio materno, l’orafo Gustaf Stafhell il Vecchio. Nonostante le responsabilità domestiche, lo zio le permise di dipingere nel tempo libero, consentendole di coltivare e affinare il talento che già la distingueva.
Fu in quegli anni che Ulrika mosse i primi passi concreti nel mondo dell’arte professionale, iniziando a ricevere commissioni retribuite. Questo segnò l’inizio di una carriera autonoma, rara per una donna nel contesto svedese del Settecento. La sua abilità e la sensibilità dei ritratti conquistarono rapidamente una clientela fedele e variegata, capace di riconoscere nella sua pittura non solo perizia tecnica, ma anche grazia e capacità di cogliere la personalità dei soggetti.
Il talento di Ulrika le permise di mantenere non solo se stessa, ma anche il padre e la sorella, trasformando l’arte in una fonte concreta di sostentamento familiare.

Il successo di Ulrika non si limitava alla qualità estetica delle opere: seppe costruire una solida reputazione grazie a una strategia quasi imprenditoriale, applicando prezzi proporzionati ai mezzi dei committenti e consolidando la propria posizione nella società artistica stoccolmese. Verso la fine di questo periodo, Ulrika riuscì finalmente a stabilirsi in una propria abitazione, dotata di atelier indipendente, simbolo della sua autonomia e della rara determinazione femminile.
Con il ritorno di Lorens Pasch il Giovane nel 1766, i due fratelli instaurarono una collaborazione feconda e stimolante, condividendo casa e studio in un clima di reciproco rispetto e armonia, mentre Hedvig Lovisa curava la gestione domestica. Ulrika contribuiva regolarmente ai lavori del fratello, con particolare maestria nei dettagli di tessuti e abiti, trasformando ogni ritratto in un insieme armonioso di eleganza e realismo. Entrambi ottennero incarichi prestigiosi presso la corte reale e l’aristocrazia svedese, e Ulrika si distinse per i ritratti della famiglia reale e le scene di vita di corte, capaci di coniugare grazia, rigore formale e sensibilità psicologica.

Lorens Pasch il Giovane (Stoccolma, 6 giugno 1733 – Stoccolma, 29 aprile 1805) si affermò come una delle figure centrali dell’arte svedese del XVIII secolo, distinguendosi non solo come ritrattista di prestigio, ma anche come docente e direttore della Reale Accademia Svedese delle Arti a partire dal 1773. Formatosi inizialmente sotto la guida paterna, nel 1752 intraprese un percorso di perfezionamento a Copenaghen, studiando con Carl Gustaf Pilo e frequentando l’Accademia sotto la supervisione di Jacques Saly e Johann Martin Preisler. Tra il 1757 e il 1764 proseguì la formazione a Parigi, dove ebbe l’opportunità di approfondire lo studio del ritratto e della pittura di genere con maestri quali Alexander Roslin, Jean-Baptiste Marie Pierre, Jean-Baptiste-Henri Deshayes e François Boucher. Nel 1765-66 compì un viaggio di aggiornamento tra Fiandre, L’Aia e Germania, rientrando a Stoccolma nel 1766, pronto a portare nella capitale svedese un linguaggio artistico europeo e raffinato.
Due anni dopo, nel 1768, iniziò a insegnare disegno presso l’Accademia di Belle Arti, ottenendo la nomina a professore nel 1773 e assumendo la direzione nel 1793. Durante il periodo gustaviano, insieme a Per Krafft il Vecchio, fu tra i ritrattisti più stimati, influenzando profondamente la formazione delle nuove generazioni e il gusto artistico svedese. Le sue opere, oggi conservate in collezioni di rilievo come la Biblioteca universitaria di Uppsala, il Museo d’arte di Göteborg, il Museo d’arte di Norrköping e il Museo nazionale di Stoccolma, testimoniano la raffinatezza di uno stile capace di coniugare eleganza formale, realismo psicologico e sensibilità nordica.
La morte della sorella Hedvig Lovisa, pochi mesi dopo quella di Ulrika nel 1796, fu probabilmente un suicidio dovuto al dolore, sottolineando la profonda unione affettiva che legava i tre fratelli e l’intensità dei legami familiari che avevano accompagnato la loro vita e la loro carriera artistica.
Nel 1773, con la fondazione della Reale Accademia Svedese delle Arti, Ulrika e Lorens furono ammessi come membri. Ulrika fu l’unica donna eletta quell’anno, affermandosi come una delle prime artiste professioniste della Scandinavia a ricevere un riconoscimento accademico ufficiale, aprendo la strada a una nuova visibilità femminile nell’arte svedese. Malgrado il prestigio del titolo, non ottenne mai una pensione reale, nonostante le ripetute richieste, ma partecipò regolarmente alle esposizioni dell’Accademia, tra cui quelle del 1793 e del 1794, riaffermando il suo ruolo centrale nella vita artistica della capitale.
Ulrika continuò a dipingere fino alla fine della sua vita, mantenendo fama e committenze costanti. Dopo la sua morte, nel 1798, Thure Wennberg le dedicò il discorso commemorativo Minne af Ulrica Fredrica Pasch presso l’Accademia, descrivendola come donna umile, allegra, accomodante e spiritosa, capace di affrontare ogni situazione con grazia e adattabilità. Le sue opere, oggi conservate in importanti musei svedesi – tra cui il Nationalmuseum di Stoccolma, il Norrköpings Konstmuseum e il Vänersborgs Museum – continuano a testimoniare la raffinatezza del suo stile e la perizia tecnica che la resero una delle ritrattiste più apprezzate del suo tempo.
Fino all’inizio dell'Ottocento, Ulrika Pasch rimase una delle pochissime artiste professioniste in Svezia, simbolo di talento, indipendenza e tenacia femminile in un mondo ancora dominato dagli uomini. La sua carriera rappresenta un esempio precoce di autonomia professionale e riconoscimento istituzionale, aprendo la strada alle generazioni successive e lasciando un’eredità artistica e morale di straordinaria rilevanza per la storia dell’arte nordica.
Accanto a Ulrika Pasch, nella Svezia gustaviana emerse un’altra figura femminile di rilievo: Christina Charlotta Cederström, nata Mörner af Morlanda (Duveke, 2 marzo 1760 – Benestad, 22 febbraio 1832). Barone­s­sa, pittrice dilettante, poetessa, compositrice e salottiera, seppe coniugare grazia aristocratica e ingegno vivace, assumendo un ruolo significativo nella vita culturale del suo tempo. Membro onorario della Reale Accademia Svedese delle Arti e dell’Académie des Beaux-Arts di Parigi, la sua fama oltrepassò i confini nazionali, attestando il prestigio internazionale raggiunto grazie a talento e impegno.
Nata ad Alvesta, figlia del conte Karl Gustaf Mörner af Morlanda e di Sofia Elisabet Steuch, trascorse l’infanzia con il nonno materno a Duveke, per poi vivere con i genitori nelle residenze di campagna. Fin da giovane coltivò il disegno, la poesia e la musica, mostrando una sensibilità eclettica e un temperamento curioso. A vent’anni sposò il barone Axel Thure Gyllenkrok e visse al castello di Björnstorp, dove nacque il figlio Axel Gustaf. Il matrimonio, tutt’altro che felice, spinse Charlotta a trovare rifugio nelle arti, componendo poesie, canzoni e romanzi, oltre a dipingere a olio e con lavature a inchiostro. La sua produzione, permeata da malinconia e ironia, rispecchiava anche la sensibilità del fratello Hampus Mörner.
Intrattenne una fitta corrispondenza poetica con l’amico Knut Leijonhufvud, firmando i propri scritti con i nomi pastorali Celmire e Lycis. Il matrimonio con Gyllenkrok si concluse con il divorzio nel 1799, mentre già dal 1792 Charlotta aveva intrecciato rapporti con il generale Bror Cederström, che sposò nel 1800. Trasferitasi a Stoccolma, aprì un salotto letterario e musicale frequentato da poeti, musicisti, pittori e intellettuali, trasformandolo in un centro di scambio culturale e di stimolo creativo.
Nel 1803 fu eletta membro onorario della Reale Accademia Svedese delle Arti e poco dopo dell’Accademia della Belle Arti di Parigi.
La sua arte, pur dilettantesca, dimostrava curiosità, indipendenza di visione e un’occhio ironico, con dipinti di genere e scene di vita popolare caratterizzati da sensibilità, tono intimo e capacità narrativa. L’attività poetica e musicale completava questo ritratto: alcune liriche, come il Sällskaps-sång, divennero canti popolari, diffondendo eleganza e leggerezza nei salotti e nelle campagne del Värmland. Dopo la morte del marito nel 1816, si ritirò a Benestad Manor, dedicandosi alla lettura, allo studio della storia nazionale e al sostegno di giovani studiosi, fino alla morte, avvenuta il 22 febbraio 1832.
Christina Charlotta Cederström resta esempio di come l’aristocrazia potesse aprire nuovi spazi alle donne nell’arte e nella cultura, trasformando privilegi sociali in libertà intellettuale e promozione culturale. Il pittore Per Krafft le dedicò un ritratto nel 1806, con l’iscrizione: “A colei che favorisce e ravviva le arti, dedicata”, a suggellare il ruolo di mecenate attiva e appassionata.
Dietro queste figure di primo piano, tuttavia, operava un sottobosco creativo femminile, fatto di laboratori domestici, esercizi privati e committenze discrete: una rete di donne che, pur restando nell’ombra, contribuì alla formazione di una sensibilità artistica nuova, intrecciata al rigore accademico e alla luce sobria del Nord.
Così, la pittura scandinava della seconda metà del Settecento appare come un equilibrio tra disciplina e poesia: la luce è diffusa e meditativa, i toni misurati, la composizione rigorosa ma mai fredda. Essa racconta non solo le corti e la nobiltà, ma anche il silenzio dei paesaggi e l’intimità dei volti, unendo la tradizione europea a una sensibilità autenticamente nordica.
In questo quadro, la presenza femminile – ancora marginale ma significativa – segna l’inizio di un lento processo di apertura culturale destinato a maturare nei decenni successivi. In Danimarca del Settecento, allo stato attuale delle ricerche, non si rilevano figure femminili dedite all’arte con visibilità comparabile a quella della Svezia.
                                                                                Massimo Capuozzo

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