domenica 2 novembre 2025

Le artiste ispano- portoghesi nella seconda metà del Settecento di Massimo Capuozzo

Prima di addentrarci nella geografia e nelle vicende delle pittrici iberiche, è opportuno osservare che la ricerca sull’arte femminile della seconda metà del Settecento si trova a confrontarsi con un vuoto quasi palpabile. La scarsità di immagini delle opere delle donne non è un caso fortuito, ma il segno eloquente di una sensibilità ancora tenue verso la creatività femminile: le loro opere raramente varcavano i confini del dilettantismo sociale, faticando a emergere come testimonianza visibile del talento. Molti lavori si sono dispersi nel corso del tempo, altri si sono relegati in collezioni private, o forse si sono perduti nei meandri dell’oblio; il loro ricordo sopravvive soprattutto nei nomi e nelle cronache accademiche. Questo silenzio visivo non è semplicemente un vuoto documentario, ma la testimonianza della marginalità istituzionale e sociale delle pittrici: un talento esercitato con grazia e raffinata competenza, tuttavia confinato ai margini della narrazione artistica ufficiale, nascosto alla luce che illuminava i loro colleghi maschi.
Le cause di tale marginalizzazione sono molteplici e intrecciate: innanzitutto, fattori sociali e culturali che relegavano la donna al ruolo domestico e educativo; poi, una struttura accademica e professionale profondamente patriarcale, che consentiva alle artiste solo accessi simbolici o limitati; infine, la circolazione delle opere femminili era ostacolata da reti di mercato e di committenza prevalentemente maschili, e dalla permanenza delle creazioni in spazi privati o conventuali, lontane dalla visibilità pubblica necessaria a garantire la memoria storica (Jiménez, 2002; Sánchez, 2010). Questo è il motivo per il quale questo testo ha valore più storico che storico-artistico.
All’alba del XVIII secolo, la Spagna si svegliava come un antico palazzo ferito, le cui crepe raccontavano le devastazioni della Guerra di Successione (1700-1714).
Il Paese, provato e sfinito, si trovava a dover ritessere la propria identità politica e culturale, cercando tra le rovine una nuova armonia. La Pace di Utrecht, pur imprimendo la dolorosa perdita di territori come Gibilterra, aprì al contempo una stagione di nuove alleanze dinastiche con la Francia e incoronò sul trono di Madrid la dinastia dei Borbone.
Con Filippo V (1700-1746), e ancor più con i suoi successori Ferdinando VI e Carlo III, la corona intraprese un ambizioso progetto di riforma: un disegno che mirava a trasformare lo Stato, concentrare il potere e ridisegnare l’immagine stessa della monarchia, come un architetto che ridà vita a un palazzo antico e scolorito dal tempo.
La Spagna, uscita dal lungo dominio asburgico, giaceva ancora immersa in arretratezza economica e culturale; occorreva un vigoroso processo di ringiovanimento che sanasse le ferite di un Impero declinante.
I Borbone concepirono il potere come un meccanismo razionale, dove disciplina, efficienza e pianificazione avrebbero sostituito il fatalismo e l’immobilismo del secolo precedente. Il riformismo illuminato divenne così lo strumento principe di un vasto progetto politico che, pur preservando la monarchia assoluta, ambiva a promuovere il benessere, la produttività e l’ordine morale dei sudditi.
I Decreti di Nueva Planta (1705) posero le fondamenta di uno Stato centralizzato, riducendo privilegi regionali e uniformando l’amministrazione secondo i modelli francesi. Le successive riforme economiche e fiscali di Ferdinando VI (1746-1759), con la creazione del Dipartimento del Tesoro nel 1754, e la vigorosa stagione riformista di Carlo III (1759-1788), consolidarono la visione di uno Stato moderno, fondato sulla ragione e sul merito. Le nuove istituzioni – dalle Sociedades Económicas alle Accademie, fino alla stampa di ispirazione illuminista – diffusero un’idea di progresso civile che, almeno nella teoria, si proponeva di abbracciare tutti i ceti sociali.
Eppure, il dinamismo di queste politiche si scontrava con una società ancora profondamente intrisa di rigide gerarchie e mentalità arcaiche. La nobiltà conservatrice, il clero e gli ordini religiosi opposero resistenze tenaci a un processo che minacciava i loro privilegi secolari. La rivolta di Esquilache (1766) e l’espulsione dei Gesuiti (1767) furono momenti emblematici della frattura tra il dispotismo illuminato e le resistenze del corpo sociale, mentre l’intervento dello Stato nella sfera religiosa sanciva la fine del predominio ecclesiastico, subordinando gradualmente la Chiesa al regalismo borbonico.
In questo contesto complesso, l’arte e la cultura assunsero una funzione eminentemente politica. L’arte non era più mero ornamento o strumento di devozione: divenne linguaggio del potere, destinata a incarnare la nuova immagine dello Stato e a educare i cittadini alla virtù civile. Le arti visive, sostenute dalle Accademie reali, traducevano in immagine l’ordine, la misura e la razionalità illuminista. L’estetica neoclassica, con la sua chiarezza formale e il suo ideale di bellezza regolata, si impose come lingua ufficiale del potere borbonico, simboleggiando l’armonia tra progresso e tradizione.
Eppure, tale modernizzazione restava in larga misura parziale e contraddittoria.
L’arretratezza economica e la rigidità dei ruoli sociali impedirono che le riforme producessero una trasformazione diffusa. Nel campo artistico, alla tensione verso ordine e chiarezza si contrapponeva una persistente sensibilità barocca, intrisa di pathos, religiosità e decorativismo. Questa duplice anima – razionale e passionale, moderna e arcaica – segnerà l’identità dell’arte spagnola del secondo Settecento, anticipando le contraddizioni e la potenza espressiva della pittura di Francisco Goya.
Nel tardo Settecento, la Spagna borbonica visse una stagione di rinnovamento artistico che rifletteva le ambizioni politiche di Carlo III (1759–1788), desideroso di costruire un’immagine dello Stato ordinata, moderna e razionale. Il sovrano, interprete raffinato di un mecenatismo illuminato, comprese con acuta sensibilità il valore simbolico dell’arte: essa non era più puro ornamento, ma linguaggio del potere, strumento di rappresentazione e di educazione civile.
Le Accademie di Belle Arti – la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando a Madrid (1752) e la Real Academia de San Carlos a Valencia (1768) – si affermarono come centri nevralgici di formazione e controllo del gusto, veicoli di centralizzazione culturale e diffusione dei valori neoclassici. Qui, artisti e artiste venivano plasmati secondo principi di ordine e decoro, rispondendo alle esigenze di una committenza colta e raffinata, e traducendo in immagini la visione politica dei Borbone.
Parallelamente, il mercato pittorico iniziava a diversificarsi: accanto ai consueti altari e ritratti di corte, emergeva una crescente domanda borghese di ritratti e di scene di genere, specchio di una sensibilità sociale nuova e attenta ai valori domestici e civili. Nei ritratti aristocratici e borghesi, il realismo psicologico si fondeva con l’eleganza raffinata del Rococò, mentre nei soggetti domestici e morali prendeva corpo l’ideale di virtù familiare caro alla cultura illuminista.
Dimore, salotti e studi colti si trasformavano in spazi di fruizione e di produzione artistica, dove pittura e conversazione si intrecciavano come forme complementari di distinzione sociale e culturale.
Sul piano stilistico, il Neoclassicismo spagnolo appariva come una raffinata rielaborazione della tradizione barocca: figure sobrie e misurate, colori chiari, composizioni razionali, pur conservando nella luce, nella materia cromatica e nella devozione tracce profonde del passato. La pittura iberica si offriva così come un organismo ibrido e affascinante, in cui modernità illuminista e sostrato religioso e popolare convivevano in un equilibrio sottile e instabile.
In questo quadro, la presenza femminile nell’arte, pur discreta e silenziosa, acquisì un rilievo significativo. Pittrici come Micaela Ferrer, Isabel de Ezpeleta, María Tomasa de Palafox, María de la Vega, Rita Luna, Josefa Bayeu e Manuela González operarono in spazi ristretti, ma con grazia e introspezione, traducendo in miniature, pastelli e disegni una sensibilità raffinata e un’eleganza tecnica straordinaria.
Alcune provenivano da famiglie aristocratiche o artistiche e si formarono presso maestri di fama come Vicente López o Luis Planes; altre, come Micaela Ferrer, seppero distinguersi per originalità e ricevettero riconoscimenti accademici ufficiali, guadagnandosi uno spazio, seppur limitato, nella narrazione artistica del tempo.
L’accesso delle donne alle Accademie – spesso come Académicas de Mérito – rappresentava più un gesto simbolico che una reale apertura. Le artiste rimanevano confinate a spazi di libertà vigilata: salotti aristocratici, conventi silenziosi, accademie secondarie e collezioni private, dove potevano esercitare il loro talento senza infrangere le regole della società.
Eppure, proprio in questi interstizi nascosti fioriva una geografia del talento invisibile, un universo discreto in cui l’atto creativo si faceva gesto di autonomia, linguaggio implicito di resistenza culturale e testimonianza silenziosa della presenza femminile nell’arte.
In questo contesto emerge la figura di Francisco Goya (1746–1828), il cui genio segnò un vero punto di svolta. Ritrattista di corte e osservatore lucido della realtà, egli introdusse un realismo dell’anima, una sensibilità psicologica senza precedenti, liberando la pittura dalla patina decorativa del Rococò e aprendo al respiro moderno. Nei ritratti di nobildonne, e nella celebre duchessa d’Alba, la donna si mostrava finalmente come individuo consapevole di sé, specchio della crisi borbonica e preludio a un nuovo linguaggio estetico, in cui la personalità e la soggettività trovavano dignità visibile.
Madrid restava il fulcro del riconoscimento nazionale, mentre Valencia, Siviglia e Cadice costituivano dei poli complementari, luoghi in cui le donne potevano coltivare la propria arte entro i limiti socialmente e istituzionalmente accettati.
Qui, tra atelier privati, salotti aristocratici, Accademie locali e concorsi, le pittrici lasciarono tracce preziose di una geografia del talento femminile silenziosa ma significativa, preludio a un lento e graduale cambiamento nella percezione e nel riconoscimento del ruolo della donna nel mondo artistico spagnolo.
Nata a Madrid nel 1733, Bárbara María Hueva detiene un primato degno di nota: fu la prima donna ad essere ammessa alla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, nell’anno stesso della sua apertura formale (1752).
Tuttavia, benché questo titolo risplenda come gemma di riconoscimento, della sua produzione pittorica ci restano poche tracce documentate, e la memoria delle sue tele è avvolta in una lieve nebbia di oblio. In un’epoca in cui il pennello femminile era ancora confinato a spazi circoscritti, la sua figura così pionieristica appare quasi come una promessa non del tutto compiuta — un canto silenzioso ma significativo nella storia delle artiste madrilene.
Nata a Madrid il 14 ottobre 1739, appartenente a una nobile famiglia, Mariana de Silva‑Bazán si distinse non solo come scrittrice e traduttrice, ma anche come pittrice dilettamente riconosciuta.
Fu nominata accademica alla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando il 20 luglio 1766 e divenne persino direttrice onoraria. Purtroppo, le sue opere pittoriche non sono arrivate fino a noi in modo significativo: si dice fossero di merito, ma nessuna opera a lei attribuita ha ancora raggiunto una notorietà stabile. La sua vicenda illumina bene la condizione delle donne artiste dell’epoca: titolo prestigioso, visibilità sociale elevata, ma un cammino professionale e artistico ancora avvolto nell’ombra.
Al di là della Hueva e della Silva‑Bazán, sappiamo che altre donne operarono a Madrid e nei suoi circoli accademici, magari con lettere di ammissione, diplomi o piccoli ritratti, ma il loro lascito visivo — ossia le opere — si è disperso o è rimasto confinato in collezioni private, conventi, salotti aristocratici.
Come è stato sottolineato, la scarsità di immagini delle opere femminili non è un semplice accidente, ma la testimonianza della marginalità delle artiste nell’orizzonte istituzionale, sociale e mercantile dell’epoca.
La loro attività fu reale, il loro talento spesso stimato, ma la conservazione, la firma, la circolazione e il riconoscimento pubblico restavano limitati. Ecco dunque che, per molte pittrici madrilene, possiamo citare la presenza documentata — ammissioni in Accademia, appartenenza aristocratica o borghese, registri di disegno o concorso — ma spesso la tela che potesse parlare al grande pubblico manca o manca di pubblicazione.
L’Accademia di San Carlos a Valencia, fondata nel 1768, costituì un centro culturale importante nel regno borbonico, eppure — come ci ricorda lo studio di Pérez‑Martín — “nonostante ciò le donne artiste rimasero sostanzialmente invisibili nei manuali”.
Esse ottennero formalmente ammissione accademica, ma erano escluse dalle aule, dalle cariche, dalle mostre pubbliche di rilievo; e le loro opere, quando esistevano, non venivano firmate, catalogate o diffuse nei circuiti ufficiali.
In molti casi sono andate perdute, restano nelle collezioni private o sono anonime.
Nella preziosa ricerca condotta dalla Prof.ssa Mariángeles Pérez‑Martín dell’Università di Valencia nel 2015 si segnala Micaela Ferrer tra le sette pittrici ammesse all’Real Academia de Bellas Artes de San Carlos di Valencia nel secolo XVIII. Purtroppo, non abbiamo ad oggi un catalogo certo delle sue opere sopravvissute.
Il suo nome rimane dunque un frammento luminoso nel panorama: sappiamo che presentò lavori all’Accademia per essere valutati, ma non possiamo contemplarne con certezza i dipinti.
Di Engracia de las Casas Aragorri, anche lei tra quelle citate dalla Prof.ssa Pérez‑Martín come “académicas” dell’Accademia di Valencia non abbiamo opere specificamente attribuite in pubblicazione corrente: la destinazione è spesso “opere perdute o negli anonimi delle collezioni private”.
Altro nome che appare nell’elenco delle pittrici della scuola valenciana è quello di Josefa Mayans Pastor.
Come per le precedenti, l’assenza delle loro tele nella biblioteca visiva della Storia dell’Arte spagnola è testimonianza della marginalità: esse produssero, furono valutate dall’Accademia, eppure la memoria visiva ci è quasi negata.
Questo silenzio delle tele — questa assenza visiva — parla di un sistema in cui l’artista donna a Valencia poteva essere riconosciuta, ma raramente poteva emergere. Ecco quindi che, pur con nobili nomi, la sostanza delle loro opere rimane in larga misura invisibile.
A Siviglia, città barocca per eccellenza dove la ricchezza del Nuovo Mondo si mescolava al fervore religioso e alla vivacità mercantile, l’universo femminile dell’arte appare più come un sussurro che come un clamoroso trionfo. Benchè siano state almeno novanta le donne attive come artiste nella Spagna dell’Età Moderna, le realmente identificate a Siviglia sono poche.
Tra i nomi documentati si ricordano Luisa Ignacia Roldán (1652–1706), meglio conosciuta come La Roldana, scultrice di grande talento ancorata a Siviglia, e altre artiste come Luisa de Valdés, María de la Concepción, María de la Encarnación e María de la Santísima Trinidad; tutte indicate come pittrici attive nella città, ma prive, nella maggior parte dei casi, di opere oggi riconoscibili o pubblicamente catalogate. Queste donne operarono in spazi limitati — atelier familiari, contesti religiosi, botteghe sussidiarie — dove il talento poteva fiorire, ma senza raggiungere la piena autonomia o la visibilità pubblica che spettava ai colleghi uomini.
Le tele firmate, le mostre pubbliche e i cartellini in collezione restano per lo più speranze nella Storia dell’Arte sivigliana. Il silenzio delle tele — il vuoto nelle sale, l’assenza nei cataloghi — diventa esso stesso testimonianza. Le cause di questa invisibilità sono molte: la formazione limitata delle donne, l’accesso ridotto alle Accademie e ai fornitori di committenza, la permanenza delle opere in contesti familiari o religiosi, e talvolta la semplice perdita o dispersione nel tempo.
Possiamo dunque guardare a Siviglia come a un microcosmo della condizione femminile nell’arte borbonica: la città dove l’arte barocca raggiunse vette di intensità e popolarità, eppure dove le donne artiste non riuscirono a emergere pienamente. Il loro agire, silenzioso ma significativo, rivela la doppia dinamica del potere e della marginalità: in una città che esaltava l’arte come linguaggio, esse rimasero spesso ai margini del sistema ufficiale, ma il loro gesto creativo fu, in certo senso, un atto di presenza, di resistenza intrinseca, un modo per “essere” nell’arte anche se fuori dalle grandi visibilità.
A Cadice, città di mare e di traforo oceanico, ponte tra la Spagna e le Americhe, si respirava un’aria di commercio, di modernità e di apertura illuminista: non era solo porto, ma anche crocevia culturale di sensibilità nuove.
In questo ambiente, benché l’arte femminile continuasse a scontrarsi con limiti strutturali, emergono alcune figure di donne artiste che trascendono il semplice gesto dilettantistico e testimoniano la volontà di presenza, consapevole e raffinata. Una di esse è Francisca Efigenia Meléndez y Durazzo (1770‑1825), nata a Cadice, miniaturista e pastellista, figlia di José Agustín Meléndez, che nel 1794 fu nominata pittrice di corte. Questa donna, con delicatezze cromatiche e con misura, traduce in miniatura e in pastello una sensibilità sottile: non è già solo ornamento, è presenza.
Sebbene le informazioni sulle sue opere specifiche siano scarne, il fatto stesso che una pittrice di Cadice ricevesse un incarico ufficiale e acceso riconoscimento ci parla di un cambiamento, seppur parziale.
Ma Cadice non offre solo questo nome isolato: la città, pur con le sue contraddizioni, si colloca come polo complementare nella geografia del talento femminile spagnolo, oggi più che mai da recuperare.
Il tessuto sociale di Cadice, con la sua borghesia mercantile, con le sue “sociedades económicas” e con la sua collocazione strategica, consentiva alcune aperture – ma sempre inscritte dentro limiti: le artiste potevano operare, ma raramente occupavano spazi di piena autonomia o visibilità. In altre parole, Cadice fu teatro di promesse e sogni d’arte femminile, ma anche di silenzi e dispersioni. Le loro opere spesso sono rimaste in collezioni private, oppure si sono perdute, oppure semplicemente non sono state riconosciute e firmate, lasciando un vuoto visivo nella memoria culturale.
Così, come su un palcoscenico marino, queste donne posero i loro pennelli nella luce del porto di Cadice, riflettendo in essa non solo la luce del tramonto sul mare, ma anche un riflesso più profondo: quello della loro ambizione, del loro talento, e della contingenza che lo confinava all’ombra. In tale città‑labirinto, le pittrici non furono comparse ma protagoniste silenziose: la loro arte non gridava, sussurrava, ma quel sussurro ancora vibra, in attesa che lo riconosciamo.
A completare il quadro della penisola iberica, quando volgiamo lo sguardo al Settecento portoghese e all’arte femminile, le tracce si affievoliscono ulteriormente: non si trovano con facilità cataloghi di pittrici attive in modo continuativo e riconosciuto, come accadde in Francia o, in parte, in Italia. Ci troviamo così di fronte a un panorama in cui la presenza femminile nell’arte visiva permane latente, circoscritta a pochi casi isolati o a opere che non varcarono mai le soglie dei circuiti ufficiali o accademici.
Questa lacuna si spiega in parte con la struttura sociale e culturale del regno portoghese: la formazione artistica femminile, l’accesso alle scuole, alle Accademie e alle committenze pubbliche era fortemente limitata.
Esistevano pur sempre pratiche creative femminili — nei conventi, nelle botteghe familiari, negli ambiti domestici — ma la loro visibilità e la conservazione delle loro opere non godettero della stessa cura, della stessa memoria storica, riservata ai colleghi maschi.
In queste ombre silenziose sopravviveva, tuttavia, un sottile sussurro di talento, una testimonianza discreta della volontà creativa delle donne, pronta a emergere secoli dopo grazie agli sforzi di chi, con pazienza e dedizione, ha ricercato queste tracce perse.
                                                               Massimo Capuozzo     

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