Prima di addentrarci nella geografia e
nelle vicende delle pittrici iberiche, è opportuno osservare che la ricerca
sull’arte femminile della seconda metà del Settecento si trova a confrontarsi
con un vuoto quasi palpabile. La scarsità di immagini delle opere delle donne
non è un caso fortuito, ma il segno eloquente di una sensibilità ancora tenue
verso la creatività femminile: le loro opere raramente varcavano i confini del
dilettantismo sociale, faticando a emergere come testimonianza visibile del
talento. Molti lavori si sono dispersi nel corso del tempo, altri si sono
relegati in collezioni private, o forse si sono perduti nei meandri dell’oblio;
il loro ricordo sopravvive soprattutto nei nomi e nelle cronache accademiche.
Questo silenzio visivo non è semplicemente un vuoto documentario, ma la
testimonianza della marginalità istituzionale e sociale delle pittrici: un
talento esercitato con grazia e raffinata competenza, tuttavia confinato ai
margini della narrazione artistica ufficiale, nascosto alla luce che illuminava
i loro colleghi maschi.
Le cause di tale marginalizzazione
sono molteplici e intrecciate: innanzitutto, fattori sociali e culturali che
relegavano la donna al ruolo domestico e educativo; poi, una struttura
accademica e professionale profondamente patriarcale, che consentiva alle
artiste solo accessi simbolici o limitati; infine, la circolazione delle opere
femminili era ostacolata da reti di mercato e di committenza prevalentemente
maschili, e dalla permanenza delle creazioni in spazi privati o conventuali,
lontane dalla visibilità pubblica necessaria a garantire la memoria storica
(Jiménez, 2002; Sánchez, 2010). Questo è il motivo per il quale
questo testo ha valore più storico che storico-artistico.
All’alba del XVIII secolo, la Spagna
si svegliava come un antico palazzo ferito, le cui crepe raccontavano le
devastazioni della Guerra di Successione (1700-1714).
Il Paese, provato e sfinito,
si trovava a dover ritessere la propria identità politica e culturale, cercando
tra le rovine una nuova armonia. La Pace di Utrecht, pur imprimendo la
dolorosa perdita di territori come Gibilterra, aprì al contempo una stagione di
nuove alleanze dinastiche con la Francia e incoronò sul trono di Madrid la
dinastia dei Borbone.
Con Filippo V (1700-1746), e ancor più con i suoi
successori Ferdinando VI e Carlo III, la corona intraprese un ambizioso
progetto di riforma: un disegno che mirava a trasformare lo Stato, concentrare
il potere e ridisegnare l’immagine stessa della monarchia, come un architetto
che ridà vita a un palazzo antico e scolorito dal tempo.
La Spagna, uscita dal lungo dominio
asburgico, giaceva ancora immersa in arretratezza economica e culturale;
occorreva un vigoroso processo di ringiovanimento che sanasse le ferite di un
Impero declinante.
I Borbone concepirono il potere come un meccanismo
razionale, dove disciplina, efficienza e pianificazione avrebbero sostituito il
fatalismo e l’immobilismo del secolo precedente. Il riformismo illuminato
divenne così lo strumento principe di un vasto progetto politico che, pur
preservando la monarchia assoluta, ambiva a promuovere il benessere, la
produttività e l’ordine morale dei sudditi.
I Decreti di Nueva Planta (1705)
posero le fondamenta di uno Stato centralizzato, riducendo privilegi regionali
e uniformando l’amministrazione secondo i modelli francesi. Le successive
riforme economiche e fiscali di Ferdinando VI (1746-1759), con la creazione del
Dipartimento del Tesoro nel 1754, e la vigorosa stagione riformista di Carlo
III (1759-1788), consolidarono la visione di uno Stato moderno, fondato sulla
ragione e sul merito. Le nuove istituzioni – dalle Sociedades Económicas alle
Accademie, fino alla stampa di ispirazione illuminista – diffusero un’idea di
progresso civile che, almeno nella teoria, si proponeva di abbracciare tutti i
ceti sociali.
Eppure, il dinamismo di queste
politiche si scontrava con una società ancora profondamente intrisa di rigide
gerarchie e mentalità arcaiche. La nobiltà conservatrice, il clero e gli ordini
religiosi opposero resistenze tenaci a un processo che minacciava i loro
privilegi secolari. La rivolta di Esquilache (1766) e l’espulsione dei Gesuiti
(1767) furono momenti emblematici della frattura tra il dispotismo illuminato e le resistenze del corpo sociale, mentre l’intervento dello Stato nella sfera
religiosa sanciva la fine del predominio ecclesiastico, subordinando
gradualmente la Chiesa al regalismo borbonico.
In questo contesto complesso, l’arte e
la cultura assunsero una funzione eminentemente politica. L’arte non era più
mero ornamento o strumento di devozione: divenne linguaggio del potere,
destinata a incarnare la nuova immagine dello Stato e a educare i cittadini
alla virtù civile. Le arti visive, sostenute dalle Accademie reali, traducevano
in immagine l’ordine, la misura e la razionalità illuminista. L’estetica
neoclassica, con la sua chiarezza formale e il suo ideale di bellezza regolata,
si impose come lingua ufficiale del potere borbonico, simboleggiando l’armonia
tra progresso e tradizione.
Eppure, tale modernizzazione restava
in larga misura parziale e contraddittoria.
L’arretratezza economica e la
rigidità dei ruoli sociali impedirono che le riforme producessero una
trasformazione diffusa. Nel campo artistico, alla tensione verso ordine e
chiarezza si contrapponeva una persistente sensibilità barocca, intrisa di
pathos, religiosità e decorativismo. Questa duplice anima – razionale e
passionale, moderna e arcaica – segnerà l’identità dell’arte spagnola del
secondo Settecento, anticipando le contraddizioni e la potenza espressiva della
pittura di Francisco Goya.
Nel tardo Settecento, la Spagna
borbonica visse una stagione di rinnovamento artistico che rifletteva le
ambizioni politiche di Carlo III (1759–1788), desideroso di costruire
un’immagine dello Stato ordinata, moderna e razionale. Il sovrano, interprete
raffinato di un mecenatismo illuminato, comprese con acuta sensibilità il
valore simbolico dell’arte: essa non era più puro ornamento, ma linguaggio del
potere, strumento di rappresentazione e di educazione civile.
Le Accademie di Belle Arti – la Real
Academia de Bellas Artes de San Fernando a Madrid (1752) e la Real Academia de
San Carlos a Valencia (1768) – si affermarono come centri nevralgici di
formazione e controllo del gusto, veicoli di centralizzazione culturale e
diffusione dei valori neoclassici. Qui, artisti e
artiste venivano plasmati secondo principi di ordine e decoro, rispondendo alle
esigenze di una committenza colta e raffinata, e traducendo in immagini la
visione politica dei Borbone.
Parallelamente, il mercato pittorico
iniziava a diversificarsi: accanto ai consueti altari e ritratti di corte,
emergeva una crescente domanda borghese di ritratti e di scene di genere, specchio
di una sensibilità sociale nuova e attenta ai valori domestici e civili. Nei
ritratti aristocratici e borghesi, il realismo psicologico si fondeva con
l’eleganza raffinata del Rococò, mentre nei soggetti domestici e morali
prendeva corpo l’ideale di virtù familiare caro alla cultura illuminista.
Dimore, salotti e studi colti si trasformavano in spazi di fruizione e di produzione
artistica, dove pittura e conversazione si intrecciavano come forme
complementari di distinzione sociale e culturale.
Sul piano stilistico, il
Neoclassicismo spagnolo appariva come una raffinata rielaborazione della
tradizione barocca: figure sobrie e misurate, colori chiari, composizioni
razionali, pur conservando nella luce, nella materia cromatica e nella
devozione tracce profonde del passato. La pittura
iberica si offriva così come un organismo ibrido e affascinante, in cui modernità
illuminista e sostrato religioso e popolare convivevano in un equilibrio
sottile e instabile.
In questo quadro, la presenza
femminile nell’arte, pur discreta e silenziosa, acquisì un rilievo
significativo. Pittrici come Micaela Ferrer, Isabel de Ezpeleta, María Tomasa
de Palafox, María de la Vega, Rita Luna, Josefa Bayeu e Manuela González
operarono in spazi ristretti, ma con grazia e introspezione, traducendo in
miniature, pastelli e disegni una sensibilità raffinata e un’eleganza tecnica
straordinaria.
Alcune provenivano da famiglie aristocratiche o artistiche e si
formarono presso maestri di fama come Vicente López o Luis Planes; altre, come
Micaela Ferrer, seppero distinguersi per originalità e ricevettero
riconoscimenti accademici ufficiali, guadagnandosi uno spazio, seppur limitato,
nella narrazione artistica del tempo.
L’accesso delle donne alle Accademie –
spesso come Académicas de Mérito – rappresentava più un gesto simbolico che una
reale apertura. Le artiste rimanevano confinate a spazi di libertà vigilata:
salotti aristocratici, conventi silenziosi, accademie secondarie e collezioni
private, dove potevano esercitare il loro talento senza infrangere le regole
della società.
Eppure, proprio in questi interstizi nascosti fioriva una geografia
del talento invisibile, un universo discreto in cui l’atto creativo si faceva
gesto di autonomia, linguaggio implicito di resistenza culturale e
testimonianza silenziosa della presenza femminile nell’arte.
In questo contesto emerge la figura di
Francisco Goya (1746–1828), il cui genio segnò un vero punto di svolta.
Ritrattista di corte e osservatore lucido della realtà, egli introdusse un realismo dell’anima, una sensibilità psicologica senza precedenti, liberando
la pittura dalla patina decorativa del Rococò e aprendo al respiro moderno. Nei ritratti di nobildonne, e
nella celebre duchessa d’Alba, la donna si mostrava finalmente come individuo
consapevole di sé, specchio della crisi borbonica e preludio a un nuovo
linguaggio estetico, in cui la personalità e la soggettività trovavano dignità
visibile.
Madrid restava il fulcro del
riconoscimento nazionale, mentre Valencia, Siviglia e Cadice costituivano dei poli
complementari, luoghi in cui le donne potevano coltivare la propria arte entro
i limiti socialmente e istituzionalmente accettati.
Qui, tra atelier privati,
salotti aristocratici, Accademie locali e concorsi, le pittrici lasciarono
tracce preziose di una geografia del talento femminile silenziosa ma significativa,
preludio a un lento e graduale cambiamento nella percezione e nel
riconoscimento del ruolo della donna nel mondo artistico spagnolo.
Nata a Madrid nel 1733, Bárbara María
Hueva detiene un primato degno di nota: fu la prima donna ad essere ammessa
alla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, nell’anno stesso della sua
apertura formale (1752).
Tuttavia, benché questo titolo
risplenda come gemma di riconoscimento, della sua produzione pittorica ci
restano poche tracce documentate, e la memoria delle sue tele è avvolta in una
lieve nebbia di oblio. In un’epoca in cui il pennello femminile era ancora
confinato a spazi circoscritti, la sua figura così pionieristica appare quasi
come una promessa non del tutto compiuta — un canto silenzioso ma significativo
nella storia delle artiste madrilene.
Nata a Madrid il 14 ottobre 1739,
appartenente a una nobile famiglia, Mariana de Silva‑Bazán si distinse non solo
come scrittrice e traduttrice, ma anche come pittrice dilettamente
riconosciuta.
Fu nominata accademica alla Real Academia de Bellas Artes de
San Fernando il 20 luglio 1766 e divenne persino direttrice onoraria.
Purtroppo, le sue opere pittoriche non sono arrivate fino a noi in modo
significativo: si dice fossero di merito, ma nessuna opera a lei attribuita ha
ancora raggiunto una notorietà stabile. La sua vicenda illumina bene la
condizione delle donne artiste dell’epoca: titolo prestigioso, visibilità
sociale elevata, ma un cammino professionale e artistico ancora avvolto
nell’ombra.
Al di là della Hueva e della Silva‑Bazán,
sappiamo che altre donne operarono a Madrid e nei suoi circoli accademici,
magari con lettere di ammissione, diplomi o piccoli ritratti, ma il loro
lascito visivo — ossia le opere — si è disperso o è rimasto confinato in collezioni
private, conventi, salotti aristocratici.
Come è stato sottolineato, la
scarsità di immagini delle opere femminili non è un semplice accidente, ma la testimonianza della marginalità delle artiste nell’orizzonte istituzionale,
sociale e mercantile dell’epoca.
La loro attività fu reale, il loro
talento spesso stimato, ma la conservazione, la firma, la circolazione e il
riconoscimento pubblico restavano limitati. Ecco dunque che, per molte pittrici
madrilene, possiamo citare la presenza documentata — ammissioni in Accademia,
appartenenza aristocratica o borghese, registri di disegno o concorso — ma
spesso la tela che potesse parlare al grande pubblico manca o manca di pubblicazione.
L’Accademia di San Carlos a Valencia,
fondata nel 1768, costituì un centro culturale importante nel regno borbonico,
eppure — come ci ricorda lo studio di Pérez‑Martín — “nonostante ciò le donne
artiste rimasero sostanzialmente invisibili nei manuali”.
Esse ottennero formalmente ammissione
accademica, ma erano escluse dalle aule, dalle cariche, dalle mostre pubbliche
di rilievo; e le loro opere, quando esistevano, non venivano firmate,
catalogate o diffuse nei circuiti ufficiali.
In molti casi sono andate perdute,
restano nelle collezioni private o sono anonime.
Nella preziosa ricerca condotta dalla
Prof.ssa Mariángeles Pérez‑Martín dell’Università di Valencia nel 2015 si
segnala Micaela Ferrer tra le sette
pittrici ammesse all’Real Academia de Bellas Artes de San Carlos di Valencia
nel secolo XVIII. Purtroppo, non abbiamo ad oggi un catalogo certo delle sue
opere sopravvissute.
Il suo nome rimane dunque un frammento luminoso nel
panorama: sappiamo che presentò lavori all’Accademia per essere valutati, ma
non possiamo contemplarne con certezza i dipinti.
Di Engracia de las Casas
Aragorri,
anche lei tra quelle citate dalla Prof.ssa Pérez‑Martín come “académicas” dell’Accademia
di Valencia non abbiamo opere specificamente attribuite in pubblicazione
corrente: la destinazione è spesso “opere perdute o negli anonimi delle
collezioni private”.
Altro nome che appare nell’elenco
delle pittrici della scuola valenciana è quello di Josefa Mayans Pastor.
Come per le precedenti, l’assenza delle loro tele nella biblioteca visiva della
Storia dell’Arte spagnola è testimonianza della marginalità: esse produssero,
furono valutate dall’Accademia, eppure la memoria visiva ci è quasi negata.
Questo silenzio delle tele — questa
assenza visiva — parla di un sistema in cui l’artista donna a Valencia poteva
essere riconosciuta, ma raramente poteva emergere. Ecco quindi che, pur con
nobili nomi, la sostanza delle loro opere rimane in larga misura invisibile.
A Siviglia, città barocca per
eccellenza dove la ricchezza del Nuovo Mondo si mescolava al fervore religioso
e alla vivacità mercantile, l’universo femminile dell’arte appare più come un
sussurro che come un clamoroso trionfo. Benchè siano state almeno novanta le
donne attive come artiste nella Spagna dell’Età Moderna, le realmente
identificate a Siviglia sono poche.
Tra i nomi documentati si ricordano Luisa
Ignacia Roldán (1652–1706), meglio conosciuta come La Roldana, scultrice di grande talento
ancorata a Siviglia, e altre artiste come Luisa de Valdés, María de la
Concepción, María de la Encarnación e María de la Santísima Trinidad; tutte
indicate come pittrici attive nella città, ma prive, nella maggior parte dei
casi, di opere oggi riconoscibili o pubblicamente catalogate. Queste donne
operarono in spazi limitati — atelier familiari, contesti religiosi, botteghe
sussidiarie — dove il talento poteva fiorire, ma senza raggiungere la piena
autonomia o la visibilità pubblica che spettava ai colleghi uomini.
Le tele firmate, le mostre pubbliche e
i cartellini in collezione restano per lo più speranze nella Storia dell’Arte
sivigliana. Il silenzio delle tele — il vuoto nelle sale, l’assenza nei
cataloghi — diventa esso stesso testimonianza. Le cause di questa invisibilità
sono molte: la formazione limitata delle donne, l’accesso ridotto alle
Accademie e ai fornitori di committenza, la permanenza delle opere in contesti
familiari o religiosi, e talvolta la semplice perdita o dispersione nel tempo.
Possiamo dunque guardare a Siviglia come a un microcosmo della condizione
femminile nell’arte borbonica: la città dove l’arte barocca raggiunse vette di
intensità e popolarità, eppure dove le donne artiste non riuscirono a emergere
pienamente. Il loro agire, silenzioso ma significativo, rivela la doppia
dinamica del potere e della marginalità: in una città che esaltava l’arte come
linguaggio, esse rimasero spesso ai margini del sistema ufficiale, ma il loro
gesto creativo fu, in certo senso, un atto di presenza, di resistenza
intrinseca, un modo per “essere” nell’arte anche se fuori dalle grandi
visibilità.
A Cadice, città di mare e di traforo
oceanico, ponte tra la Spagna e le Americhe, si respirava un’aria di commercio, di modernità e di apertura illuminista: non era solo porto, ma anche crocevia
culturale di sensibilità nuove.
In questo ambiente, benché l’arte femminile
continuasse a scontrarsi con limiti strutturali, emergono alcune figure di
donne artiste che trascendono il semplice gesto dilettantistico e testimoniano
la volontà di presenza, consapevole e raffinata. Una di esse è Francisca
Efigenia Meléndez y Durazzo (1770‑1825), nata a Cadice, miniaturista e
pastellista, figlia di José Agustín Meléndez, che nel 1794 fu nominata pittrice
di corte. Questa donna, con delicatezze cromatiche e con misura, traduce in miniatura e in pastello una sensibilità sottile: non è già solo ornamento, è
presenza.
Sebbene le informazioni sulle sue opere specifiche siano scarne, il
fatto stesso che una pittrice di Cadice ricevesse un incarico ufficiale e
acceso riconoscimento ci parla di un cambiamento, seppur parziale.
Ma Cadice non offre solo questo nome
isolato: la città, pur con le sue contraddizioni, si colloca come polo
complementare nella geografia del talento femminile spagnolo, oggi più che mai
da recuperare.
Il tessuto sociale di Cadice, con la sua borghesia mercantile,
con le sue “sociedades económicas” e con la sua collocazione strategica,
consentiva alcune aperture – ma sempre inscritte dentro limiti: le artiste
potevano operare, ma raramente occupavano spazi di piena autonomia o
visibilità. In altre parole, Cadice fu teatro di promesse e sogni d’arte
femminile, ma anche di silenzi e dispersioni. Le loro opere spesso sono rimaste
in collezioni private, oppure si sono perdute, oppure semplicemente non sono
state riconosciute e firmate, lasciando un vuoto visivo nella memoria
culturale.
Così, come su un palcoscenico marino,
queste donne posero i loro pennelli nella luce del porto di Cadice, riflettendo
in essa non solo la luce del tramonto sul mare, ma anche un riflesso più
profondo: quello della loro ambizione, del loro talento, e della contingenza
che lo confinava all’ombra. In tale città‑labirinto, le pittrici non furono
comparse ma protagoniste silenziose: la loro arte non gridava, sussurrava, ma
quel sussurro ancora vibra, in attesa che lo riconosciamo.
A completare il quadro
della penisola iberica, quando volgiamo lo sguardo al Settecento portoghese e all’arte
femminile, le tracce si affievoliscono ulteriormente: non si trovano
con facilità cataloghi di pittrici attive in modo continuativo e
riconosciuto, come accadde in Francia o, in parte, in Italia. Ci troviamo così
di fronte a un panorama in cui la presenza femminile nell’arte visiva permane
latente, circoscritta a pochi casi isolati o a opere che non varcarono mai le
soglie dei circuiti ufficiali o accademici.
Questa lacuna si spiega in parte
con la struttura sociale e culturale del regno portoghese: la formazione
artistica femminile, l’accesso alle scuole, alle Accademie e alle committenze
pubbliche era fortemente limitata.
Esistevano pur sempre pratiche creative
femminili — nei conventi, nelle botteghe familiari, negli ambiti domestici — ma
la loro visibilità e la conservazione delle loro opere non godettero della
stessa cura, della stessa memoria storica, riservata ai colleghi maschi.
In
queste ombre silenziose sopravviveva, tuttavia, un sottile sussurro di talento,
una testimonianza discreta della volontà creativa delle donne, pronta a
emergere secoli dopo grazie agli sforzi di chi, con pazienza e dedizione, ha
ricercato queste tracce perse.
Massimo Capuozzo
domenica 2 novembre 2025
Le artiste ispano- portoghesi nella seconda metà del Settecento di Massimo Capuozzo
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