Le radici
italiane di Degas affondavano in una terra che gli apparteneva per destino e
memoria, e che avvolse la sua infanzia come un’educazione sentimentale. Non era
soltanto il nonno René-Hilaire a vivere nella nostra Napoli dal respiro marino
e aristocratico; anche la zia Laura risiedeva a Firenze, città d’arte e di
armonie rinascimentali, dove aveva sposato Gennaro Bellelli, figlio di un
barone insignito ai tempi del regno murattiano. Gennaro, spirito coltissimo e
irrequieto, uomo di banca e di lettere, giurista e giornalista animato da
fervore liberale, sosteneva con ardore Cavour e il sogno dell’indipendenza
italiana dal dominio austriaco.
Ma dopo le
agitazioni del 1848, le sue idee divennero motivo di pericolo: la condanna a
morte lo costrinse a un esilio sobrio e dignitoso, condiviso con l’amata Laura,
nella Firenze che li avrebbe accolti come rifugiati e testimoni del proprio
tempo.
Per il giovane
Edgar, tuttavia, quell’allontanamento familiare si trasformò in un privilegio
raro: poté dedicarsi, con la calma assorta degli animi predestinati, allo
studio dei capolavori del Rinascimento. In quelle sale, tra l’oro dei fondi
antichi e la misura solenne dei maestri toscani, egli formò il suo sguardo,
raffinando una sensibilità che di lì a poco sarebbe diventata la sua cifra più
intima.
Fu nella
Firenze elegante e un poco febbrile dell’Ottocento che Degas si avvicinò a un
circolo di pittori raccolti attorno al Caffè Michelangelo, dove il critico
Diego Martelli guidava i più giovani con la generosità di un maestro
illuminato. Da quelle conversazioni, intense come un fervore giovanile, nel
1855 germogliò il movimento dei Macchiaioli, primo segno in Europa di una modernità che
Degas seppe intuire con la finezza dei grandi spiriti.
Degas possedeva
radici familiari profonde in Italia, radici che segnarono l’infanzia e la
formazione del giovane artista. Non solo il nonno René-Hilaire dimorava a
Napoli, ma anche la zia Laura abitava a Firenze, dove aveva sposato Gennaro
Bellelli, figlio di un barone insignito in epoca murattiana. Gennaro, uomo di
cultura e di affari, banchiere, giurista e giornalista dalle idee liberali,
sosteneva Cavour e l’indipendenza italiana dall’Austria; dopo i moti del 1848,
la sua posizione divenne pericolosa e la condanna a morte lo costrinse
all’esilio insieme a Laura a Firenze. Per il giovane Edgar, tuttavia, quella
lontananza forzata si rivelò un dono prezioso: poté studiare con calma i
capolavori del Rinascimento, nutrendosi di un patrimonio artistico destinato a
formare la sua sensibilità futura.
A Firenze,
Degas si avvicinò a un gruppo di pittori che si ritrovavano al “Caffè
Michelangelo”, attorno al mentore Diego Martelli, e da quegli incontri, nel
1855, nacque il movimento dei Macchiaioli.
Resta ancora da
misurare con esattezza quanto quegli scambi intellettuali abbiano realmente
inciso sulla formazione del giovane parigino; eppure l’atmosfera fiorentina,
sospesa in un equilibrio quasi musicale tra rigore artistico e vibrante
pensosità, gli schiuse orizzonti nuovi, più vasti e più luminosi, nei quali
l’occhio poté esercitare la propria vocazione contemplativa.
Nel 1858,
assecondando le insistenti premure della zia, Edgar raggiunse Firenze; ma
Laura, nel frattempo, si era recata a Roma per assistere il padre morente. Fu
in quell’anno, così gravato da distacchi e presagi, che Degas iniziò a
concepire il grande dipinto La famiglia Bellelli, un’opera
meditata con pazienza aristocratica e destinata a trovare compimento soltanto
nel 1869. In un primo momento egli ne aveva immaginato un nucleo più intimo,
desiderando ritrarre soltanto le due giovani cugine; ma, come accade alle idee
che maturano con naturalezza, il progetto si dilatò presto, abbracciando
l’intero nucleo familiare: Laura, Gennaro, e le figlie Giovanna e Giulia,
fissati sulla tela con la gravità silenziosa delle genealogie che segnano un
destino.
Il soggiorno
fiorentino non fu privo d’insidie sottili: lo zio, uomo di temperamento algido
e ritroso, appariva a Degas come una presenza remota, un’ombra appena
percepibile entro l’architettura mentale dell’opera. Su invito fermo del padre,
egli tornò a Parigi per proseguire il lavoro sui bozzetti, salvo poi fare
ritorno a Firenze nel 1860. La costruzione del grande dipinto si rivelò
un’impresa ardua, quasi un cimento interiore, tanto che il giovane maestro
pensò talvolta di abbandonarla; e tuttavia, con la costanza dei temperamenti
predestinati, nel 1867 l’opera trovò finalmente compimento.
La
corrispondenza privata della famiglia Bellelli lascia emergere, con una
chiarezza tagliente, il profondo dissidio tra Laura e Gennaro. Questo attrito
si cristallizza sulla tela nella netta separazione dei gruppi: a sinistra Laura
con le figlie, a destra il barone, isolato in una solitudine simbolica. Nessuno
incrocia lo sguardo dell’altro; solo Gennaro rivolge gli occhi verso la figlia
maggiore, quasi cercando un contatto che non può ottenere. Ogni figura incarna
un sentimento distinto, rivelando silenzi, assenze e melanconie che
attraversano la scena come correnti sotterranee.
Laura — posta
dietro le figlie, presente nel corpo e insieme altrove nello spirito — appare
in un’eleganza severa: lo chignon raccolto stretto, l’abito nero, lo sguardo
che scivola verso sinistra, assorto in una meditazione che profuma di lutto e
di ricordo. Un orecchino sobrio le illumina il volto, mentre la postura
composta e le mani esili, modellate con una cura quasi devozionale, trasmettono
una raffinatezza antica. Le ragazze formano un gruppo distinto dal barone: gli
sguardi divergono, sfuggono, si perdono. Laura, segnata dalle perdite del
figlio Giovanni e del padre, permane tuttavia madre vigile e protettiva: una
mano posa lievemente sulla spalla di Giovanna, l’altra sfiora il braccio di
Giulia, come un gesto di custodia amorosa.
Giovanna,
accanto alla madre, ne ripete inconsapevolmente i gesti, l’erezione della
figura, la compostezza delle mani incrociate. Il suo sguardo diretto verso lo
spettatore emana una disciplina quasi adulta, un equilibrio distinto tra grazia
e rigore: è il ritratto perfetto della giovane borghesia illuminata, sensibile
alla forma quanto al decoro, già consapevole della propria identità.
La piccola
Giulia, invece, seduta al centro della scena, emerge come un delicato
contrappunto alla sorella maggiore. Rivolta verso lo spettatore, il corpo piegato
in una postura impaziente, tradisce una noia infantile, un’irrequietezza che
vibra in ogni gesto. Quel desiderio di evasione sembra quasi trascinarla fuori
dalla tela, forse per rincorrere il piccolo cagnolino già in movimento: l’unica
figura dinamica dell’insieme, colta mentre supera la soglia della porta,
introducendo un fremito narrativo in un ambiente altrimenti immobile.
Il barone
Gennaro riceve un trattamento iconografico del tutto particolare: non avendo
partecipato alle sessioni di posa, Degas lo rappresenta isolato nell’angolo
destro della tela, quasi relegato in un esilio domestico che riflette il suo
esilio politico e l’abisso ideologico tra i coniugi. Seduto su una grande
poltrona di velluto blu, davanti al camino, pare confinato in uno spazio
angusto, metafora eloquente della sua assenza affettiva dalla vita familiare.
L’atmosfera del
dipinto è rarefatta, intrisa di un gelo emotivo che attraversa l’intera
composizione. Degas, con una lucidità quasi spietata, mette in evidenza la
solitudine di ciascun personaggio: a eccezione del tenue gesto di Laura sulla
spalla di Giovanna, nessun contatto fisico lega un membro della famiglia
all’altro. La tensione è palpabile persino nella postura inclinata di Giulia,
le mani sui fianchi, lo sguardo rivolto al padre con una sorta di interrogativo
silenzioso — un “che vuoi?” sospeso, che funge da fragile cerniera tra i due
poli della scena.
Degas
restituisce dunque la gravità dell’atmosfera domestica che percepì in quella
casa: un senso di oppressione che sembra impregnare ogni gesto e ogni sguardo.
Ed è probabile che proprio questa densità emotiva, unita al perfezionismo
analitico dell’artista, abbia dilatato la gestazione del dipinto per quasi un
decennio.
Dopo il
ritratto del nonno, La famiglia Bellelli si erge come
il secondo grande cimento pittorico di Degas: un’opera autonoma, solenne, quasi
l’emblema della sua prima maturità artistica. La lunga gestazione, che si snoda
per quasi un decennio, testimonia la metamorfosi del suo sguardo, della tecnica
e della sua consapevolezza crescente: ciò che era nato negli anni della
formazione si compie ora nella giovinezza matura, dove il talento incipiente
diventa piena coscienza di sé. L’imponente tela — due metri per due e mezzo —
agisce come un ponte sottile tra ciò che Degas era stato e ciò che stava
diventando.
La
composizione, calibrata con una perizia quasi architettonica, restituisce la
frattura silenziosa della casa Bellelli. La famiglia si divide in due poli: a
sinistra la madre, ancora giovane ma irrigidita dalla propria infelicità,
domina la scena circondata dalle figlie — Giovanna, già temprata dalla saggezza
precoce e dalle convenzioni del rango, e la piccola Giulia, turbolenta,
attratta forse più dal cagnolino che dall’atmosfera familiare. A destra, il padre,
seduto nella sua poltrona, volge un lieve sguardo in direzione delle figlie,
quasi a cercare un contatto che non avverrà. Gli abiti scuri, rischiarati da
delicati grembiuli bianchi, richiamano il recente lutto per il padre di Laura,
imprimendo alla scena un tono di compostezza severa, quasi soffocante.
Alle spalle di
Laura, un quadro appeso alla parete raffigura un disegno in gesso rosso del
vecchio Hilaire — forse uno schizzo preparatorio per un altro ritratto — come a
suggellare l’intreccio di genealogia e vocazione artistica. La luce diurna
entra da destra, avvolge uniformemente i personaggi, eppure lascia il barone in
una sorta di controluce simbolico: la sua presenza, già fragile nella vita
domestica, sembra dissolversi nella penombra visiva.
Per chi ignora
la vicenda drammatica dei Bellelli, l’opera rimane enigmatica, quasi
impenetrabile. Solo Edgar — testimone sensibile del dissidio coniugale — e
forse la zia Laura avrebbero potuto coglierne appieno il significato. La
corrispondenza privata conferma la tensione e consente di leggere la tela come
una narrazione sociologica complessa: un conflitto domestico borghese che si
riverbera sulla vita familiare, rappresentato con la magnificenza degli
interni, la precisione dei dettagli, le tracce di un rango elevato. La carta da
parati, i mobili, il vaso prezioso, il cordone del campanello destinato alla
servitù: ogni elemento parla del prestigio dei Bellelli e di una società
intrisa di convenzioni.
Il ritratto,
genere votato alla centralità dell’essere umano, trionfa tanto più quanto più
riesce a catturare lo stato d’animo dei protagonisti. Degas, memore di Ingres,
costruisce i gruppi con una logica solenne, ma lascia affiorare anche l’eco dei
ritratti genovesi di Van Dyck — come la famiglia Lomellini — e di Velázquez, il
cui gioco di specchi in Las Meninas trova un raffinato
riscontro nella tela Bellelli. Qui, i riflessi rivelano angoli invisibili della
stanza, la porta dell’ambiente di posa, un corridoio illuminato che
intravediamo grazie ai riverberi su un vaso: un’attenzione quasi ossessiva alla
luce e allo spazio, sintomo di un pensiero visivo modernissimo.
La composizione
sfiora così il confine sottile tra ritratto di gruppo e ritratto di famiglia. È
plausibile che Degas intendesse presentarla al Salon del 1867 — anno in cui
espose due ritratti familiari — anche se l’opera sovverte i canoni
tradizionali: non celebra una famiglia borghese trionfante, ma ne mette a nudo
tensioni, silenzi e inquietudini interiori, velandole sotto una compostezza
solo apparente.
Lo sguardo di
Degas è realistico, nella sua fibra più profonda, eppure anticipa già la brezza
impressionista: luce e colore catturano l’immediatezza della scena, esaltando i
contrasti tra il blu e il giallo disseminati nel pavimento, nelle modanature,
nella carta da parati, nei cuscini, nel caminetto. E tuttavia non siamo dinanzi
a un’opera d’istinto: si tratta di un quadro meditato, costruito pazientemente
in laboratorio, calibrato fino al dettaglio più minuto.
In questo
dipinto ambizioso — frutto di anni di osservazione affettuosa e severa —
affiora la lucidità con cui Degas guardava alla propria famiglia, unita
all’ammirazione per i grandi maestri, da Ingres ai pittori antichi, e alla sua
attrazione per una tecnica realistica che conosce già le inquietudini della
modernità. Particolarmente toccante è la cura dedicata alle cuginette: gesti,
posture, inclinazioni del capo, movimenti delle mani raccontano, con una
delicatezza che sfiora la poesia, la loro personalità e la loro vivacità
infantile. È come se il pennello avesse catturato non solo la loro figura, ma
la loro essenza — quella dolce, impalpabile verità che solo l’arte più alta sa
preservare nei secoli.
Il Ritratto
della famiglia Bellelli segna una soglia luminosa nel cammino di
Degas: lo accompagna dall’alba della sua giovinezza artistica, attraverso il
primo decennio di ricerche e tentativi, fino a condurlo verso la pienezza della
sua prima maturità. In questa tela monumentale, l’artista ambiva non soltanto a
farsi conoscere, ma a conquistare lo sguardo dello spettatore, rivelando —
accanto alla finezza della sua tecnica — quella sensibilità acuta, penetrante,
quasi clinica, che sa decifrare la trama sottile dei sentimenti e dei rapporti
umani.
L’opera rimase
con lui fino al 1913, quando venne depositata presso la Galleria Durand-Ruel.
Degas vi era profondamente legato: anche quando, nel 1870, fu costretto a
vendere alcune opere per ripianare i debiti paterni, conservò fino all’ultimo
respiro il ritratto del genitore nel suo studio e non volle mai separarsi dal Ritratto
della famiglia Bellelli, che considerava il più intenso, il più
commovente tra i suoi ritratti familiari. In parte danneggiata dall’usura del
tempo, la tela fu restaurata dallo stesso maestro negli anni estremi della sua
carriera. Alla sua morte, nel 1917, lo Stato francese la acquistò per il Museo
del Lussemburgo, grazie all’intervento affettuoso della famiglia — in
particolare del nipote René — e di alcuni mecenati. Nel 1929 l’opera approdò al
Louvre; nel 1947 passò al Museo Jeu de Paume, dove rimase fino al 1986, quando
fu accolta definitivamente nel Museo d’Orsay.
Sul piano
socio-psicologico, l’opera restituisce con finezza quasi romanzesca la vita
quotidiana di una famiglia borghese del secondo Ottocento, insieme alle
tensioni silenziose che ne attraversano l’intimità. L’interno domestico si
dispiega dinanzi a noi come in un romanzo di Balzac o di Flaubert: vivido,
articolato, immerso in quella densità emotiva che appartiene alle case abitate.
Provenendo egli stesso da una famiglia della borghesia medio-alta, Degas
diventa testimone privilegiato del proprio mondo: ne svela le convenzioni, i
gesti, i rituali, i codici silenziosi, con un’attenzione quasi etnografica e
tuttavia sempre filtrata da uno sguardo poetico, musicale, capace di infondere
grazia anche agli oggetti più umili.
In origine
intitolata Ritratto di famiglia, la tela enuncia con limpida chiarezza la
posizione della donna nella famiglia borghese: una presenza carica di dignità,
ma velata da una freddezza che non sottrae nulla alla sua delicatezza. È lei la
forza centripeta della casa, il perno della famiglia, colei che comanda e
protegge sotto lo sguardo distaccato del marito. In quel distacco si legge
l’autorità femminile, sottile e inesorabile, che governa l’ordine domestico
mantenendo l’equilibrio fragile tra affetto e formalità. Tutto appare calibrato,
sorvegliato, e allo stesso tempo intriso di una grazia che profuma d’antico.
Benché la
futura carriera di Degas si articolerà soprattutto attorno ai suoi tre grandi
temi — il teatro, le corse e la danza — con questa opera egli si concede un
viaggio diverso, quasi introspettivo: esplora l’intimità familiare, i rapporti
psicologici, la complessità delle emozioni private. È la sua prima grande opera
profondamente personale, la più ampia e ambiziosa della giovinezza; e in essa
il desiderio di affermarsi e di sperimentare vibra con chiarezza, illuminato da
una luce gentile che accarezza volti e gesti, conferendo alla composizione un
ritmo discosto, quasi musicale, come se l’intera scena respirasse in un unico,
impercettibile battito.
La famiglia,
con il suo intreccio di memorie e tenerezze taciute, ritornerà a offrirsi al
pennello di Degas molti anni più tardi. Nel suo viaggio a Napoli del 1875-76 —
quel ritorno alle origini che profuma di mare quieto e di palazzi antichi —
l’artista compose il Ritratto di Henri Degas e della nipote Lucie, oggi
custodito all’Art Institute di Chicago. Henri, zio affettuoso e figura quasi
paterna, aveva accolto presso di sé la giovane Lucie, rimasta orfana: forse per
questo entrambi indossano abiti neri, segni di lutto, certo, ma anche simboli
di un’intimità raccolta, di una protezione amorevole che non ha bisogno di
parole.
Questo
ritratto, così misurato e così vibrante, testimonia con pudore aristocratico il
legame silenzioso e profondo tra zio e nipote; rinnova, ancora una volta, la
straordinaria facoltà di Degas di narrare la famiglia attraverso
l’impercettibile eloquenza degli sguardi, la delicatezza dei gesti, l’armonia
della composizione. Ogni pennellata sembra farsi sillaba di una poesia visiva,
lieve e musicale, che respira nel silenzio e vi fiorisce — come se la pittura
stessa custodisse il mistero dei sentimenti più intimi.
Massimo Capuozzo




,_1875-76.jpg)
Nessun commento:
Posta un commento