giovedì 13 dicembre 2012

La giara: dalla novella alla commedia di Massimo Capuozzo


La giara è un atto unico del 1916, ripreso dalla novella omonima composta nel 1906 e pubblicata il 20 ottobre 1909 sul Corriere della Sera ed in seguito nella raccolta Terzetti del 1912, edizione Treves, per confluire in seguito nel dodicesimo volume della raccolta delle Novelle per un anno, edizione Treves e seguenti.
La commedia fu rappresentata per la prima volta nella versione siciliana col titolo A’ giarra al Teatro Nazionale di Roma dalla compagnia di Angelo Musco il 9 luglio 1917. Il pezzo ritornò ancora sul palcoscenico in versione italiana il 30 marzo del 1925, con un testo scritto presumibilmente nello stesso anno, sempre a Roma, in quasi contemporanea con la prima edizione, avvenuta quest’ultima assieme agli altri due atti unici Sagra del Signore della Nave e L’altro figlio. Il testo fu poi incluso nel 1933 nelle Maschere Nude, edizione Bemporad.
La storia rappresentata ripercorre con umorismo molti dei temi cari allo scrittore, come la molteplicità dei punti di vista, l'ambiente siciliano ed i conflitti interpersonali. A proposito di questa storia, il compianto Italo Borzi dice che essa, «di gusto campestre e giocoso, vive tutta nel contrasto fra due personaggi di opposto carattere, grotteschi rappresentanti di una civiltà contadina, vivacemente messa in evidenza dal colorito dialogo» fra un commerciante di nome Lollò, detto anche Zirafa e Zi’ Dima di mestiere conciabrocche.
Don Lollò compra una giara grande “nuova fiammante”, pronta a contenere dell’olio, ma purtroppo si rompe, perciò, per aggiustarla, è chiamato zi’ Dima, un artigiano inventore di un preparato ancora non patentato. La giara, larga di pancia e stretta di bocca, non permette più al conciabrocche di uscire, lui che dentro vi è entrato solo per dare i punti come voleva Don Lollò, perciò decide di rimanerci dentro. Dal canto suo, don Lollò si rifiuta di liberarlo, perchè ciò significherebbe rompere la giara per questo si reca dall’avvocato che gli dice di rompere la giara, chiedendo, però, il risarcimento dei danni al prigioniero incastrato. Alloggio abusivo o sequestro di persona? Ne nasce un paradossale caso che diverte l’avvocato Scimè ed esaspera sempre più don Lollò.
Lasciato dentro, i contadini organizzano un baccanale attorno alla giara abitata: «Questa volta non potè più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e…con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, la giara andò a spaccarsi contro un olivo».
Zi’ Dima è libero ed ha la meglio su don Lollò, sconfitto dall’ira. Ultime parole, alle quali occorrerebbe aggiungere un poema e che, nella loro essenzialità, di aforisma non hanno bisogno di nulla, sono e la vinse Zi’ Dima.
La novella, senza alcuna interruzione di tipo tipografico o narrativo, lungo un arco cronologico di poco più di dodici ore circa, durante la stagione autunnale (periodo della bacchiatura delle ulive), in una località siciliana non meglio precisata. Dopo un incipit dal sapore di prefazione, sulla buona annata che aveva reso necessario l’acquisto di una giara nuova, è descritto il carattere iracondo e permaloso del primo protagonista Don Lolò.
La bacchiatura era poi cominciata, ma la giara nuova è misteriosamente trovata rotta.
Inizia qui l’azione vera e propria, che è poi fatta dal contrasto fra i due coprotagonisti. Don Lollò, sanguigno, violento, forte della propria posizione socio-economica, diffidente e suscettibile. La descrizione delle personalità di don Lollò è ottenuta attraverso sequenze narrative e flashback: irascibile e avaro, particolarmente attaccato alle sue ricchezze, per ogni cosa, litiga con gli altri “per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta nel murello di cinta,  gridava che gli sellassero la mula per correr in città per fare gli atti presso un avvocato”.
Al momento della rottura della giara, è già inferocito verso i suoi contadini, colpevolizzandoli dell’accaduto. Zi’ Dima, il conciabrocche, compare solo dopo in seguito alla disgrazia della giara povero diavolo taciturno ed amareggiato dalla diffidenza che lo circonda, ma fiero della propria abilità di lavoratore. Qui le sequenze narrative sono alternate a sequenze più dialogiche che sottolineano il divario tra i due. Da un lato troviamo don Lollò, irragionevole e dall’altro il silenzioso Zi’ Dima, che ha pazienza, non ha fretta, non si smuove per niente. Se nel primo si riscontra un carattere estroverso, il secondo è un mistero: lo stesso Pirandello lo definisce particolarmente silenzioso e misterioso, un miscuglio di tristezza e di scontrosità innata, paragonato ad un vecchio ceppo di olivo. Entrambi sono umili lavoratori, ma don Lollò si crede superiore e marca il divario di classe sociale, comandando il povero Zi’ Dima. Anzi, una frase molto significativa è quella detta dal contadino: “chi è sopra comanda, chi è sotto si danna”.
L’incontro/scontro fra i due appare scandito in due tempi ben distinti: nel primo il vincitore è Don Lollò che esercita la legge del più forte, costringendo il conciabrocche a dare anche i punti oltre ad usare il mastice, nel secondo il vincitore definitivo è Zi’ Dima e la sua astuzia temporeggiatrice, che lascia all’avversario lo scorno e il danno.
I contadini sono invece personaggi  che agiscono conoscendo già don Lollò, svolgono il loro dovere e rendono la situazione ancora più comica perché organizzano feste per zi’ Dima, intrappolato nella giara, cantano e ballando intorno ad essa.

La giara
Piena anche per gli olivi quell'annata. Piante massaje, cariche l'anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.
Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l'olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d'uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa.
Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non l'attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d'onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s'era mezzo rovinato.
Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.
Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: - Sellate la mula! - Ora, invece: - Consultate il calepino! -
E Don Lollò rispondeva:
- Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d'un cane!
Quella bella giara nuova, pagata quattr'onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s'era mai veduta. Allogata in quell'antro intanfato di mosto e di quell'odore acre e crudo che cova nei luoghi senz'aria e senza luce, faceva pena.
Da due giorni era cominciata l'abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un'oliva, che fosse un'oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo.
Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l'ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti.
- Guardate! guardate!
- Chi sarà stato?
- Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato!
Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne.
Ma il secondo:
- Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel'abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti!
Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò:
- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell'uomo sempre infuriato.
- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando:
- Sangue della Madonna, me la pagherete!
Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto:
- La giara nuova! Quattr'onze di giara! Non incignata ancora!
Voleva sapere chi gliel'avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana!
Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l'avrebbe rimessa su, nuova. C'era giusto Zi' Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell'alba, Zi' Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr'otto, la giara, meglio di prima.
Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch'era tutto inutile; che non c'era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all'alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi' Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle.
Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l'uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d'inventore non ancora patentato.
Voleva che parlassero i fatti, Zi' Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto.
- Fatemi vedere codesto mastice - gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza.
Zi' Dima negò col capo, pieno di dignità.
- All'opera si vede.
- Ma verrà bene?
Zi' Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l'attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi' Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull'aja. Disse:
- Verrà bene.
- Col mastice solo però - mise per patto lo Zirafa - non mi fido. Ci voglio anche i punti.
- Me ne vado - rispose senz'altro Zi' Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.
Don Lollò lo acchiappò per un braccio.
- Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l'olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.
Zi' Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d'arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice.
- Se la giara - disse - non suona di nuovo come una campana...
- Non sento niente, - lo interruppe Don Lollò. - I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare?
- Se col mastice solo...
- Càzzica che testa! - esclamò lo Zirafa. - Come parlo? V'ho detto che ci voglio i punti. C'intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi.
E se ne andò a badare ai suoi uomini.
Zi' Dima si mise all'opera gonfio d'ira e di dispetto. E l'ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.
- Coraggio, Zi' Dima! - gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.
Zi' Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt'in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc'anzi. Prima di cominciare a dare i punti:
- Tira! - disse dall'interno della giara al contadino. - Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone!
- Chi è sopra comanda, Zi' Dima, - sospirò il contadino - e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti.
E Zi' Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l'uno di qua e l'altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un'ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo.
- Ora ajutami a uscirne, - disse alla fine Zi' Dima.
Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi' Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora - non c'era via di mezzo - per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.
Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi' Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito.
Fatemi uscire! - urlava -. Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!
Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.
- Ma come? là dentro? s'è cucito là dentro?
S'accostò alla giara e gridò al vecchio:
- Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio... così! e la testa... su... no, piano! Che! giù... aspettate! così no! giù, giù... Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! - si mise a raccomandare tutt'intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. - Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo... La mula!
Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.
- Bella! Rimessa a nuovo... Aspettate! - disse al prigioniero. - Va' a sellarmi la mula! - ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po' che mi capita! Questa non è giara! quest'è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!»
E accorse a regger la giara, in cui Zi' Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.
- Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell'interesse vostro... Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?
- Non voglio nulla! - gridò Zi' Dima. - Voglio uscire.
- Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.
Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:
- Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l'abbia dato.
Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava.
Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell'avvocato; ma gli toccò d'attendere un bel po', prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.
- Che c'è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!
Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com'era stato, per farci su altre risate. "Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te... tene... tenerlo là dentro... ah ah ah... ohi ohi ohi... tenerlo là dentro per non perderci la giara?"
- Ce la devo perdere? - domandò lo Zirafa con le pugna serrate. - Il danno e lo scorno?
- Ma sapete come si chiama questo? - gli disse infine l'avvocato. - Si chiama sequestro di persona!
- Sequestro? E chi l'ha sequestrato? - esclamò lo Zirafa. - Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io?
L'avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall'altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.
- Ah! - rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!
- Piano! - osservò l'avvocato. - Non come se fosse nuova, badiamo!
- E perché?
- Ma perché era rotta, oh bella!
- Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!
L'avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.
- Anzi - gli consigliò - fatela stimare avanti da lui stesso.
- Bacio le mani - disse Don Lollò, andando via di corsa.
Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi' Dima s'era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi.
Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.
- Ah! Ci stai bene?
- Benone. Al fresco - rispose quello. - Meglio che a casa mia.
- Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?
- Come me qua dentro? - domandò Zi' Dima.
I villani risero.
- Silenzio! - gridò lo Zirafa. - Delle due l'una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com'è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.
Zi' Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:
- Rispondo. Se lei me l'avesse fatta conciare col mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no.
- Un terzo? - domandò lo Zirafa. - Un'onza e trentatré?
- Meno sì, più no.
- Ebbene, - disse Don Lollò. - Passi la tua parola, e dammi un'onza e trentatré.
- Che? - fece Zi' Dima, come se non avesse inteso.
- Rompo la giara per farti uscire, - rispose Don Lollò - e tu, dice l'avvocato, me la paghi per quanto l'hai stimata: un'onza e trentatré.
- Io pagare? - sghignazzò Zi' Dima. - Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi.
E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l'accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara.
Don Lollò ci restò brutto. Quest'altro caso, che Zi' Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui nè l'avvocato l'avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera.
- Ah, sì - disse. - Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l'uso della giara.
Zi' Dima cacciò prima fuori un'altra boccata di fumo, poi rispose placido:
- Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare... neanche per ischerzo, vossignoria!
Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.
- Vede che mastice? - gli disse Zi' Dima.
- Pezzo da galera! - ruggì allora lo Zirafa. - Chi l'ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!
E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi' Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all'aperto, su l'aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c'era una luna che pareva fosse raggiornato.
A una cert'ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d'inferno. S'affacciò a un balcone della cascina, e vide su l'aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi' Dima, là dentro, cantava a squarciagola.
Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.
E la vinse Zi' Dima.

La pièce teatrale si svolge sulla stessa linea narrativa della novella, cui però apporta sostanziali modifiche di carattere temporale ed organizzativo, in base alle esigenze della messa in scena. Motivo per cui la parte iniziale della novella, che era di tipo esplicativo della situazione, è affidata ad una serie di personaggi che svolgono un po’ la funzione del coro greco che era appunto di introduzione e commento: sono quindi inventati un garzone, due contadini, tre contadine, un mulattiere, un ragazzetto.
In secondo luogo è stata condensata l’azione al tempo reale della rappresentazione che va dal tramonto al sopraggiungere della notte: la vicenda si svolge in poco tempo, dalla rottura della giara. Sono di conseguenza ovviate le esigenze di spostamento dei personaggi, facendo in modo che avvocato e conciabrocche si trovino già in loco al momento del bisogno: avvocato Scimè ospite di Zirafa per un periodo di riposo e Zi’ Dima perché in giro da quelle parti per esigenze di lavoro. Inoltre la didascalia stessa tende ad informarci su ambientazione e tempo della rappresentazione. Campagna siciliana. Oggi. Spiazzo erboso davanti alla cascina di Don Lolò Zirafa in vetta a un poggio.
Nella novella ci sono alcune citazioni del passato che nella versione teatrale sono raccontate dai personaggi. Nella versione teatrale, Zi’ Dima ne esce ancora vivo e grida vittoria. Nella novella, invece, questo particolare non viene specificato poiché finisce solamente con la frase: "E la vinse Zi’ Dima".
Molti critici attribuiscono il primato cronologico alla stesura in dialetto, leggendo in questa luce la presenza nella stesura in lingua di termini dialettali italianizzati. In ogni caso bisogna tener presente che ci troviamo in un’epoca recentemente postunitaria, in un periodo in cui va cambiando lo stesso significato di molti vocaboli, che pur rimangono.
Quattro onze ballanti e sonanti; dove onze, variante di once, è la moneta medioevale in uso in Sicilia fino all’unificazione e, presumibilmente, per un certo periodo anche dopo. Inoltre l’espressione seguente è in participio presente, per sottolineare il pagamento immediato.
Fu allogata, collocata, nel palmento, ampia vasca per la pigiatura dell’uva e la fermentazione del mosto; qui indicante per metonimia il locale entro cui si trova a vasca.
Da due giorni era cominciata la bacchiatura, la raccolta delle olive, scosse con un bastone, il bacchi.
Costa, terreno in pendio; favata, piantagione delle fave.
Spettorato, camicia aperta sul petto
Con gli occhi lupini, sguardo da lupo, spesso in Pirandello ritornano le similitudini con il mondo animale, per una più efficace caratterizzazione per personaggio in questione.
Lo impiccò al muro, lo tenne affisso, sollevato contro  il muro
Sangue della Madonna, meglio illustra il carattere iracondo e bestemmiatore di Zirafa
Facce terrigene bestiali dei contadini, hanno il colore della terra, ed i lineamenti stravolti dalla paura. Non più umani.
Sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto, con riferimento alle manifestazioni di dolore di origine greca arcaica poi trasferita all’Italia meridionale colonizzata dai Greci; le prefiche, che venivano anche pagate. Un tale riferimento in questo contesto indica lo studio antropologico alla base di una storia che, al primo impatto, potrebbe apparire di carattere esclusivamente comico.
Suonava come una campana: modo di dire per indicare che non era crepata, così come non indignata ancora: non utilizzata; e si poteva sanare: riparare.
Sconfidenza, sta per mancanza di fiducia nell’altro; alieno: anche nell’uso assoluto di “indifferente”; inventore nonancora patentato: non riconosciuto ufficialmente;doveva guardarsi davanti e indietro: indica un po’ l’atteggiamento “genetico” della diffidenza meridionale.
Mise per patto: introduce un’espressione tipica del parlato, così come arie da Carlo Magno non implica necessariamente la conoscenza di tale personaggio storico, ma forse solo la popolarità dell’epopea carolingia diffusa in quella zona dall’pera dei pupi.
Cazzica, che testa! è invece eufemismo che serve a rendere l’idea della parola non detta, e ad evitare una lunga circollocuzione che non sortirebbe lo stesso effetto: da notare che non siamo ancora in un’epoca in cui sarebbe passato pressocchè inosservato l’utilizzo della parola “cazzo”. Da notare inoltre l’utilizzo fatto dei proverbi, come chi è sopra comanda, chi è soto si danna, tradotto dal siciliano, dove è reso più “sonoro” dalla rima cummanna/danna; e che può assurgere a “morale” della prima parte della novella, poi completamente rovesciata nel finale, come a dire che non sempre i proverbi basati su esperienze di vita possono assurgere a dogma universale.
Nella novella come nella commedia, traspare chiaramente la tematica della roba, ripresa dal Verismo verghiano, descritta con il morboso attaccamento di Don Lolò ai beni materiali: la sua funzione nella commedia, comunque, supera la visione del realismo verista, creando invece un effetto tragicomico. Alla figura di Don Lolò viene contrapposta quella di Zi' Dima, privo di poteri e risorse materiali, ma consapevole della dignità del lavoro che egli esegue con onestà e scrupolo e che considera unico per l'uso di quello che egli ritiene come una sorta di bene intellettuale: il suo miracoloso mastice. Nel rapporto antitetico tra due figure completamente diverse, entrambe poco conscie dei propri limiti, ma accomunate dalla stessa cocciutaggine contadina e mosse dai loro istinti, Pirandello riesce a creare una comicità basata su una situazione grottesca: una circostanza nella quale ciascuno dei due diventa al contempo debitore e creditore dell'altro. Dato che nessuno dei due contendenti può o vuole andare incontro all'altro, si arriva ad una situazione di stallo in cui non è più possibile distinguere chi abbia torto e chi ragione. Si tratta di un paradosso paragonabile a quello che ritroviamo ne Il giuoco delle parti pirandelliano. Il ritratto di Zi' Dima è di una immediatezza mirabile. Povero, dignitoso e chiuso nel suo orgoglio d'inventore non ancora patentato, è l'opposto di don Lollò che grida sempre, gesticola, si rincalca il cappellaccio bianco, si percuote il capo e le guance, sbraita: due macchiette, don Lollò e Zi' Dîma, d'un umorismo vivo e pittoresco. La posizione dei due protagonisti è questa: se don Lollò non fa uscire Zi' Dima dalla giara cade nel sequestro di persona..., ma per farlo uscire deve romperla..., perciò la vuole pagata da Zi' Dima..., questi però non vuol saperne di pagare: vi sarebbe piuttosto rimasto dentro fino a farvi i vermi..., ma in questo caso don Lollò lo avrebbe denunciato per alloggio abusivo. È uno dei tanti casi presentati dal Pirandello, dove all'elemento grottesco e comico, che nel racconto è predominante, si accompagna un sorriso amaro, appena accennato, di fronte alla squallida infelicità fisica e morale di Zi' Dima, il quale si dibatte, anche lui, tra la realtà dura della vita e l'illusione: il suo mastice nuovo, miracoloso, non gli darà il benessere e la gloria sperata..., ma finisce col prendere gusto anche lui alla sua bizzarra avventura, ridendone "con la gaiezza mala dei tristi".
Commedia in un atto unico del 1916 ripresa dalla novella composta nel 1906 e pubblicata nella raccolta Novelle per un anno nel 1917.
Vicino ai canoni del verismo, “La giara” sa essere completo racconto, felice rappresentazione di caratteri e di paesaggi. Da un punto di vista narrativo, non ideologico, è quanto di meglio Pirandello abbia scritto.

La giara
PERSONAGGI
Don Lolò Zirafa
Zi' Dima Licasi, conciabrocche
L'avvocato Scimè
'Mpari pè, garzone
Tararà, Fillicò, contadini abbacchiatori
La 'gnà Tana, Trisuzza, Carminella, contadine raccoglitrici d'olive
Un Mulattiere
Nociarello, ragazzo di undici anni, contadino
Campagna siciliana. Oggi.
Spiazzo erboso davanti alla cascina di Don Lolò Zirafa in vetta a un poggio.
A sinistra è la facciata della cascina, rustica, a un sol piano.
La porta, rossa, un po' stinta, è nel mezzo; sopra la porta, un balconcino.
Finestre sopra e sotto: quelle di sotto, con grate.
A destra, un secolare olivo saraceno; e, attorno al tronco scabro e stravolto, un sedile di pietra, murato tutt'in giro.
Di là dall'olivo lo spiazzo scoscende con un viottolo.
In fondo, degradanti per il pendio del poggio, altri olivi.
È ottobre.
Al levarsi della tela, 'Mpari pè, sentendo un canto campestre delle donne, che vengono su per il viottolo a destra con ceste colme d'olive sul capo o tra le braccia, montato sul sedile attorno all'olivo saraceno grida:
'Mpari pè: O oh! Toppe senza chiave! E tu costà, moccioso! Piano, corpo di... badate al carico!
Le donne e Nociarello vengono su dal viottolo a destra, cessando il canto.
Trisuzza: O che vi piglia, 'Mpari pè?
La 'gnà Tana: Alla grazia! Avete imparato anche voi a sacramentare?
Carminella: Anche gli alberi di qui a poco si metteranno a bestemmiare in questa campagna.
'Mpari pè: Ah, vorreste che vi lasciassi seminare per terra le olive?
Trisuzza: Seminare? Io per me non ne ho lasciata cadere nemmeno una. 
'Mpari pè: Se Don Lolò, Dio liberi, s'affaccia là al suo balcone!
La 'gnà Tana: Eh, può anche starci affacciato dalla mattina alla sera! Chi attende al suo dovere, non ha nulla da temere.
'Mpari pè: Già, cantando col naso in aria.
Carminella: O che non si può più nemmeno cantare?
La 'gnà Tana: Che! Solo bestemmiare si può. Pare che abbiano scommesso, padrone e servitore, a chi le spara più grosse.
Trisuzza: Non so come Dio non gliela fulmini codesta cascina con tutti gli alberi attorno!
'Mpari pè: Eh via! finitela! Linguacce! Andate a scaricare e non la fate più lunga!
Carminella: Si séguita a raccogliere?
'Mpari pè: O che è mezza festa, che volete levar mano? C'è ancora tempo per due viaggi. Sù, leste, andate, andate.
Spinge verso l'angolo della cascina a sinistra le donne e Nociarello.
Qualcuna, andando, riprende a cantare, per dispetto.
'Mpari pè, rivolto verso il balcone, chiama: Don Lolò!
Don Lolò (dall'interno a terreno): Chi mi vuole?
'Mpari pè: L'avverto che sono arrivate le mule col concime.
Don Lolò (venendo fuori, sulle furie. È un pezzo d'uomo sui quaranta, dagli occhi di lupo, sospettosi; iracondo. Porta in capo un vecchio cappellaccio bianco a larghe tese e agli orecchi due cerchietti d'oro. Senza giacca, con una camicia dì ruvida flanella, a quadri, violacea, aperta sul petto irsuto; le maniche rimboccate): Le mule, a quest'ora? Dove sono? Dove l'hai avviate?
'Mpari pè: Sono di là, stia tranquillo. Il mulattiere vuol sapere dove deve scaricare.
Don Lolò: Ah si? Scaricare: senza ch'io abbia veduto che cosa m'ha portato? E in questo momento non posso: sto parlando con l'avvocato.
'Mpari pè: Ah, della giara?
Don Lolò (squadrandolo): Ohi, dico, chi t'ha promosso caporale? 
'Mpari pè: No, dicevo...
Don Lolò: Tu non devi dir nulla; obbedire, e mosca! Vorrei sapere per qual ragione t'è potuto venire in mente ch'io stia parlando della giara con l'avvocato.
'Mpari pè: Perché lei non sa in che apprensione ‑ ma che dico, apprensione? ‑ in che terrore vivo per questa giara nuova, a vederla esposta là nel palmento.
Indica a sinistra, verso la cascina.
La levi, la levi, in nome di Dio!
Don Lolò (urlando): No! T'ho detto no cento volte! Deve star lì, e nessuno deve toccarla!
'Mpari pè: Con questo va e vieni di donne e di ragazzi, messa com'è accanto alla porta!
Don Lolò: Sangue di... hai giurato di farmi andar via col cervello?
'Mpari pè: Purché poi non abbia a prendersi un dispiacere.
Don Lolò: Non voglio che mi si esca in altri discorsi, mentre n'ho cominciato uno di là con l'avvocato. Dove vuoi che la metta codesta giara? Nella dispensa non c'è posto, se prima non si leva la botte vecchia; e per ora non ho tempo.
Sopravviene da destra Il mulattiere.
Il mulattiere: Oh, insomma, dove debbo scaricare questo concime? A momenti è bujo,
Don Lolò: Eccone qua un altro! Sant'Aloe t'ajuti a romperti il collo, tu e tutte le tue bestie! Te ne vieni a quest'ora?
Il mulattiere: Prima non ho potuto.
Don Lolò: E io gatte nel sacco non ne ho mai comperate. E voglio che tu i mucchi sul maggese me li faccia dove e come ti dico io; e a quest'ora è troppo tardi.
Il mulattiere: Oh! sa la nuova, Don Lolò. Io scarico le mule dove vien viene, dietro il muro di cinta, e me ne vado.
Don Lolò: Pròvati! Voglio vederti!
Il mulattiere: Ecco che glielo faccio vedere!
S'avvia infuriato.
'Mpari pè (trattenendolo): Eh via, che furie!
Don Lolò: Lascialo, lascialo andare!
Il mulattiere: Se egli ha la testa calda, io l'ho più calda di lui! Non ci si può aver da fare! Ogni volta, una lite!
Don Lolò: Eh, caro mio, con me, chi vuol aver da fare ‑ guarda ‑ cava di tasca un libro di piccolo formato, legato in tela rossa c'è questo. Lo sai che è? Ti sembra un libriccino da messa? È il Codice Civile! Me l'ha regalato il mio avvocato, che ora è qua, a villeggiatura da me. E ho imparato a leggerci, sai, in questo libriccino, e a me non me la fa più nessuno, neppure il Padreterno! Contemplato tutto, qua: caso per caso. E me lo pago ad anno, io, l'avvocato!
'Mpari pè: Eccolo qua!
Esce dalla porta della cascina l'avvocato Scimè con una vecchia paglietta in capo e un giornale in mano, aperto.
Scimè: Che cos'è, Don Lolò?
Don Lolò: Signor avvocato, quest'ignorante se ne viene al bujo con le mule a portarmi un carico di concime per il maggese, e invece di chiedermi scusa –
Il mulattiere (cercando d'interrompere, rivolto all'avvocato): ‑ gli ho detto che prima non ho potuto –
Don Lolò (seguitando): ‑ mi ha minacciato –
Il mulattiere: ‑ io? non è vero! –
Don Lolò: ‑ tu, sì, di buttarmelo dietro il muro –
Il mulattiere: ‑ ma perché lei... –
Don Lolò: ‑ io, che cosa? Lo voglio scaricato sul posto, come si deve, a mucchi, tutti d'una misura.
Il mulattiere: E andiamo! Perché non viene? C'è ancora due ore di sole signor avvocato. È che lui vorrebbe soppesarselo in mano, con rispetto parlando, pallottola per pallottola. L'avessi a conoscere!
Don Lolò: Oh, lascia star l'avvocato, ch'è qua per me e non per te! Non gli dia retta, signor avvocato: se ne vada giù per il viottolo là, al suo solito; si metta a sedere sotto il gelso, e si legga in pace il suo giornale. Verrò più tardi a seguitar con lei il discorso della giara. Al mulattiere: Su, su, andiamo. Quante mule sono?
S'avvia col mulattiere verso destra.
Il mulattiere (seguendolo): Non s'era convenuto per dodici? E son dodici.
Scompare con Don Lolò dietro la cascina.
Scimè (alzando le mani e scotendole in aria): Ah, via, via, via! Domattina all'alba, via a casa mia! Mi sta facendo girar la testa come un arcolajo!
'Mpari pè: Non dà requie a nessuno. E le assicuro che un bel regalo gli ha fatto vossignoria con quel libretto rosso! Prima, alla minima contrarietà, gridava: «Sellatemi la mula!».
Scimè: Già, per correre in città, al mio studio, e farmi ogni volta la testa come un cestone. Caro mio, gliel'ho proprio regalato per questo, il Codice. Se lo cava di tasca, ci si scapa a cercare da sé e lascia me in pace. M'ha ispirato il diavolo, piuttosto, a venire a passare qua una settimana! Ma appena seppe dell'ordinazione del medico, che stessi in riposo per un po' di giorni in campagna, mi mise in croce, mi mise, perché accettassi la sua ospitalità. Gli posi per patto che non dovesse parlarmi di nulla. Da cinque giorni mi rompe l'anima parlandomi d'una giara... di non so che giara...
'Mpari pè: Sissignore, della giara grande, per l'olio, arrivata ch'è poco da Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricano. Uh, bella: grossa così, alta a petto d'uomo: pare una badessa. O che vorrebbe attaccarla anche col fornaciajo di là?
Scimè: E come no? Perché gliel'ha fatta pagar quattr'onze, e dice che se l'aspettava più grande.
'Mpari pè (con stupore): Più grande?
Scimè: Non mi parla d'altro da cinque giorni che son qui.
S'avvia per il sentieruolo a destra: Ah, ma domani, via, via, via. Scompare per il sentieruolo.
Dall'interno, lontano, per le campagne si ode il bercio cantilenato di Zi' Dima Licasi: «Conche, scodelle da accomodare!».
Dal sentieruolo a destra sopravvengono con scala e canne in collo Tararà e Fillicò.
'Mpari pè (vedendoli): Oh, e come mai? Avete smesso d'abbacchiare?
Fillicò: Ce l'ha ordinato il padrone, passando con le mule.
'Mpari pè: E vi disse anche d'andar via?
Tararà: No, che! Ci disse di trattenerci per fare non so che lavoro nella dispensa.
'Mpari pè: Di levarne la botte vecchia?
Fillicò: Già. Per dar posto alla giara nuova.
'Mpari pè: Ah, bene! Son contento che m'abbia dato ascolto almeno una volta! Venite, venite con me.
S'avvia coi due verso sinistra; ma sopravvengono da dietro la cascina Trisuzza,
La 'gnà Tana e Carminella con le ceste vuote.
La 'gnà Tana (vedendo i due abbacchiatori): E come? S'è finito d'abbacchiare?
'Mpari pè: Finito, finito, per oggi.
Trisuzza: E nojaltre, che si fa? 
'Mpari pè: Aspettate che il padrone torni e ve lo dica.
Carminella: Così con le mani in mano?
'Mpari pè: Che volete ch'io vi dica? Andate a scartare nel magazzino. 
La 'gnà Tana: Ah, senza un ordine suo non m'arrischio.
'Mpari pè Mandate allora qualcuno a prender l'ordine.
Via da sinistra con Tararà e Fillicò.
Carminella: Vai, vai tu, Nociarello.
La 'gnà Tana: Gli dirai così: gli uomini hanno smesso d'abbacchiare; le donne vogliono sapere che cosa han da fare. 
Trisuzza: Se vuole che si mettano a scartare. Digli così.
Nociarello: Così. Va bene.
Carminella: Corri!
Nociarello, via di corsa per il sentieruolo a destra.
Ritornano in scena da sinistra, prima uno, poi l'altro, sbalorditi, spaventati, con le mani per aria, Fillicò, Tararà e 'Mpari pè.
Fillicò: Vergine Santa, ajutateci voi!
Tararà: Io non ho più sangue nelle vene!
'Mpari pè: Castigo di Dio! Castigo di Dio!
Le donne (a una voce, facendosi attorno): ‑ Che è stato? ‑ Che avete? ‑ Che è accaduto?
'Mpari pè: La giara! la giara nuova!
Tararà: Spaccata!
Le donne (a una voce): ‑ La giara? ‑ Davvero? ‑ Oh Madre santa!
Fillicò: Spaccata a metà! Come se le avessero dato con la mannaja: zà!
La 'gnà Tana: E com'è possibile!
Trisuzza: Non l'ha toccata nessuno!
Carminella: Nessuno! Ma chi lo sentirà adesso Don Lolò?
Trisuzza: Farà cose da pazzi!
Fillicò: lo per me lascio tutto e me ne scappo.
Tararà: Che? ve ne scappate? Sciocco! E chi gli leverà dal capo allora che non siamo stati noi? Qua fermi tutti! E voi (a 'Mpari pè:) lo andrete a chiamare. No, no: lo chiamerete di qua; gli darete una voce.
'Mpari pè (montando sul sedile attorno all'olivo): Ecco, sì, di qua.
Gridando, con una mano presso la bocca, a più riprese: Don Lolò! Ah, Don Lolòoo! Non sente: va gridando come un pazzo dietro le mule. Don Lolòoo! È inutile! Meglio farci una corsa!
Tararà: Ma in nome di Dio, non gli fate nascere il sospetto...
'Mpari pè: State tranquilli! Come potrei in coscienza incolpar voi?
Via di corsa per il sentieruolo.
Tararà: Oh, tutti d'accordo, noi: una parola sola: fermi, a tenergli testa: la giara s'è rotta da sé.
La 'gnà Tana: S'è dato più d'una volta –
Trisuzza: ‑ sicuro! che le giare nuove si rompano da sé!
Fillicò: Perché tante volte ‑ sapete com'è? ‑ nel cuocerle in fornace, qualche favilla vi rimane presa dentro, che poi tutt'a un tratto pam! scoppia.
Carminella: Proprio così! Come se le tirassero una schioppettata, accenna un segno di croce: Dio ne liberi e scampi.
Si odono dall'interno, a destra, le voci di Don Lolò e di 'Mpari pè.
Voce di Don Lolò: Voglio sapere chi è stato, per la Madonna!
Voce di 'Mpari pè: Nessuno, glielo posso giurare!
Trisuzza: Eccolo qua!
La 'gnà Tana: Signore, ajutateci!
Appare dal sentieruolo, pallido, infuriato, Don Lolò, seguito da 'Mpari pè e Nociarello.
Don Lolò (avventandosi prima contro Tararà, poi contro Fillicò, agguantandoli per il petto della camicia e scrollandoli): Sei stato tu? Chi è stato? O tu o tu, uno dei due dev'essere stato, perdio, e me la pagherete!
Tararà e Fillicò (contemporaneamente, divincolandosi): Io? Lei è pazzo! Mi lasci! Si stia quieto con le mani, o per come è vero Dio...
E contemporaneamente, attorno, le donne e 'Mpari pè, tutti in coro:
Le donne e 'Mpari pè ‑ S'è rotta da sé! ‑ Non ci ha colpa nessuno! ‑ S'è trovata rotta! ‑ Gliel'ho detto e ripetuto!
Don Lolò (ribattendo, ora all'uno ora all'altro): Ah sono pazzo? ‑ Eh già, tutti innocenti! ‑ S'è rotta da sé! La farò pagare a tutti quanti! ‑ Andatela a prendere intanto e portatela qua!
'Mpari pè, Tararà e Fillicò corrono a prendere la giara.
Don Lolò: Alla luce, se c'è segno d'urto o di botta, si vedrà. E se c'è, vi salto alla gola e vi mangio la faccia! Me la pagherete tutti quanti, uomini e donne!
Le donne (a una voce): ‑ Che? Noi? Lei farnetica! ‑ Vuol che ne rispondiamo anche noi? Noi non l'abbiamo nemmeno guardata!
Don Lolò: Siete entrate e uscite dal palmento anche voi!
Trisuzza: Eh, già, le abbiamo rotto la giara, strusciandola così con la sottana!
Si prende con una mano la sottana e smorfiosamente fa l'atto di sbattergliela su una gamba.
Intanto 'Mpari pè, Tararà e Fillicò rientrano in iscena da sinistra recando la giara spaccata.
La 'gnà Tana: Oh peccato! Guardatela!
Don Lolò (levando le disperazioni a modo di quelli che piangono un parente morto): La giara nuova! quattr'onze di giara! E dove metterò l'olio dell'annata? Oh bella mia giara! È stata invidia o infamità! Quattr'onze buttate via! E questa ch'era annata d'olive! Ah Dio, che cosa! E come farò?
Tararà: Ma no, no: guardi –
Fillicò: ‑ si può sanare –
'Mpari pè: ‑ se n'è staccato un pezzo –
Tararà: ‑ un pezzo solo –
Fillicò: ‑ spacco netto –
Tararà: ‑ forse era incrinata.
Don Lolò: Ma che incrinata! Sonava come una campana!
'Mpari pè: E vero. Ne ho fatto io la prova.
Fillicò: Le ritorna come nuova, dia ascolto a me, se chiama un buon conciabrocche; non si vedrà più neanche il segno della saldatura.
Tararà: Chiami Zi' Dima, Zi' Dima Licasi! Dev'essere qua presso; l'ho sentito gridare.
La 'gnà Tana: Bravo mastro, fino: ha un mastice miracoloso, che non ci può neanche il martello, quando ha fatto presa. Corri, Nociarello: è qua accanto, alla chiusa di Mosca; va' a chiamarlo!
Nociarello, via di corsa, per la sinistra.
Don Lolò (gridando): Statevi zitti! M'avete stordito! Non credo a codesti miracoli! Per me la giara è persa.
'Mpari pè: Eh, glielo dicevo io!
Don Lolò (su tutte le furie): Che mi dicevi tu, ménchero, che mi dicevi, se è vero che la giara s'è rotta da sé, senza che nessuno l'abbia toccata? Anche se custodita in un tabernacolo, si sarebbe rotta lo stesso, se s'è rotta da sé!
Tararà: È giusto! Non dite parole inutili!
Don Lolò: Mi fa dannare, quest'imbecille!
Fillicò: Vedrà che tutto s'accomoda, con poche lire! E lei sa che dura più una brocca rotta che una sana.
Don Lolò: Per l'anima di tutti i diavoli: ho le mule a mezza costa col concime!
A 'Mpari pè: Che stai a fare tu qua, a guardarmi in bocca? Corri, va' a dare un occhio, almeno!
'Mpari pè, via per il sentieruolo.
Don Lolò: Ah, mi fuma la testa, mi fuma la testa! Che Zi' Dima e Zi' Dima! Con l'avvocato, piuttosto, devo intendermela! Che se si è rotta da sé, è segno che doveva aver qualche guasto. Sonava, però, sonava, quand'è arrivata! E me la son tenuta per sana. C'è la mia dichiarazione. Quattr'onze perdute. Ci posso far la croce.
Si presenta a sinistra Zi' Dima Licasi seguito da Nociarello
Fillicò: Ah, ecco qua Zi' Dima!
Tararà (piano a Don Lolò): Badi che non parla.
La 'gnà Tana (c.s. quasi misteriosamente): È di poche parole.
Don Lolò: Ah sì?
A Zi' Dima: E non usate neanche salutare, quando vi presentate davanti a qualcuno?
Zi' Dima: Ha bisogno della mia opera o del mio saluto? Della mia opera, credo. Mi dica che ho da fare e lo farò.
Don Lolò: O se le parole vi costano tanto, perché non le risparmiate anche agli altri? Non lo vedete qua che cosa avete da fare?
Gl'indica la giara.
Fillicò: Sanare questa bella giara, Zi' Dima, col vostro mastice!
Don Lolò: Dicono che fa miracoli. L'avete fabbricato voi?
Zi' Dima lo guarda scontroso e non risponde.
Don Lolò: Oh, rispondete e fatemelo vedere!
Tararà (di nuovo piano a Don Lolò): Se lei lo piglia così, non ne otterrà nulla.
La 'gnà Tana (c.s.): Non lo fa vedere a nessuno. Ne è geloso.
Don Lolò: E che è? Ostia consacrata? A Zi' Dima: Ditemi almeno se credete che la giara, accomodata, verrà bene.
Zi' Dima (che ha posato a terra la cesta e n'ha cavato un vecchio fazzoletto di cotone turchino tutto avvoltolato): Così subito? Io credo quando vedo. Mi dia tempo. 
Si mette a sedere per terra e comincia a svolgere pian piano, con molta cautela, il fazzoletto. Tutti lo guardano, attenti e curiosi.
La 'gnà Tana (piano a Don Lolò): Sarà il mastice!
Don Lolò: Io mi sento salire una cosa da qua.
(Indica la bocca dello stomaco.)
Tutti (appena da quel fazzoletto vien fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotti e legati con lo spago, scoppiando in una risata): - Uh, gli occhiali! - Chi sa che credevamo che fosse! - Credevamo il mastice! - Pare una capezza!
Zi' Dima (pulendo gli occhiali con una cocca del fazzoletto, li guarda; poi, inforcando gli occhiali, esamina la giara e dice): Verrà bene.
Don Lolò: Bum! Il tribunale ha emesso la sentenza. Ma vi avverto che di codesto vostro mastice, per quanto miracoloso, non mi fido. Ci voglio anche i punti.
Zi' Dima torna a guardarlo, poi, senza dir nulla, prende il fazzoletto, gli occhiali e li butta nella cesta rabbiosamente; afferra la cesta, se la rimette in ispalla e s'avvia.
Don Lolò: Ohi, dico, che fate?
Zi' Dima: Me ne vado.
Don Lolò: Messere e porco, così trattate?
Fillicò (trattenendolo): Eh via! Zi' Dima, pazienza!
Tararà (c.s.): Fate come vi comanda il padrone.
Don Lolò: Guardate un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, che non siete altro! Ci ho a metter l'olio là dentro, che trasuda. Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio anche i punti. Mastice e punti. Comando io.
Zi' Dima: Tutti così! Tutti così! Ignoranti! Sia pure una brocca o sia una conchetta, una ciotola o una tazzina: i punti! I denti della vecchia che digrignano e par che dicano: «Sono rotta e accomodata!». Offro il bene e nessuno ne vuole approfittare. E mi dev'esser negato di fare un lavoro pulito e a regola d'arte!
S'appressa a Don Lolò: Dia ascolto a me. Se questa giara non suona di nuovo come una campana, col solo mastice...
Don Lolò: V'ho detto di no! Io con costui non ci posso combattere!
A Tararà: Alla grazia! M'hai detto che parlava poco!
A Zi' Dima: È inutile che facciate la predica! Se tutti vi comandano i punti, è segno che a giudizio di tutti i punti ci vogliono.
Zi' Dima: Che giudizio! È ignoranza!
La 'gnà Tana: Anche a me ‑ sarà ignoranza ‑ ma mi sembra che ci vogliano, Zi' Dima.
Trisuzza: Certo, tengono meglio.
Zi' Dima: Ma bucano! Ci vuol tanto a capirlo? Ogni punto, due buchi; venti punti, quaranta buchi. Dove col mastice solo...
Don Lolò: Càzzica, che testa! Neanche un mulo! Bucheranno, ma ce li voglio! Sono io il padrone!
Rivolgendosi alle donne: Su, su, andiamo: vojaltre, a scaricare nel magazzino; agli uomini: e vojaltri, nella dispensa, a levar la botte vecchia; andiamo!
Li spinge verso la cascina.
Zi' Dima: Oh, e aspetti!
Don Lolò: C'intenderemo a lavoro finito. Non ho tempo da perdere con voi.
Zi' Dima: Vuol lasciarmi qua solo? Ho bisogno di qualcuno che m'ajuti a reggere il lembo spaccato. La giara è grossa.
Don Lolò: Ah, e allora ‑ a Tararà: ‑ rimani qua tu. A Fillicò: E tu vieni con me.
Via con Fillicò.
Le donne e Nociarello sono già andati via.
Zi' Dima si mette subito all'opera, con dispetto.
Cava dal cesto il trapano e comincia a fare i buchi alla giara e al lembo spaccato. Nel mentre Tararà gli parlerà:
Tararà: Manco male che l'ha presa cosà! Non ci so credere. Ho temuto che dovesse avvenire il finimondo stasera! Non s'amareggi il sangue, Zi' Dima. Ci vuole i punti? Lei ce li metta. Venti, trenta.
Zi' Dima lo guarda
Tararà: anche più? trentacinque?
Zi' Dima torna a guardarlo:
Tararà: E quanti, allora?
Zi' Dima: La vedi questa saettella di trapano? Come la muovo ‑ fru e fru, fru e fru ‑ me ne sento sfruconare il cuore.
Tararà: Mi dica, è vero che l'ebbe in sogno la ricetta del suo mastice?
Zi' Dima (seguitando a lavorare): In sogno, sì.
Tararà: E chi le apparve in sogno?
Zi' Dima: Mio padre.
Tararà: Ah, suo padre! Le apparve in sogno e le disse come doveva fabbricarlo?
Zi' Dima: Mammalucco!
Tararà: Io? Perché?
Zi' Dima: Sai chi è mio padre?
Tararà: Chi è?
Zi' Dima: Il diavolo che ti mangia.
Tararà: Ah, lei dunque è figlio del diavolo?
Zi' Dima: E questa che ho nella cesta è la pece che v'attaccherà tutti quanti.
Tararà: Ah, è nera?
Zi' Dima: È bianca. E me l'insegnò mio padre a farla bianca. Riconoscerete la sua potenza quando ci starete a bollire in mezzo. Ma laggiù è nera. Se accosti due dita, non le stacchi più; e se t'attacco il labbro col naso, resti abissino per tutta la vita.
Tararà: E com'è che lei la tocca e non le fa niente?
Zi' Dima: Sciocco, quando mai il cane ha morso il suo padrone?
Butta via il trapano e sorge in piedi: Vieni qua, adesso.
Gli fa reggere il lembo già forato: Reggi qua.
Cava dalla cesta una scatola di latta, la apre, ne trae una ditata di mastice e lo mostra: Guarda. Ti pare un mastice come un altro? Sta' a vedere.
Spalma il mastice prima sull'orlo della spaccatura della giara, poi lungo tutto il lembo.
Con tre o quattro ditate, così... appena appena... Reggi bene. Io mi caccio adesso qua dentro.
Tararà: Ah, da dentro?
Zi' Dima: Per forza, asino; se ho a fermare i punti bisogna che li fermi da dentro. Aspetta. Cerca nella cesta: Fil di ferro e tanaglie. 
Prende quello e queste e va a cacciarsi dentro la giara.
Oh, tu adesso... ‑ aspetta che mi metta bene ‑ alza codesto lembo e applicalo, a combaciare... piano... bravo... così. 
Tararà eseguisce e lo chiude dentro la giara. Poco dopo, sporgendo il capo dalla bocca della giara:
Zi' Dima: Ora tira, tira! È ancora senza punti. Tira con tutta la tua forza. Vedi? vedi se si stacca più? Neanche dieci paja di buoi potrebbero più staccarla! Va', va' a dirlo al tuo padrone!
Tararà: Ma scusi, zii Dima, è sicuro che potrà uscime, ora?
Zi' Dima: Come no? Ne son sempre uscito, da tutte le giare.
Tararà: Ma questa ‑ non so ‑ mi pare un po' stretta di bocca per lei. Si provi.
Ritorna dal viottolo a destra 'Mpari pè.
'Mpari pè: O che non può più uscirne?
Tararà (a Zi' Dima, dentro la giara): Piano. Aspetti. Di lato. 
'Mpari pè: Il braccio, fuori prima un braccio.
Tararà: No, il braccio, che dite?
Zi' Dima: Ma insomma, santo diavolo, com'è? Non posso più uscirne? 
'Mpari pè: Tanto grossa di pancia e tanto stretta di bocca!
Tararà: Sarebbe da ridere, dopo averla sanata, se non ne potesse più uscire davvero! 
Ride.
Zi' Dima: Ah tu ridi? Corpo di Dio, datemi ajuto!
E fa leva infuriato. 
'Mpari pè: Aspettate, non fate cosà! Vediamo se, piegandola...
Zi' Dima: No, peggio. Lasciate! L'intoppo è nelle spalle.
Tararà: Già, lei che n'abbonda un pochino da una parte!
Zi' Dima: Io? Se hai detto tu stesso che difetta di bocca la giara!
'Mpari pè: E ora come si fa?
Tararà: Ah, questa è da contare! da contare!
Ride e corre verso la cascina, chiamando: Fillicò! 'gnà Tana! Trisuzza! Carminella! Venite venite qua! Zi Dima non può più uscire dalla giara!
Arrivano da destra Fillicò, La 'gnà Tana, Trisuzza, Carminella, Nociarello.
Le donne e Nociarello (tutti a coro, ridendo, saltando, battendo le mani): Dentro la giara? ‑ Oh bella! E com'è stato? ‑ Non può più uscirne?
Zi' Dima (nello stesso tempo, come un gatto inferocito): Fatemi uscire! Prendete il martello da quella cesta!
'Mpari pè: Che martello! Voi siete pazzo! Deve dirlo il padrone.
Fillicò: Eccolo qua! Eccolo qua!
Sopravviene di corsa dalla destra Don Lolò.
Le donne (andandogli incontro): S'è murato dentro la giara! ‑ Da sé! ‑ Non può più uscirne!
Don Lolò: Dentro la giara?
Zi' Dima (nello stesso tempo): Ajuto! ajuto!
Don Lolò: E che ajuto posso darvi io, vecchio imbecille, se non avete preso la misura della vostra gobba... (tutti ridono) ...Prima di cacciarvi dentro?
La 'gnà Tana: Ma guardate che gli càpita, povero Zi' Dima!
Fillicò: È da cavarne i numeri, per com'è vero Dio!
Don Lolò: Aspettate. Piano. Cercate di trar fuori un braccio.
'Mpari pè: È inutile! S'è provato in tutti i modi.
Zi' Dima (che ha cavato fuori a stento un braccio): Ahi! Piano, mi sloga il braccio!
Don Lolò: Pazienza! Provate a...
Zi' Dima: No! Mi lasci!
Don Lolò: Che volete che vi faccia allora?
Zi' Dima: Prenda il martello e rompa la giara!
Don Lolò: Che? Ora che è sanata?
Zi' Dima: O che vorrebbe tenermi qua dentro?
Don Lolò: Bisogna prima vedere come s'ha da fare.
Zi' Dima: Che vuol vedere? Io voglio uscire! voglio uscire, perdio!
Le donne (a coro): ‑ Ha ragione! ‑ Non può mica tenerlo lì! ‑ Se non c'è altro rimedio!
Don Lolò: Mi fuma la testa! Mi fuma la testa! Calma, calma! Questo è un caso nuovo! Non capitato mai a nessuno!
A Nociarello: Vieni qua, ragazzo... No, meglio tu, Fillicò: corri là (gl'indica il sentieruolo a destra) sotto il gelso, c'è l'avvocato; fallo venir subito qua...
E come Fillicò va via, rivolgendosi a Zi' Dima che si dibatte nella giara: Fermo, voi! Agli altri: Tenetelo fermo! Non è giara, questa! è il diavolo! Di nuovo a Zi' Dima che scrolla la giara e vi si dimena dentro: Fermo, vi dico!
Zi' Dima: O la rompe lei, o a costo di rompermi io la testa, la faccio rotolare e spaccare contro un albero! Voglio uscirne! voglio uscirne!
Don Lolò: Aspettate che venga su l'avvocato: risolverà lui questo caso nuovo! Io intanto mi guardo il mio diritto alla giara e comincio col fare il mio dovere. Cava di tasca un grosso vecchio portafoglio di cuojo legato con lo spago e ne trae una carta di dieci lire: Testimoni tutti, vojaltri: qua dieci lire in compenso del vostro lavoro!
Zi' Dima: Non voglio niente! Voglio uscire!
Don Lolò: Uscirete quando lo dirà l'avvocato: io intanto vi pago.
Alza la mano col biglietto di dieci lire e lo cala dentro la giara.
Dal sentieruolo a destra viene l'avvocato Scimè, ridendo, seguito da Fillicò.
Don Lolò (vedendolo): Ma che c'è da ridere, mi scusi! A lei non brucia, lo so! La giara è mia.
Scimè (non potendo trattenersi, tra le risate anche degli altri): Ma che pre ... ma che pretendete di tene... di tenerlo là dentro? Ah ah ah, ohi ohi ohi ... Tenerlo là dentro per non perderci la giara?
Don Lolò: Ah, secondo lei, dovrei patire io, allora, il danno e lo scorno?
Scimè: Ma sapete come si chiama codesto? Sequestro di persona.
Don Lolò: E chi l'ha sequestrato? S'è sequestrato lui da sé! Che colpa n'ho io? A Zi' Dima: Chi vi tiene lì dentro? Uscitene!
Zi' Dima: Si provi lei a farmi uscire, se n'è capace!
Don Lolò: Ma non vi ci ho ficcato io costà, da aver quest'obbligo! Vi ci siete ficcato voi: uscitene!
Scimè: Signori miei, permettete che parli io?
Tararà: Parla l'avvocato! Parla l'avvocato!
Scimè: Son due i casi, statemi a sentire, e dovete mettervi d'accordo. Rivolgendosi prima a Don Lolò: Da una parte, voi Don Lolò, dovete subito liberare Zi' Dima.
Don Lolò (subito): E come? rompendo la giara?
Scimè: Aspettate. C'è poi la parte dell'altro. Lasciatemi dire. Non potete farne a meno. Per non rispondere di sequestro di persona.
Rivolgendosi ora a Zi' Dima: Dall'altra parte, anche voi Zi' Dima dovete rispondere del danno che avete cagionato cacciandovi dentro la giara senza badare che non potevate più uscirne.
Zi' Dima: Ma signor avvocato, io non ci ho badato perché, da tant'anni che faccio questo mestiere, di giare ne ho accomodate centinaja, e tutte sempre da dentro, per fermare i punti come l'arte comanda. Non m'era mai avvenuto il caso di non poterne più uscire. Tocca a lui dunque di prendersela col fornaciajo che gliela fabbricò così stretta di bocca. Io non ci ho colpa.
Don Lolò: Ma codesta gobba che avete, ve l'ha forse fabbricata il fornaciajo per impedirvi d'uscire dalla mia giara? Se attacchiamo lite per la bocca stretta, signor avvocato, appena si presenterà lui con quella gobba, il meno che potrà fare il pretore è di mettersi a ridere; mi condannerà alle spese e buona notte!
Zi' Dima: Non è vero! no! Perché con questa stessa gobba, io, per vostra regola, dalla bocca di tutte le altre giare son sempre entrato e uscito come dalla porta di casa mia!
Scimè: Questa non è ragione, abbiate pazienza, Zi' Dima. L'obbligo vostro era di prender la misura prima d'entrare, se ne potevate uscire oppur no.
Don Lolò: E deve dunque ripagarmi la giara?
Zi' Dima: Che?
Scimè: Piano, piano. Ripagarvela come nuova?
Don Lolò: Certo. Perché no?
Scimè: Ma perché era già rotta, oh bella!
Zi' Dima: Gliel'ho accomodata io!
Don Lolò: L'avete accomodata? E dunque ora è sana! Non più rotta. Se io ora la rompo per farne uscir voi, non potrò più farla riaccomodare, e ci avrò perduto la giara per sempre, signor avvocato.
Scimè: Ma ho detto perciò che Zi' Dima dovrà pur rispondere per la sua parte! Lasciate parlare a me!
Don Lolò: Parli, parli.
Scimè: Caro Zi' Dima, una delle due: o il vostro mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla.
Don Lolò (contentissimo, a quanti stanno a sentire): Sentite, sentite, come lo piglia in trappola adesso. Quando comincia così...
Scimè: Se il vostro mastice non serve a nulla, voi siete un imbroglione qualunque. Se serve a qualche cosa, e allora la giara, anche così com'è, deve avere il suo valore. Che valore? Dite voi. Stimatela.
Zi' Dima: Con me qua dentro?
Tutti ridono.
Scimè: Senza scherzare! Così com'è.
Zi' Dima: Rispondo. Se Don Lolò me l'avesse lasciata accomodare col solo mastice com'io volevo, prima di tutto non mi troverei qua dentro, perché avrei potuto accomodarla da fuori: e allora la giara sarebbe rimasta come nuova, e avrebbe avuto lo stesso valore di prima, né più né meno. Così rabberciata come è adesso, e forata come un colabrodo, che vuole che valga? Sì e no un terzo di quanto fu pagata.
Don Lolò: Un terzo?
Scimè: (subito, a Don Lolò, facendo atto di parare): Un terzo! Zitto, voi! Un terzo... vuol dire?
Don Lolò: Fu pagata quattr'onze: un'onza e trentatré.
Zi' Dima: Meno sì, più no.
Scimè: Valga la vostra parola. Prendete un'onza e trentatré e datela a Don Lolò.
Zi' Dima: Chi? Io? Un'onza e trentatré a lui?
Scimè: Perché rompa la giara e vi faccia uscire. Gliela pagherete quanto voi stesso l'avete stimata.
Don Lolò: Liscio come l'olio.
Zi' Dima: Pagare, io? Pazzia, signor avvocato! Io ci faccio i vermi, qua dentro. Oh, tu, Tararà, pigliami la pipa, dalla cesta costà.
Tararà (eseguendo): Questa?
Zi' Dima: Grazie. Dammi un po' di fuoco.
Tararà accende un fiammifero e gliel'accosta alla pipa.
Zi' Dima: Grazie. E bacio le mani a tutti quanti.
Con la pipa che fuma si cala dentro la giara tra le risate generali.
Don Lolò (restando come un allocco): E ora come si fa, signor avvocato, se non ne vuole più uscire?
Scimè (grattandosi la testa e sorridendo): Eh, già, veramente, finché voleva uscirne, il rimedio c'era; ma se ora non ne vuole più uscire...
Don Lolò (andando a parlare a Zi' Dima dentro la giara): Oh, che intenzione avete? di domiciliarvi costì?
Zi' Dima (sporgendo il capo): Ci sto meglio che a casa mia. Fresco, come in paradiso.
Si ricala dentro e ripiglia a fumare a gran boccate.
Don Lolò (tra le risate di tutti, infuriatissimo): Finite di ridere, per la Madonna! E siatemi tutti testimoni che è lui, adesso, a non volere più uscire, per non pagare quel che mi deve, mentre io son pronto a rompere la giara. All'avvocato: Non potrei citarlo per alloggio abusivo, signor avvocato?
Scimè (ridendo): E come no? Mandategli l'usciere per lo sfratto.
Don Lolò: Ma scusi, se m'impedisce l'uso della giara?
Zi' Dima (sporgendo di nuovo il capo): Lei sbaglia. Non sto mica qua per mio piacere. Mi faccia uscire e me n'andrò ballando. Ma quanto a farmi pagare, se lo scordi. Non mi muovo più di qua dentro.
Don Lolò (abbrancando la giara e scotendola furiosamente): Ah, non ti muovi più? non ti muovi più?
Zi' Dima: Vede che mastice? Non ci sono mica i punti, sa?
Don Lolò: Pezzo di ladro, laccio di forca, manigoldo, chi l'ha fatto il male, tu o io? E vuoi che lo paghi io?
Scimè (tirandoselo via per un braccio): Non fate così, ch'è peggio! Lasciatelo star lì tutta la notte, e vedrete che domattina ve lo chiederà lui stesso d'uscire. Allora, voi, un'onza e trentatré, o niente. Andiamocene su. Lasciatelo perdere.
S'avvia con Don Lolò verso la cascina.
Zi' Dima (sporgendo ancora una volta il capo): Ohi, Don Lolò!
Scimè (a Don Lolò seguitando ad andare): Non vi voltate. Via, via.
Zi' Dima (prima che i due entrino nella cascina): Buona notte, signor avvocato! Ho qua dieci lire!
E appena i due sono entrati, rivolgendosi agli altri: Faremo allegria tra noi, qua tutti quanti! Voglio incignar la casa nuova! Tu, Tarara, corri qua da Mosca e compra vino, pane, pesce fritto e peperoni salati: faremo un gran festino!
Tutti (battendo le mani, mentre Tararà corre per le compere): Viva Zi' Dima! Viva l'allegria!
Fillicò: Con questa bella luna! Guardate. È spuntata di là. Indica a sinistra: Pare giorno!
Zi' Dima: La voglio vedere! la voglio vedere anch'io! Trasportate la giara più là, pian piano.
Tutti ajutano, circondando la giara e spingendola a girar su se stessa, verso il sentieruolo a destra: Zi' Dima: Così, piano, ecco... così... Ah com'è bella! la vedo, la vedo! Pare un sole! Chi fa una cantatina?
La 'gnà Tana: Tu, Trisuzza!
Trisuzza: Io, no! Carminella!
Zi' Dima: Cantiamo tutti a coro! tu Fillicò, suona lo scacciapensieri, e voi tutti, una bella cantata, ballando attorno alla giara!
Fillicò cava di tasca lo scacciapensieri e si mette a sonarlo; gli altri, cantando e gridando, si prendono per mano e danzano scompostamente attorno alla giara, incitati da Zi' Dima. Ma poco dopo, la porta della cascina si spalanca difuria e irrompe don Lolò gridando:
Don Lolò: Corpo di Dio, dove vi par d'essere, alla taverna? Tenete, vecchio del diavolo: andate a rompervi il collo!
Allunga un formidabile calcio alla giara, che rotola giù per il sentieruolo tra le grida di tutti.
Poi si sente il fracasso della giara che si spacca urtando contro un albero.
La 'gnà Tana (seguitando il grido): Ah, l'ha ucciso!
Fillicò (guardando con gli altri): No! Eccolo là!
Ne esce! Si alza!
Non s'è fatto nulla!
Le donne battono le mani allegramente.
Tutti: Viva Zi' Dima! Viva Zi' Dima!
Lo prendono sulle spalle e lo portano via in trionfo verso sinistra.
Zi' Dima (agitando le braccia): L'ho vinta io! L'ho vinta io!

Restano da fare solo delle osservazioni relative al titolo, che non cambia in nessuna delle tre versioni (novella e atto unico, questo in siciliano e lingua): A’giarra  la giara, stante ad indicare fin dall’inizio il cardine di tutta la vicenda, e che servirà in particolare a mettere a confronto i difetti dei due coprotagonisti, con la sconfitta finale di Zirafa, che paga simbolicamente per tutti coloro che non hanno mai voluto dare fiducia al mastico di Zi’ Dima, come evidenzia Briganti.
La giara è una delle vette creative di Luigi Pirandello. Non appesantito dalle dicotomie riscontrabilissime nella produzione pirandelliana – flusso/forma, maschera/volto, tempo/durata, comicità/umorismo – il racconto si snoda in una progressione di colpi di scena piacevoli fino allo scioglimento finale, all’apoteosi.
Tutti e due i personaggi sono tratti da un tipo di società che fa risaltare soprattutto una profonda miseria, che ha origini lontane nel tempo: cosa può venir fuori da un povero zi' Dima che gode delle disgrazie altrui, senza pensare a risolvere le proprie? E zi' Dima continuerà a vivere nella sua mutria, in quel suo atteggiamento un po' superbo e scostante, sottolineato da un silenzio che deriva non solo dall'incapacità di comunicare, ma anche dalla diffidenza negli altri, pronti più a strappargli il segreto dell'invenzione miracolosa del mastice che ad avere con lui normali e umani rapporti.
La soluzione non nasce mai dall'interno dei personaggi, ma arriva sempre dall'esterno: per zi' Dima da don Lollò che con la sua rabbia rompe alla fine la giara per non sopportare il divertimento della gente alle sue spalle, per don Lollò dall'avvocato e dal calepino.
Ogni soluzione è trovata nella banalità quotidiana: la banalità, spinta fino al paradosso, rappresenta il tema intorno al quale ruota la vicenda dei personaggi e l'esistenza quotidiana nel suo complesso, senza che mai qualcuno abbia la forza per costruire qualcosa di veramente valido.
A cosa serve, infatti, la stessa ricchezza di don Lollò? Non certamente per vivere un'esigenza più agiata o con meno pensieri degli umili lavoranti che faticano nelle sue terre. La ricchezza è un bene che vive per sé, che altri poi potranno godere, ma don Lollò di essa non può sperperare neanche un centesimo. In questo modo si risolve l'attimo, l'evento particolare e accidentale, non certamente la situazione generale, che avrebbe bisogno di ben altra forza nei personaggi.
Entrambi i personaggi si muovono al di fuori del modo comune di agire; sono entrambi senza famiglia, e questo spinge a considerazioni un po' amare. Nella loro condizione di solitudine, con o senza il rispetto degli altri, viene a mancare uno degli elementi fondamentali della vita di ogni individuo, la famiglia, un valore che rappresenta il naturale completamento di ciascun individuo. Massimo Capuozzo

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