Nell'Alto
Medioevo la cultura scritta era totalmente in mano alla Chiesa: l'intellettuale
era un ecclesiastico, il clericus, con
competenze prevalentemente religiose, ma anche capace di prestare un servizio
pratico alla società civile, come insegnare nelle scuole istituite presso
monasteri ed abbazie, e impiegato perfino come funzionario amministrativo.
L’opera letteraria si consumava totalmente in ambito religioso.
Nell’Alto
Medioevo esistevano due tipi di pubblico, ben distinti fra loro. Il primo era
costituito dalla ristretta cerchia dei dotti, tutti chierici che si intendevano
fra di loro in latino, lingua internazionale, sugli alti temi della scienza
teologale; il secondo era invece costituito dalla gran massa degli indotti, non
solo la povera gente, ma anche i signori, analfabeti quanto i primi; a questo
pubblico ci si rivolgeva in volgare cioè in una delle varie parlate correnti,
diverse da luogo a luogo. C’è da precisare, inoltre, che la Chiesa del tempo era
tutt’altro che insensibile alla necessità di poter comunicare con la stragrande
maggioranza dei credenti che non capiva più il latino: esigenze di apostolato e
di egemonia ideologica glielo imponevano. Già Gregorio Magno aveva raccomandato
ai chierici di lasciar perdere gli orpelli retorici e di usare un linguaggio
comprensibile agli umili, ai quali Gesù aveva indirizzato principalmente la
buona novella. Due secoli dopo, il concilio di Tours nell’813 aveva imposto
all’episcopato di far tradurre la predicazione negli idiomi locali «in rusticam romanam linguam aut thoitiscam
quo facilius cuncti possint intelligere que dicuntur». La Chiesa quindi
senz’altro accettava l’esistenza dei linguaggi volgari e ne faceva uso per le
sue esigenze di comunicazioni verbali, ma la lingua della cultura e, più in
generale la lingua scritta doveva rimanere il latino: del resto gli umili erano
tutti analfabeti e non avrebbero potuto capire un testo anche se scritto in rusticam romanam linguam. L’unica lettura per i laboratores poteva essere la contemplazione delle pitture e delle
sculture che narravano sulle facciate e lungo le pareti delle chiese fatti di
fede e di pietà.
Per oltre
mezzo millennio l’intellettuale era stato dunque un uomo di Dio, un monaco
interessato in modo pressoché esclusivo a penetrare i misteri della fede
cristiana e a propagandarne il messaggio spirituale e morale. L’identificazione
pertanto fra intellettuale e uomo di Chiesa era completa, a tal punto che
chierico era sinonimo di dotto. Erano stati secoli tremendi di anarchia e di
miseria, dominati da un’universale insicurezza a cui dava parziale rifugio la
speranza di una ricompensa ultraterrena, peraltro anch’essa drammaticamente
difficile. La speranza in una felicità ultraterrena era, tuttavia, l’unica che
gli uomini sentono di poter ragionevolmente nutrire.
Era
considerato assurdo credere di migliorare qualcosa su questo mondo: assurdo e
colpevole perché distoglieva l’uomo dal suo vero fine. Gli intellettuali
medievali, gli oratores, coloro che
pregano, furono instancabili teorizzatori e persuasori di questa impossibilità
ed illiceità del mutamento che valeva anche naturalmente nel campo del sapere.
Intorno al secolo XI – cessate ormai da tempo le
rovinose e massicce invasioni di Ungari, Musulmani e Normanni, restituito un
minimo di tranquillità al lavoro ed alle opere di pace – l’agricoltura e la
popolazione, i commerci e le città tornarono a svilupparsi: questi mutamenti
socioeconomici incisero significativamente, ma in modo per la prima volta
diversificato, sull’evoluzione della vita culturale nelle regioni d’Europa dove
il mondo feudale dimostrava una maggiore vitalità, ed in quelle dove più
rapidamente si diffuse la nuova società urbana e borghese. In quel momento da
un lato la cultura, che si era manifestata unitaria nell’Alto Medioevo, cominciò
a diversificarsi nelle varie nazionalità ed a cercare una propria
identità, dall’altro si ebbe il risveglio generale nel campo spirituale,
politico e sociale. Furono recuperati interessi più umani e terreni, si attenuò
l'esasperato ascetismo, ponendo i presupposti che avrebbero portato ai secoli
dell'Umanesimo.
Nell’XI e
nel XII secolo il sistema feudale si consolidò notevolmente e questo tipo di società
raggiunse il suo momento di massimo sviluppo: i grandi feudatari cominciarono a
rendersi conto dell’importanza di disporre nella loro corte – già dotata di
funzioni giuridiche ed amministrative – di un autonomo centro di elaborazione
culturale, ma cominciarono anche a rendersi conto dell’importanza di legittimare
la propria dinastia attraverso la redazione di cronache e storie e, soprattutto,
attraverso la redazione di opere di autocelebrazione e d’intrattenimento,
attraverso lirica e poesia musicata, poemi epici e romanzo. Nasceva così la cultura feudale laica, dapprima
essenzialmente orale ed in un secondo momento scritta.
Occorre fare attenzione piuttosto sul fenomeno della
laicizzazione della cultura che non avvenne ex abrupto, ma fu il processo di
una lenta gestazione perché il ruolo del chierico rimase ancora indispensabile:
nell’XI secolo non si era ancora sviluppata l’attività dei cantori di corte ed
i monasteri, che in Francia come in Europa, continuavano a rappresentare gli
unici centri di cultura. Quest’attività aveva fatto degli scriptoria le uniche sedi
di trasmissione e di trasformazione del sapere, tanto che tutti i maggiori
intellettuali del periodo uscirono dagli ambienti monastici, oppure ad essi
furono legati. Tenuto conto di un tale scenario storico, sarebbe difficile
ipotizzare che gli autori delle Chanson siano
stati completamente avulsi dall’ambiente religioso. È legittimo parlare di una cultura laica non nel senso che siano laici coloro che
attendono ad esse, perché all’inizio i nuovi intellettuali sono più che altro
dei chierici che mettono l’istruzione acquisita nei centri di studio
ecclesiastici – scuole abbaziali, vescovili, capitolari – al servizio delle
corti come scrivani precettori e, in misura crescente, come poeti. Essi sono di
fatto dei laici per la loro condizione sociale e per il loro orientamento
spirituale non vivendo essi di decime, prebende ed elemosine, ma del
mecenatismo del signore e facendo oggetto della loro poesia valori più umani e
mondani: il coraggio, l’amore la liberalità la lealtà. Insieme con questi
intellettuali laici nascono non a caso le letterature romanze: i nuovi intellettuali si rivolgono ad un
pubblico nuovo diverso da quello del passato, un pubblico che non si accontentava
più di parlare un idioma rozzo ed incolto, ma si sforzava di ingentilirlo: era un
pubblico che si interessava della poesia, ma che ne era respinto dall’uso del
latino che ignorava.
Il termine cortese
in provenzale cortes, in francese cortois – abitualmente usato per
definire questa cultura – deriva da curtensis,
un aggettivo formato dal tardo latino cortis-curtis,
che, dall’età carolingia, aveva il significato di masseria, proprietà terriera, signoria, seguito del principe,
mentre dal X secolo cominciò ad essere usato anche col significato di corte di giustizia.
Il termine cortesia
evoca dunque uno spazio ben preciso, un luogo di potere, ma anche di cultura,
quello della corte, sebbene il concetto di corte
sia in molti casi un'astrazione: Federico II, per esempio non aveva una corte
fissa, nonostante l'importanza di Palermo, era ospite ogni volta di un suo
vassallo, molto spesso nella valle padana. Era lui a fare da centro. I luoghi
dove aveva luogo l'evento poetico furono nella realtà molto vari. Possiamo solo
romanticamente pensare ai signori, con i loro fedeli e i loro armati, chiusi in
castelli, prima che si moltiplichino le corti cittadine. L’edificio simbolo
di questa cultura rimane comunque il castello:
strutturato in modo da difendere i loro occupanti dagli attacchi dei nemici, un
fossato circondava il castello, dalle mura sporgevano le torri a intervalli
regolari, le finestre strombate, strette verso l’esterno e larghe verso
l’interno, in modo da far entrare più luce, si aprivano sulle mura, soprattutto
nei piani più bassi, per difendersi sia dai proiettili nemici sia dalle
incursioni e dai tentativi di scalare le mura; il dongione poi, un grosso
torrione con mura di grande spessore, poteva ospitare il feudatario e tutto il
suo seguito. Agli inizi del XIII secolo si assiste alla costruzione di castelli
concentrici, fortificazioni, cioè, che presentavano due cerchie successive di
mura, l’una dentro l’altra. Le costruzioni più interne erano più alte di quelle
esterne, così da poterle controllare e sottoporre a lancio di proiettili,
pietre e frecce, dall’interno. Eppure, nello
stesso periodo, si assiste alla creazione di corti fastose in città che, come nel
caso della Parigi di Filippo Augusto, ebbero prestissimo uno sviluppo
straordinario.
Naturalmente, chiese e conventi continuavano
a rimanere sempre e quasi dovunque centri di produzione letteraria, prima in
latino, poi in volgare. I giullari percorrevano anche le strade dei pellegrini,
e, in cambio del loro obolo, celebravano – d'intesa con i monaci – qualche
santuario locale, collegandolo con le imprese dei re o dei grandi signori, ma soprattutto,
propugnavano crociate contro gli infedeli.
Nel generale risveglio economico dell’Europa dell’XI
secolo, si erano moltiplicati e consolidati alcuni «nuclei dinastici – scrive
Aurelio Roncaglia in Poesia dell’età
cortese del 1961 – in larga misura
autonomi, spregiudicati nell’uso della forza come delle ricchezze per suo mezzo
accumulate». Quell’atmosfera di sacralità provvidenzialistica, che aveva
circondato tradizionalmente imperatori e re – le cui biografie avevano sempre
un fine agiografico – cominciò a diradarsi, aprendo la strada ad una visione
più laica della vita ed alle esigenze delle elite aristocratiche. Le corti
europee si aprirono allora a nuove manifestazioni e a riti collettivi, non più
dominati dai clerici, ma espressione dei propri desideri e delle proprie
aspirazioni. A questo mondo è legata la nascita
di una letteratura in lingua volgare, che celebrava valori, miti e riti della
classe feudale, sintetizzabili negli ideali cortesi della cavalleria.
Per comprendere meglio i contenuti di queste prime
forme letterarie, è necessario innanzi tutto fare riferimento al mondo della cavalleria,
manifestazione caratteristica del mondo
feudale, perché la classe militare
– la casta dei nobili guerrieri che Adalberone di Laon definiva i bellatores – era alla base della società
medioevale, infatti, il ceto aristocratico di origine guerriera – conti,
baroni, marchesi – era decisivo. Col passar del tempo, però, gli esperti
nell’uso delle armi tra gli appartenenti all’antica nobiltà guerriera
diventarono sempre più insufficienti a sopperire ai bisogni delle guerre e
delle faide. Si ricorse allora alla creazione di nuove milizie: si creò in
questo modo la cavalleria, nerbo
dell’esercito medievale costituito dai soldati a cavallo, e nuova classe
militare, che integrò la vecchia nobiltà guerriera.
La cavalleria era formata, oltre che dai figli
cadetti dell’antica nobiltà, abitualmente esclusi dalla successione ereditaria
dei feudi – in conseguenza dell’istituto giuridico del maggiorasco, il
feudo era trasmesso indiviso al
primogenito e i cadetti potevano scegliere la vita monastica o la
carriera militare – ma era costituita anche dagli appartenenti a strati più
bassi della nobiltà, che non avevano mai posseduto un feudo o che erano
decaduti, diventando quindi dei mercenari al servizio di qualche signore. La
maggior parte della cavalleria era tuttavia costituita da gente nuova, che
proveniva dal rango dei ministeriales,
cioè i funzionari di corte,
gli amministratori – segretari del feudatario, sovrintendenti di corte, scudieri,
staffieri – quindi molti cavalieri potevano anche essere di origine bassa e
servile e, per la prima volta, avevano la chance di diventare i compagni d’armi, ottenendo terre in
cambio dei loro servigi militari. Con l’ascesa sociale dei ministeriales si ha la testimonianza di una prima fase della
mobilità sociale nel Medioevo, che mise in moto dei nuovi meccanismi, anche se,
già alla fine dell’XI secolo, il nuovo ceto cavalleresco fu nuovamente bloccato
e soltanto i figli dei cavalieri poterono diventare cavalieri.
Diventata una protagonista della vita
dell’incipiente Basso Medioevo, questa classe sociale influenzò profondamente
la cultura e nello specifico la letteratura. I cavalieri diventarono gli
interpreti più rappresentativi della visione del mondo e dell’etica feudale e,
quindi, influenzarono l’immaginario collettivo: prendendo coscienza del proprio
ruolo sociale sempre più rilevante, essi si sentirono in dovere di elaborare
alcuni propri ideali di comportamento e di visione della realtà e la letteratura
diventò uno strumento di propaganda della loro visione del mondo.
I cardini della visione cavalleresca della vita si
possono sintetizzare nel valore della prodezza
nell’esercizio delle armi e nel conseguente sprezzo
del pericolo, nel senso dell’onore,
accompagnato al desiderio di gloria –
perdere l’onore era peggiore della morte – nel valore della lealtà, rispettando l’avversario ed il
codice di combattimento, infine nel valore della generosità con i vinti. L’insieme
di questi valori, complementari tra loro, formava un codice unitario di
comportamento: venir meno all’ideale della prodezza comprometteva l’onore, lo
stesso valeva per la slealtà e la fellonia – infedeltà verso il proprio signore
– era considerata gravissima.
Questi ideali cavallereschi, tipici della classe
feudale, trovarono la loro canonizzazione nella Chanson de Roland – la prima e la più nota canzone di gesta – ed il
loro principale luogo di espressione nella corte, centro della vita sociale e
culturale delle elite aristocratiche.
L’attribuzione del poema è incerta: alcuni studiosi
ritengono che sia opera di un unico autore, riconosciuto in quel Turoldo citato
nell’ultimo verso del poema; per un lungo periodo è stata diffusa invece la
teoria che si tratti di un’opera composita, in cui si sono fuse diverse
narrazioni orali che avevano tutte come tema la sconfitta di Roncisvalle e la
morte di Roland. La Chanson nacque certamente
in ambienti signorili legati alla scuola conservatrice della tradizione
letteraria latina per opera di uomini che si erano formati nella scuola e possedevano
pienamente il patrimonio ideale legato al medioevo dall’antichità. L’adozione
del volgare come strumento di espressione letteraria da parte di questi intellettuali,
che erano letterati coltissimi, è sintomatica. Quest’opera, come le altre che
la seguirono, nacque da movimenti spirituali suscitati da uomini formati
nell’ambiente clericale, ma operanti fuori dal loro milieu. Il poema appare, infatti, ancora fortemente permeato
di una viva ispirazione religiosa, rivela un’accurata conoscenza dei
testi liturgici ed è infine incentrato sull’esaltazione del martirio
cristianamente inteso. La scelta dell'argomento era di grande attualità: composta intorno al 1080, l’opera riflette gli orientamenti
che durante
tutto l'XI secolo ebbero gli Stati cristiani, impegnati in
una strenua lotta contro gli Arabi che occupavano la Spagna, la Sicilia e la Sardegna,
oltre all'Africa del Nord, in una serie di guerre e battaglie che avrebbero
portato alla prima crociata nel 1095.
Benché la materia di cui tratta sia un avvenimento
risalente a tre secoli prima, l’autore della Chanson de Roland proietta sui personaggi e sulle vicende narrate
la mentalità del suo tempo, attribuendo a Carlo Magno ed ai suoi paladini
usanze e mentalità proprie dell’epoca feudale dell’XI secolo e soprattutto
facendone i paladini della Cristianità, in un’epoca in cui la lotta contro gli
infedeli era di grande modernità. La necessità di risvegliare negli ascoltatori
lo spirito delle crociate spiega anche le modifiche ai fatti storici, in primo
luogo l’attribuzione dell’attacco contro i cristiani ai saraceni – nella realtà
storica, invece, banditi baschi cristiani attaccarono nel 778 i Franchi a Roncisvalle ed il vero Roland quindi fu ucciso da cristiani e non dai
musulmani in
chiave essenzialmente propagandistica, proprio perché c’è bisogno di una
mobilitazione ideologica contro i musulmani, alla vigilia della spedizione per
liberare il Santo Sepolcro. La Chanson de Roland riflette l’atteggiamento
spirituale diffuso tra i cavalieri francesi, molti dei quali avevano preso
l’abitudine di partire per la Spagna, con l’obiettivo di arricchirsi,
combattendo per la fede cristiana contro i musulmani. Per tutti costoro, il
protagonista della Chanson diventò un personaggio esemplare ed un modello da
seguire. L’eroe del poema è presentato in molte occasioni ancora come un santo,
o meglio come un martire di Cristo: al momento della morte, ad esempio, due
arcangeli accorrono per raccogliere la sua anima e portarla direttamente in
paradiso. Inoltre, come Cristo fu tradito da Giuda, così Orlando è tradito da
Gano, che nel poema appare come un vassallo infedele colpevole di fellonia nei
confronti del suo signore, Carlo Magno.
Il passaggio attraverso l’ambiente monastico sembra
quindi obbligato, al pari di come fu decisivo il ruolo della Chiesa
nell’evoluzione della cavalleria: per incanalare la violenza di questi guerrieri che, per
arricchirsi, non di rado si abbandonavano al brigantaggio o al saccheggio, la Chiesa, verso
l’inizio dell’XI secolo, aveva
proposto al
cavaliere di mettere la sua forza e il suo coraggio al servizio della fede e
della giustizia, in
difesa dei deboli e degli oppressi. La cavalleria si trasformò così in una specie di grande confraternita
sottoposta a severe regole morali: il significato religioso dell’istituzione
era rilevato da un preciso rito che regolava la cerimonia dell’investitura.
Sul modello della Chanson de Roland, le chansons
de geste nacquero e si diffusero nell’area geografica comprendente le
attuali regioni di Normandia, Piccardia e Champagne, e una parte dell’odierna
Germania, e furono una rielaborazione, da parte dei trovieri, della tradizione
epica latina, della tradizione epica germanica e dei racconti della storia
carolingia.
Esse celebrano le imprese
gloriose di personaggi storici o leggendari. Recitate nelle corti e nelle
piazze, spesso accompagnate dalla musica, le canzoni di gesta si rivolgevano a
un pubblico ampio e di varia estrazione sociale, unificato tuttavia dagli
stessi semplici ideali e tutte contribuirono a formare un'etica cavalleresca
rispondendo al bisogno di disciplinare e sublimare la brutalità e la rozzezza
della società feudale.
Ci sono stati tramandati tre cicli di canzoni di
gesta: il ciclo carolingio, di cui fa parte la Canzone di Orlando; il ciclo narbonese,
con la Canzone di Guglielmo di Orange, grande feudatario della Francia
meridionale; i ciclo dei vassalli ribelli, che narra le lotte dei feudatari fra
loro e contro il sovrano di cui l’eroe centrale è Raoul di Cambrai.
Leggermente diversa è la situazione delle corti del
Mezzogiorno della Francia, la Provenza, dove si sviluppò una corte maggiormente
improntata alla raffinatezza e ad un ideale di vita elegante. L’area
interessata da questa cultura era compresa fra le Alpi e i Pirenei e si
allungava sulla costa da Mentone alla Catalogna. La corte di tipo provenzale,
gravitava fondamentalmente intorno al Mediterraneo, era culturalmente vivace e
forniva sollievo alle cure quotidiane, dava fama e prestigio all’intellettuale,
contribuendo anche a svincolare ideologicamente il feudatario dalla dipendenza dalla
Chiesa, unica fonte fin’allora esistente di elaborazione culturale.
I poeti provenzali possono essere
considerati i primi poeti moderni ed a loro si deve il rinnovamento del genere
lirico, dopo secoli di oblio; essi sono i primi in assoluto, in una cultura
letteraria dominata dal latino, a conferire dignità poetica ad una lingua
volgare in grado di raggiungere un pubblico molto più ampio di quello che usava
e comprendeva il latino. Un altro tratto distintivo della loro modernità
è dato dal fatto che con loro, di fatto, nacque il mestiere del poeta e che questa coscienza professionale coincise con il riconoscimento di un posto
di rilievo all’interno della società: le loro opere, infatti, a differenza
della produzione letteraria precedente in volgare – per esempio le chanson de geste – non sono mai anonime,
ma sono firmate ed appaiono come il
frutto di un’identità poetica e storica ben precisa.
In questo modo dunque la cultura cortese, feudale e
laica, si affiancava alla cultura clericale, dominando la scena letteraria in
modo pressoché esclusivo per almeno due secoli – dall’XI a metà del XIII – per
poi continuare ad esercitare una notevole influenza, in forma diversa, anche
nei secoli seguenti, fino a tutto il Rinascimento, e, per taluni aspetti, fino
alla Rivoluzione francese.
L’intreccio tra esigenze politiche e decorative – svaghi
e prestigio dei signori – produsse forti investimenti culturali da parte dei
nobili per cui – inizialmente nelle corti feudali della Provenza, nel Sud della
Francia, tra l’XI e il XII secolo – nacque una produzione poetica molto
omogenea, sia per i caratteri formali – tipi di versi e di strofe, uso della
rima, ecc – sia per i temi. Questa poesia, scritta in lingua d’oc, era profondamente legata
all’ambiente della corte, di cui fu espressione e dove trovava pubblico, argomenti
e raison d’etre: fu manifestazione di
una nuova domanda di letteratura che doveva intrattenere e nello stesso tempo
dare prestigio ai membri e allo stile di vita della corte.
Si è molto dibattuta la questione delle origini
della poesia provenzale: molte consuetudini di questa poesia possono essere
rintracciate in Ovidio, ma non è plausibile ricondurle
tutte a questa origine. Tra le ipotesi maggiormente accreditate oggi vi è
quella che, seguendo la traccia di una certa affinità tematica, è individuabile
il modello di ispirazione nelle kharagiat andaluse, poesie in
mozarabico, ossia scritte in una lingua nata dall’ibridazione dei volgari
iberici con l’arabo. Secondo una teoria
affermata vigorosamente peer la ricchezza delle argomentazioni da Maria Rosa
Menocal, in Il ruolo arabo
nella storia della letteratura medievale, parte della lirica romanza ebbe
origine dalla poesia arabo-andalusa popolare, di cui la strofa, fu usata prima
che dai cristiani dai musulmani andalusi e fu coltivata eccellentemente dal
poeta cordovese Ibn Quzman (ca. 1080-1160),
mentre anticipa forme e modi che saranno poi dei giullari europei. Questa
situazione denuncia contatti con una tradizione poetica e popolare indigena, la
cui esistenza è stata anche dimostrata dalla scoperta di liriche bilingui – in
arabo, ma con congedi in protoromanzo
iberico – risalenti fino all’XI secolo, cioè anteriori alle più antiche liriche
volgari europee finora conosciute. Il lavoro della Menocal avvalora la definizione di Ramon Menéndez de Pidal della Spagna
come anello
di congiunzione fra l'Islam e la Cristianità medievale. Un gruppo di poeti girovaghi che
andavano di corte in corte sarebbero apparsi nella Spagna dell'XI secolo,
talvolta giungendo nelle corti cristiane della Francia meridionale. I contatti
tra questi poeti spagnoli e i trovatori francesi erano frequenti e le forme
metriche usate dai poeti spagnoli erano simili a quelle usate in seguito dai
trovatori.
L’abbandono della lingua latina e la scelta di temi
laici, in particolare di quello amoroso, sono sensibili novità che segnalano
l’affiorare dell’idea che la letteratura poteva avere un valore in sé, slegato
dalle finalità religiose e morali – ancora presenti e vive nella Chanson de Roland – e che l’attività
poetica poteva semplicemente ricercare la bellezza ed il piacere di chi lo ascoltava.
Le corti feudali, del Nord come del Sud della
Francia, raccogliendo chierici e giullari, si qualificarono nel tempo come un
luogo che fissava modelli non soltanto di comportamento, ma anche di una vita
piena e gioiosa, anche grazie alla produzione letteraria e musicale dedicata a
interessi e temi laici. La principale novità di questa forma d’arte consiste nel
fatto che, per la prima volta, siamo di fronte a testi letterari composti da
laici e destinati ad altri laici, mentre nei precedenti secoli del Medioevo la
scrittura era stata un patrimonio esclusivo dei chierici. La figura del
trovatore, il poeta – dal provenzale trobàr
che significa poetare – era parte integrante della corte del Mezzogiorno: molti
erano aristocratici e feudatari, più o
meno potenti,
come Guglielmo IX duca d’Aquitania, che
tramite la poesia davano voce ai propri ideali e ai propri desideri, altri erano di
umili origini, ma la loro attività poetica li elevava socialmente e spesso
procurava riconoscimenti o incarichi che davano loro dignità e ricchezza. Questi ideali non sempre coincidevano con quelli della
Chiesa: basti pensare al fatto che essi celebravano anche la guerra e le loro
imprese guerriere, anche quando queste non erano a servizio della fede, bensì
utili a procurare gloria e bottino.
Il linguaggio dei nuovi generi non era più il
latino, ma il volgare, poiché nuovo era anche il pubblico, a cominciare da quello
femminile della corte.
Le donne di corte, infatti, svolsero un ruolo
centrale in questa evoluzione ed assunsero, perciò, una posizione di rilievo,
sia pure prevalentemente passiva, in qualità di lettrici e di protettrici dei
letterati, o talvolta di loro ispiratrici. Questa presenza femminile nella
corte fu esaltata come stimolatrice
d’ingentilimento e la corte assunse la gioia e «l’amore – scrive Aurelio Roncaglia in Poesia dell’età cortese del 1961 – (o magari, più intellettualisticamente, l’amore dell’amore) come
esperienza centrale di vita e di poesia. Come della gioia e dell’amore, la
corte diviene così sede elettiva della poesia; e la poesia, impegnata a cercare
amore e gioia, ad analizzarne la fenomenologia e a definirne l’essenza,
s’impone come segno indispensabile al prestigio della corte».
S’imposero così nuovi temi e nuovi generi letterari
– lirica e romanzo – che riprendevano temi, motivi e personaggi della
letteratura classica e medievale, ma li reinterpretavano alla luce delle nuove
strutture e delle nuove esigenze sociali, affiancando alla materia antica anche
tematiche e motivi del tutto originali, come la materia di Bretagna e
l’invenzione del romanzo.
La concorrenza culturale tra le varie corti contribuì
potentemente all’espansione ed all’articolazione di una cultura cortese che si diffuse rapidamente dal
Mezzogiorno francese in tutta l’Europa, romanza e germanica, anche grazie ai
rapporti matrimoniali e familiari – caso tipico e importantissimo quello della
famiglia del primo trovatore, Guglielmo IX.
La vita di corte fu, inoltre, codificata in elaborate
forme rituali che facevano sì che alle virtù tipicamente guerriere e
cavalleresche si affiancassero anche virtù civili.
Furono molto valorizzate: la virtù della liberalità, intesa come generosità –
il disprezzo del denaro e di ogni meschino attaccamento ai beni materiali – la nobiltà d'animo, intesa come disinteresse,
e la virtus di stampo classico – intesa
nella misura e nell’equilibrio. Di stampo classico fu anche il valore della
bellezza, intesa come culto delle belle arti e delle maniere eleganti, del
rispetto delle gerarchie ed il culto delle belle forme si doveva riflettere anche
nel carattere delle persone. Il contrario di tutti questi valori si riassumeva nel
termine villania: era cioè villano
chi letteralmente veniva dalla campagna e quindi era abituato a uno stile di
vita rozzo. L’opposto è, invece, essere cortesi ed in particolare, la dama –
soggetto attorno a cui ruotava tutto questo sistema di valori – diventò simbolo
assoluto della cortesia; per questo la dama, pur non essendo dotata di un reale
potere politico e sociale, diventò nell’immaginario collettivo un soggetto
molto carismatico, che ebbe un forte potere di soggezione nei confronti dei
cavalieri, oltre a rappresentare il fulcro della corte, specialmente in assenza
del signore.
La
distanza che separa la poesia provenzale del XII secolo dalla precedente
letteratura medievale, compresa la Chanson
de Roland, emerge pienamente dalla centralità del tema dell’amore che la maggior parte dei
trovatori espresse in una concezione originalissima dell’amore che prende il
nome di amor cortese o di fin amor, come essi stessi amavano
definirlo:
questo termine riassume un ideale di vita esclusivo del milieu della corte in una concezione nuova non solo per il
Medioevo, ma anche rispetto al mondo classico, dove l’amore, nonostante le
differenze abissali tra uomo e donna, era concepito in maniera paritaria. Nella
cultura cortese la concezione dell’amore non fu più paritaria, ma l’amante affermava
un vero e proprio culto della donna, vista da lui come un essere sublime,
impareggiabile e irraggiungibile. I protagonisti di questo particolare rapporto
amoroso possono essere soltanto la dama
di corte–madonna ed il poeta–amante
che è tenuto ad un atteggiamento di cortesia rivolto alla dama che è di totale
ubbidienza, vassallaggio, desiderio ed omaggio.
Per meglio comprendere la concezione di amor cortese
occorre risalire indietro nel tempo. Il Medioevo
aveva ereditato dall'antichità classica la concezione erotica di Ovidio, lascivi praeceptor amoris, le cui opere
ebbero una straordinaria circolazione nell’antichità. Questa concezione ludica
e spregiudicata entrò in crisi con la rivoluzione cristiana, che mutò
radicalmente i parametri dell'amore, quando i padri della chiesa elaborarono una
complessa precettistica che mirava sia a condannare la libertà nei rapporti
erotici sia a disciplinare l'amore coniugale. Su questa linea della condanna di
ogni passionalità si muovevano scrittori ed educatori di parte ecclesiastica –
Pietro Lombardo e Ugo di San Vittore – fino al XII secolo, cioè nel pieno della
cosiddetta civiltà cortese, legata alle corti della Provenza e della Francia
settentrionale. Su una nuova idea della vita, fondata sugli ideali di
liberalità, magnanimità, raffinatezza, si innestò una nuova concezione
dell'amore, assai più nobile e intensa di quella che emergeva nelle pagine di
Ovidio, autore pur riscoperto e valorizzato in quegli ambienti. Fu allora che
fermenti di libertà intellettuale e di tolleranza morale cominciarono a scardinare
l'ortodossia cristiana nell'ambito erotico.
Si è molto indagato sull’origine di questa
particolare concezione dell’amore ed oggi le ipotesi fanno sempre più spesso
capo ad una derivazione araba. Le
ragioni di questa filiazione sono rintracciabili nei poeti
arabi e nella poesia della Sicilia e
della Spagna musulmane nonché dal contatto più
intenso dell'Europa con il mondo islamico. Poiché pratiche simili all'amor
cortese erano già in auge nella penisola iberica araba ed altrove nel
mondo islamico, è molto verosimile che queste influenzassero gli europei
cristiani. Ma l’aspetto più nuovo ed interessante
del XII secolo fu la trasformazione profonda che si manifestò nei costumi,
nell’ideale di vita della classe aristocratica, che cessò di essere un ambiente
unicamente di guerrieri in preda solo alla volontà di potenza. Nel corso della
seconda metà dell’XI secolo, tra il 1060 e il 1080, accadde qualcosa che rese
più complessa, più ricca la nozione che esprimevano le parole «corte, cortejar,
cortezia». Il lusso, il gusto degli abiti preziosi aumentò sensibilmente: i
latini della prima crociata, abbagliati dagli splendori bizantini ed islamici,
subirono certamente uno choc psicologico che agì in questa direzione: all’interno
delle corti e dei castelli dell’Europa latina, che fino ad allora sarebbe
apparsa decisamente barbara e primitiva a chi l’avesse confrontata con i ben
più ricchi mondi orientali dell’Islam e di Costantinopoli, si verificò la
nascita di un’inedita raffinatezza. Esemplare è in tal senso la figura di Guglielmo IX,
che, per motivi politici – la prima crociata e
la Reconquista in corso in Spagna – ebbe
duraturi contatti con la cultura islamica. Secondo
G. E. von Grunebaum – in Studies in
Islamic Cultural History del 2011 – ci sono parecchi elementi dell’amor
cortese che si sviluppano nella letteratura araba: le due nozioni dell'amore finalizzato all'amore e dell'esaltazione della donna amata risalgono
alla letteratura araba del IX e X
secolo; la nozione dell'amore come potenza
che nobilita è sviluppata nell'XI secolo dallo psicologo
e filosofo persiano, conosciuto
in Europa come Avicenna (980-1037),
nel suo Trattato sull'amore; l'elemento
finale dell'amor cortese, il concetto di amore
come desiderio che non può mai essere appagato, era a volte implicito nella poesia
araba, ma per la prima volta sviluppato in forma dottrinale nella letteratura
europea, in cui sono presenti tutti e quattro gli elementi dell'amor cortese.
Proprio Avicenna assegna all’amore umano, l’amore
sessuale, il ruolo positivo di contribuire all’ascesa dell’anima all’amore
divino e all’unione col divino stesso. Secondo la sua visione, pertanto, il
desiderio di unione fisica con l’amata non è un mero desiderio di piacere
voluttuoso, bensì diventa un mezzo per l’anima razionale per avvicinarsi al
Bene Supremo.
In
Occidente l’amor cortese fu teorizzato ed
esaminato in un trattato assai famoso a quel tempo, il De amore di
Andrea Cappellano, che dettò le regole di comportamento e definì anche le
situazioni sentimentali degne di un vero cavaliere. L’amor cortese vede
come protagonisti un cavaliere ed una dama, la cui caratteristica è quella di
essere sempre sposata e di rango superiore rispetto al maschio che la ama:
anzi, spesso, è la moglie del suo signore feudale. Nell’amor cortese c’è dunque
un evidente elemento di trasgressione rispetto alle norme morali correnti, che
condannavano severamente l’adulterio e insistevano sulla necessità di
un’assoluta fedeltà coniugale da parte della donna, dopo il matrimonio. Questo
elemento spinto lascia comprendere
uno dei motivi che resero così popolare la letteratura amorosa cortese: in un
mondo in cui la passione erotica era condannata dal clero ed i matrimoni
nascevano solo per ragioni di interesse e di politica, essa permetteva di
sognare un modo diverso di vivere il proprio sentimento.
L’amor
cortese seguiva un preciso codice di comportamento. Dopo aver rivelato alla
dama ciò che egli provava per lei, il cavaliere accettava di mettersi al suo
servizio e di esserle completamente fedele. Da questo punto di vista, è
possibile rintracciare elementi di somiglianza tra l’amor cortese e i costumi
feudali: in pratica, il giovane amante faceva esattamente le stesse promesse
che si impegnava a rispettare un vassallo nel momento in cui riceveva un feudo
dal suo signore e come questo avrebbe ricompensato solo il cavaliere che si
fosse mostrato valoroso in battaglia, così la dama non si concedeva subito
all’amante, ma solo dopo che questi aveva dato buona prova di sé. Non a caso
l’atteggiamento del cavaliere nei confronti della propria dama, per quanto
riguardava il servizio d’amore, ricalcasse molto da vicino l’atteggiamento del
cavaliere stesso nei confronti del proprio signore: il cavaliere non inventò un
nuovo modo di rapportarsi alla donna, ma semplicemente trasferì il codice di
comportamento che aveva nei confronti del proprio signore alla dama. È
interessante notare, infatti, come questo passaggio fosse rappresentato nella
letteratura di età cortese: nei primi testi di autori provenzali, si trova,
infatti, il tema del servitium amoris,
sviluppato come una sorta di investitura del cavaliere da parte non più del
signore, ma da parte della donna. In queste descrizioni poetiche, infatti,
compaiono dei riferimenti a gesti, azioni ed oggetti che hanno forti legami
simbolici con la realtà del vassallaggio. Secondo
la concezione cortese, la vista della dama risvegliava nell’amante il desiderio
di possedere la donna. Poiché essa, tuttavia, si sarebbe concessa solo dopo un
lungo intervallo di tempo, il cavaliere doveva imparare a tenere a bada la
propria passione. Se non fosse stato capace di un simile autocontrollo, il
giovane avrebbe dimostrato di essere un villano, un bruto animalesco, e non un
cuor gentile. Il momento massimo dell’autocontrollo era raggiunto quando il
cavaliere era chiamato a giacere accanto alla dama e, pur essendo entrambi
nudi, sapeva resistere al desiderio di possederla. Solo se il cavaliere avesse
superato quest’ultima e decisiva prova, la dama, infine, si sarebbe concessa,
coronando i sogni dell’amante. L’amor cortese, insomma, non escludeva che i due
amanti giungessero a consumare l’adulterio: non era un amore asessuato. I
trovatori, tuttavia, mettevano l’accento sul processo di perfezionamento cui il
cavaliere si sottoponeva, per rendersi degno dei favori sessuali della dama ed essere
finalmente accolto da lei.
L’amor
cortese, dunque, presentava un modello di comportamento ai cavalieri del XII
secolo, spesso tutt’altro che sensibili e raffinati, poiché fin da ragazzi erano
stati addestrati solo all’uso delle armi, al governo dei cavalli e alla pratica
della violenza. Tramite l’amor cortese, i trovatori provenzali tentarono di
svolgere un’azione pedagogica per certi versi simile a quella che s’incontra
nella cultura ecclesiastica dell’XI secolo: in entrambi i casi, l’obiettivo fu
quello di ingentilire i rozzi costumi della classe dirigente, cioè
dell’aristocrazia guerriera. La differenza consiste nel fatto che la Chanson de Roland e l’idea di crociata
avevano indicato ai cavalieri di mettere la spada al servizio della fede, dei
poveri e della Chiesa; i trovatori, invece, in modo certamente più laico,
percorsero la strada del dominio su di sé, a cominciare dalla più impetuosa
delle passioni, quella sessuale.
La lirica cortese compì una mediazione tra il
sentimento d’amore e la sua trasfigurazione intellettuale attraverso un
linguaggio letterario assai raffinato e selezionato, basato su alcune
parole-chiave e sull’esclusione dei termini non eleganti; la lingua dei
trovatori si presenta come un codice lirico, una lingua con regole assai rigide
e distante da quella parlata.
La poesia dei trovatori, nata nelle corti della
Francia meridionale, fu largamente conosciuta in Italia: già alla fine del XII
secolo alcuni trovatori provenzali furono ospiti delle corti feudali del nord
d'Italia e la poesia è considerata un mezzo di educazione intellettuale e
morale. Nelle corti del Nord, una quarantina di trovatori sfuggiti alla
crociata contro gli Albigesi nel 1208 continuarono a poetare in lingua d’oc: molti trovatori che
esercitavano la loro attività nelle corti della Francia del Sud furono
costretti ad abbandonare le loro terre ed attraversarono le Alpi alla volta
dell’Italia a causa di eventi drammatici come la Crociata contro gli Albigesi e
le pressioni espansionistiche del Re di Francia. Essi trovarono ospitalità
presso le corti aristocratiche dell’epoca: i Savoia, i Saluzzo, i marchesi di
Monferrato, gli Este, i Da Romano e i Malaspina,
furono tra i primi ad accoglierli. E proprio in Italia fra XIII e XIV secolo il
verbo dell’amor cortese giunse ad un altissimo grado di elaborazione, creando il
nucleo iniziale della tradizione letteraria italiana ed europea: dalla Provenza
questa colta poesia, stilizzata e raffinata, si diffuse e si rinnovò destando
echi negli stilnovisti e palpitando ancora nell’arte di Petrarca attraverso il
quale si propagò più tardi in tutta l'Europa del Rinascimento.
L'evoluzione dei costumi della
società feudale, la fioritura delle grandi corti signorili anche nella Francia
del Nord costituì la cornice in cui nacque, verso la metà del XII secolo, e si
sviluppò il genere tutto nuovo del romanzo cortese. Ispirato alle leggende
bretoni, il genere esprime capolavori quali i Lais di Maria di Francia, il poema Tristano e Isotta e soprattutto le grandi
opere di Chrétien de Troyes.
Struttura allegorica della cultura cortese e al tempo stesso suo superamento fu
più tardi il Roman de la Rose.
Il romanzo medievale francese
impose il tipo del cavaliere cortese, più raffinato dell'eroe delle chanson de geste, che persegue il
proprio arricchimento spirituale attraverso l'amore e l'avventura. Il romanzo
cortese, che si sviluppò nelle corti signorili, si differenziò nettamente dalle
canzoni di gesta: alla recitazione pubblica si sostituì progressivamente la
lettura privata; alla semplificazione vigorosa, la ricerca delle sfumature
psicologiche e della varietà. Anche il pubblico era diverso: l'aristocrazia
feudale, non più classe di rudi guerrieri, aveva acquisito uno stile di vita
raffinato, in cui assumevano importanza, oltre al valore, l'amore, la grazia,
la cortesia. Il romanzo cortese rispondeva perfettamente alle aspirazioni di
quella società e ne rappresentò ad un tempo l'ideale di vita e l'evasione in un
universo fiabesco.
L’amore ed il gusto per le cose
spirituali, quale si incarna nell’arte dei trovatori, fu la manifestazione più
originale di questa rivoluzione dei costumi. Massimo Capuozzo
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