martedì 11 dicembre 2012

La progressiva laicizzazione della cultura: cavalleria e cortesia di Massimo Capuozzo


Nell'Alto Medioevo la cultura scritta era totalmente in mano alla Chiesa: l'intellettuale era un ecclesiastico, il clericus, con competenze prevalentemente religiose, ma anche capace di prestare un servizio pratico alla società civile, come insegnare nelle scuole istituite presso monasteri ed abbazie, e impiegato perfino come funzionario amministrativo. L’opera letteraria si consumava totalmente in ambito religioso.
Nell’Alto Medioevo esistevano due tipi di pubblico, ben distinti fra loro. Il primo era costituito dalla ristretta cerchia dei dotti, tutti chierici che si intendevano fra di loro in latino, lingua internazionale, sugli alti temi della scienza teologale; il secondo era invece costituito dalla gran massa degli indotti, non solo la povera gente, ma anche i signori, analfabeti quanto i primi; a questo pubblico ci si rivolgeva in volgare cioè in una delle varie parlate correnti, diverse da luogo a luogo. C’è da precisare, inoltre, che la Chiesa del tempo era tutt’altro che insensibile alla necessità di poter comunicare con la stragrande maggioranza dei credenti che non capiva più il latino: esigenze di apostolato e di egemonia ideologica glielo imponevano. Già Gregorio Magno aveva raccomandato ai chierici di lasciar perdere gli orpelli retorici e di usare un linguaggio comprensibile agli umili, ai quali Gesù aveva indirizzato principalmente la buona novella. Due secoli dopo, il concilio di Tours nell’813 aveva imposto all’episcopato di far tradurre la predicazione negli idiomi locali «in rusticam romanam linguam aut thoitiscam quo facilius cuncti possint intelligere que dicuntur». La Chiesa quindi senz’altro accettava l’esistenza dei linguaggi volgari e ne faceva uso per le sue esigenze di comunicazioni verbali, ma la lingua della cultura e, più in generale la lingua scritta doveva rimanere il latino: del resto gli umili erano tutti analfabeti e non avrebbero potuto capire un testo anche se scritto in rusticam romanam linguam. L’unica lettura per i laboratores poteva essere la contemplazione delle pitture e delle sculture che narravano sulle facciate e lungo le pareti delle chiese fatti di fede e di pietà.
Per oltre mezzo millennio l’intellettuale era stato dunque un uomo di Dio, un monaco interessato in modo pressoché esclusivo a penetrare i misteri della fede cristiana e a propagandarne il messaggio spirituale e morale. L’identificazione pertanto fra intellettuale e uomo di Chiesa era completa, a tal punto che chierico era sinonimo di dotto. Erano stati secoli tremendi di anarchia e di miseria, dominati da un’universale insicurezza a cui dava parziale rifugio la speranza di una ricompensa ultraterrena, peraltro anch’essa drammaticamente difficile. La speranza in una felicità ultraterrena era, tuttavia, l’unica che gli uomini sentono di poter ragionevolmente nutrire.
Era considerato assurdo credere di migliorare qualcosa su questo mondo: assurdo e colpevole perché distoglieva l’uomo dal suo vero fine. Gli intellettuali medievali, gli oratores, coloro che pregano, furono instancabili teorizzatori e persuasori di questa impossibilità ed illiceità del mutamento che valeva anche naturalmente nel campo del sapere.
Intorno al secolo XI – cessate ormai da tempo le rovinose e massicce invasioni di Ungari, Musulmani e Normanni, restituito un minimo di tranquillità al lavoro ed alle opere di pace – l’agricoltura e la popolazione, i commerci e le città tornarono a svilupparsi: questi mutamenti socioeconomici incisero significativamente, ma in modo per la prima volta diversificato, sull’evoluzione della vita culturale nelle regioni d’Europa dove il mondo feudale dimostrava una maggiore vitalità, ed in quelle dove più rapidamente si diffuse la nuova società urbana e borghese. In quel momento da un lato la cultura, che si era manifestata unitaria nell’Alto Medioevo, cominciò a diversificarsi nelle varie nazionalità ed a cercare una propria identità, dall’altro si ebbe il risveglio generale nel campo spirituale, politico e sociale. Furono recuperati interessi più umani e terreni, si attenuò l'esasperato ascetismo, ponendo i presupposti che avrebbero portato ai secoli dell'Umanesimo.
Nell’XI e nel XII secolo il sistema feudale si consolidò notevolmente e questo tipo di società raggiunse il suo momento di massimo sviluppo: i grandi feudatari cominciarono a rendersi conto dell’importanza di disporre nella loro corte – già dotata di funzioni giuridiche ed amministrative – di un autonomo centro di elaborazione culturale, ma cominciarono anche a rendersi conto dell’importanza di legittimare la propria dinastia attraverso la redazione di cronache e storie e, soprattutto, attraverso la redazione di opere di autocelebrazione e d’intrattenimento, attraverso lirica e poesia musicata, poemi epici e romanzo. Nasceva così la cultura feudale laica, dapprima essenzialmente orale ed in un secondo momento scritta.
Occorre fare attenzione piuttosto sul fenomeno della laicizzazione della cultura che non avvenne ex abrupto, ma fu il processo di una lenta gestazione perché il ruolo del chierico rimase ancora indispensabile: nell’XI secolo non si era ancora sviluppata l’attività dei cantori di corte ed i monasteri, che in Francia come in Europa, continuavano a rappresentare gli unici centri di cultura. Quest’attività aveva fatto degli scriptoria le uniche sedi di trasmissione e di trasformazione del sapere, tanto che tutti i maggiori intellettuali del periodo uscirono dagli ambienti monastici, oppure ad essi furono legati. Tenuto conto di un tale scenario storico, sarebbe difficile ipotizzare che gli autori delle Chanson siano stati completamente avulsi dall’ambiente religioso. È legittimo parlare di una cultura laica non nel senso che siano laici coloro che attendono ad esse, perché all’inizio i nuovi intellettuali sono più che altro dei chierici che mettono l’istruzione acquisita nei centri di studio ecclesiastici – scuole abbaziali, vescovili, capitolari – al servizio delle corti come scrivani precettori e, in misura crescente, come poeti. Essi sono di fatto dei laici per la loro condizione sociale e per il loro orientamento spirituale non vivendo essi di decime, prebende ed elemosine, ma del mecenatismo del signore e facendo oggetto della loro poesia valori più umani e mondani: il coraggio, l’amore la liberalità la lealtà. Insieme con questi intellettuali laici nascono non a caso le letterature romanze: i nuovi intellettuali si rivolgono ad un pubblico nuovo diverso da quello del passato, un pubblico che non si accontentava più di parlare un idioma rozzo ed incolto, ma si sforzava di ingentilirlo: era un pubblico che si interessava della poesia, ma che ne era respinto dall’uso del latino che ignorava.
Il termine cortese in provenzale cortes, in francese cortois – abitualmente usato per definire questa cultura – deriva da curtensis, un aggettivo formato dal tardo latino cortis-curtis, che, dall’età carolingia, aveva il significato di masseria, proprietà terriera, signoria, seguito del principe, mentre dal X secolo cominciò ad essere usato anche col significato di corte di giustizia.
Il termine cortesia evoca dunque uno spazio ben preciso, un luogo di potere, ma anche di cultura, quello della corte, sebbene il concetto di corte sia in molti casi un'astrazione: Federico II, per esempio non aveva una corte fissa, nonostante l'importanza di Palermo, era ospite ogni volta di un suo vassallo, molto spesso nella valle padana. Era lui a fare da centro. I luoghi dove aveva luogo l'evento poetico furono nella realtà molto vari. Possiamo solo romanticamente pensare ai signori, con i loro fedeli e i loro armati, chiusi in castelli, prima che si moltiplichino le corti cittadine. L’edificio simbolo di questa cultura rimane comunque il castello: strutturato in modo da difendere i loro occupanti dagli attacchi dei nemici, un fossato circondava il castello, dalle mura sporgevano le torri a intervalli regolari, le finestre strombate, strette verso l’esterno e larghe verso l’interno, in modo da far entrare più luce, si aprivano sulle mura, soprattutto nei piani più bassi, per difendersi sia dai proiettili nemici sia dalle incursioni e dai tentativi di scalare le mura; il dongione poi, un grosso torrione con mura di grande spessore, poteva ospitare il feudatario e tutto il suo seguito. Agli inizi del XIII secolo si assiste alla costruzione di castelli concentrici, fortificazioni, cioè, che presentavano due cerchie successive di mura, l’una dentro l’altra. Le costruzioni più interne erano più alte di quelle esterne, così da poterle controllare e sottoporre a lancio di proiettili, pietre e frecce, dall’interno. Eppure, nello stesso periodo, si assiste alla creazione di corti fastose in città che, come nel caso della Parigi di Filippo Augusto, ebbero prestissimo uno sviluppo straordinario.
Naturalmente, chiese e conventi continuavano a rimanere sempre e quasi dovunque centri di produzione letteraria, prima in latino, poi in volgare. I giullari percorrevano anche le strade dei pellegrini, e, in cambio del loro obolo, celebravano – d'intesa con i monaci – qualche santuario locale, collegandolo con le imprese dei re o dei grandi signori, ma soprattutto, propugnavano crociate contro gli infedeli.
Nel generale risveglio economico dell’Europa dell’XI secolo, si erano moltiplicati e consolidati alcuni «nuclei dinastici – scrive Aurelio Roncaglia in Poesia dell’età cortese del 1961 – in larga misura autonomi, spregiudicati nell’uso della forza come delle ricchezze per suo mezzo accumulate». Quell’atmosfera di sacralità provvidenzialistica, che aveva circondato tradizionalmente imperatori e re – le cui biografie avevano sempre un fine agiografico – cominciò a diradarsi, aprendo la strada ad una visione più laica della vita ed alle esigenze delle elite aristocratiche. Le corti europee si aprirono allora a nuove manifestazioni e a riti collettivi, non più dominati dai clerici, ma espressione dei propri desideri e delle proprie aspirazioni. A questo mondo è legata la nascita di una letteratura in lingua volgare, che celebrava valori, miti e riti della classe feudale, sintetizzabili negli ideali cortesi della cavalleria.
Per comprendere meglio i contenuti di queste prime forme letterarie, è necessario innanzi tutto fare riferimento al mondo della cavalleria, manifestazione caratteristica del mondo feudale, perché la classe militare – la casta dei nobili guerrieri che Adalberone di Laon definiva i bellatores – era alla base della società medioevale, infatti, il ceto aristocratico di origine guerriera – conti, baroni, marchesi – era decisivo. Col passar del tempo, però, gli esperti nell’uso delle armi tra gli appartenenti all’antica nobiltà guerriera diventarono sempre più insufficienti a sopperire ai bisogni delle guerre e delle faide. Si ricorse allora alla creazione di nuove milizie: si creò in questo modo la cavalleria, nerbo dell’esercito medievale costituito dai soldati a cavallo, e nuova classe militare, che integrò la vecchia nobiltà guerriera.
La cavalleria era formata, oltre che dai figli cadetti dell’antica nobiltà, abitualmente esclusi dalla successione ereditaria dei feudi – in conseguenza dell’istituto giuridico del maggiorasco, il feudo era trasmesso indiviso al primogenito e i cadetti potevano scegliere la vita monastica o la carriera militare – ma era costituita anche dagli appartenenti a strati più bassi della nobiltà, che non avevano mai posseduto un feudo o che erano decaduti, diventando quindi dei mercenari al servizio di qualche signore. La maggior parte della cavalleria era tuttavia costituita da gente nuova, che proveniva dal rango dei ministeriales, cioè i funzionari di corte, gli amministratori – segretari del feudatario, sovrintendenti di corte, scudieri, staffieri – quindi molti cavalieri potevano anche essere di origine bassa e servile e, per la prima volta, avevano la chance di diventare i compagni d’armi, ottenendo terre in cambio dei loro servigi militari. Con l’ascesa sociale dei ministeriales si ha la testimonianza di una prima fase della mobilità sociale nel Medioevo, che mise in moto dei nuovi meccanismi, anche se, già alla fine dell’XI secolo, il nuovo ceto cavalleresco fu nuovamente bloccato e soltanto i figli dei cavalieri poterono diventare cavalieri.
Diventata una protagonista della vita dell’incipiente Basso Medioevo, questa classe sociale influenzò profondamente la cultura e nello specifico la letteratura. I cavalieri diventarono gli interpreti più rappresentativi della visione del mondo e dell’etica feudale e, quindi, influenzarono l’immaginario collettivo: prendendo coscienza del proprio ruolo sociale sempre più rilevante, essi si sentirono in dovere di elaborare alcuni propri ideali di comportamento e di visione della realtà e la letteratura diventò uno strumento di propaganda della loro visione del mondo.
I cardini della visione cavalleresca della vita si possono sintetizzare nel valore della prodezza nell’esercizio delle armi e nel conseguente sprezzo del pericolo, nel senso dell’onore, accompagnato al desiderio di gloria – perdere l’onore era peggiore della morte – nel valore della lealtà, rispettando l’avversario ed il codice di combattimento, infine nel valore della generosità con i vinti. L’insieme di questi valori, complementari tra loro, formava un codice unitario di comportamento: venir meno all’ideale della prodezza comprometteva l’onore, lo stesso valeva per la slealtà e la fellonia – infedeltà verso il proprio signore – era considerata gravissima.
Questi ideali cavallereschi, tipici della classe feudale, trovarono la loro canonizzazione nella Chanson de Roland – la prima e la più nota canzone di gesta – ed il loro principale luogo di espressione nella corte, centro della vita sociale e culturale delle elite aristocratiche.
L’attribuzione del poema è incerta: alcuni studiosi ritengono che sia opera di un unico autore, riconosciuto in quel Turoldo citato nell’ultimo verso del poema; per un lungo periodo è stata diffusa invece la teoria che si tratti di un’opera composita, in cui si sono fuse diverse narrazioni orali che avevano tutte come tema la sconfitta di Roncisvalle e la morte di Roland. La Chanson nacque certamente in ambienti signorili legati alla scuola conservatrice della tradizione letteraria latina per opera di uomini che si erano formati nella scuola e possedevano pienamente il patrimonio ideale legato al medioevo dall’antichità. L’adozione del volgare come strumento di espressione letteraria da parte di questi intellettuali, che erano letterati coltissimi, è sintomatica. Quest’opera, come le altre che la seguirono, nacque da movimenti spirituali suscitati da uomini formati nell’ambiente clericale, ma operanti fuori dal loro milieu. Il poema appare, infatti, ancora fortemente permeato di una viva ispirazione religiosa, rivela un’accurata conoscenza dei testi liturgici ed è infine incentrato sull’esaltazione del martirio cristianamente inteso. La scelta dell'argomento era di grande attualità: composta intorno al 1080, l’opera riflette gli orientamenti che durante tutto l'XI secolo ebbero gli Stati cristiani, impegnati in una strenua lotta contro gli Arabi che occupavano la Spagna, la Sicilia e la Sardegna, oltre all'Africa del Nord, in una serie di guerre e battaglie che avrebbero portato alla prima crociata nel 1095.
Benché la materia di cui tratta sia un avvenimento risalente a tre secoli prima, l’autore della Chanson de Roland proietta sui personaggi e sulle vicende narrate la mentalità del suo tempo, attribuendo a Carlo Magno ed ai suoi paladini usanze e mentalità proprie dell’epoca feudale dell’XI secolo e soprattutto facendone i paladini della Cristianità, in un’epoca in cui la lotta contro gli infedeli era di grande modernità. La necessità di risvegliare negli ascoltatori lo spirito delle crociate spiega anche le modifiche ai fatti storici, in primo luogo l’attribuzione dell’attacco contro i cristiani ai saraceni – nella realtà storica, invece, banditi baschi cristiani attaccarono nel 778 i Franchi a Roncisvalle ed il vero Roland quindi fu ucciso da cristiani e non dai musulmani in chiave essenzialmente propagandistica, proprio perché c’è bisogno di una mobilitazione ideologica contro i musulmani, alla vigilia della spedizione per liberare il Santo Sepolcro. La Chanson de Roland riflette l’atteggiamento spirituale diffuso tra i cavalieri francesi, molti dei quali avevano preso l’abitudine di partire per la Spagna, con l’obiettivo di arricchirsi, combattendo per la fede cristiana contro i musulmani. Per tutti costoro, il protagonista della Chanson diventò un personaggio esemplare ed un modello da seguire. L’eroe del poema è presentato in molte occasioni ancora come un santo, o meglio come un martire di Cristo: al momento della morte, ad esempio, due arcangeli accorrono per raccogliere la sua anima e portarla direttamente in paradiso. Inoltre, come Cristo fu tradito da Giuda, così Orlando è tradito da Gano, che nel poema appare come un vassallo infedele colpevole di fellonia nei confronti del suo signore, Carlo Magno.
Il passaggio attraverso l’ambiente monastico sembra quindi obbligato, al pari di come fu decisivo il ruolo della Chiesa nell’evoluzione della cavalleria: per incanalare la violenza di questi guerrieri che, per arricchirsi, non di rado si abban­donavano al brigantaggio o al saccheggio, la Chiesa, verso l’inizio dell’XI secolo, aveva pro­posto al cavaliere di mettere la sua forza e il suo coraggio al servizio della fede e della giustizia, in difesa dei deboli e degli oppressi. La cavalleria si trasformò così in una specie di grande confraternita sottoposta a severe regole morali: il significato religioso dell’istituzione era rilevato da un preciso rito che regolava la cerimonia dell’investi­tura.
Sul modello della Chanson de Roland, le chansons de geste nacquero e si diffusero nell’area geografica comprendente le attuali regioni di Normandia, Piccardia e Champagne, e una parte dell’odierna Germania, e furono una rielaborazione, da parte dei trovieri, della tradizione epica latina, della tradizione epica germanica e dei racconti della storia carolingia.
Esse celebrano le imprese gloriose di personaggi storici o leggendari. Recitate nelle corti e nelle piazze, spesso accompagnate dalla musica, le canzoni di gesta si rivolgevano a un pubblico ampio e di varia estrazione sociale, unificato tuttavia dagli stessi semplici ideali e tutte contribuirono a formare un'etica cavalleresca rispondendo al bisogno di disciplinare e sublimare la brutalità e la rozzezza della società feudale.
Ci sono stati tramandati tre cicli di canzoni di gesta: il ciclo carolingio, di cui fa parte la Canzone di Orlando; il ciclo narbonese, con la Canzone di Guglielmo di Orange, grande feudatario della Francia meridionale; i ciclo dei vassalli ribelli, che narra le lotte dei feudatari fra loro e contro il sovrano di cui l’eroe centrale è Raoul di Cambrai.
Leggermente diversa è la situazione delle corti del Mezzogiorno della Francia, la Provenza, dove si sviluppò una corte maggiormente improntata alla raffinatezza e ad un ideale di vita elegante. L’area interessata da questa cultura era compresa fra le Alpi e i Pirenei e si allungava sulla costa da Mentone alla Catalogna. La corte di tipo provenzale, gravitava fondamentalmente intorno al Mediterraneo, era culturalmente vivace e forniva sollievo alle cure quotidiane, dava fama e prestigio all’intellettuale, contribuendo anche a svincolare ideologicamente il feudatario dalla dipendenza dalla Chiesa, unica fonte fin’allora esistente di elaborazione culturale.
I poeti provenzali possono essere considerati i primi poeti moderni ed a loro si deve il rinnovamento del genere lirico, dopo secoli di oblio; essi sono i primi in assoluto, in una cultura letteraria dominata dal latino, a conferire dignità poetica ad una lingua volgare in grado di raggiungere un pubblico molto più ampio di quello che usava e comprendeva il latino. Un altro tratto distintivo della loro modernità è dato dal fatto che con loro, di fatto, nacque il mestiere del poeta e che questa coscienza professionale coincise con il riconoscimento di un posto di rilievo all’interno della società: le loro opere, infatti, a differenza della produzione letteraria precedente in volgare – per esempio le chanson de geste – non sono mai anonime, ma sono firmate ed appaiono come il frutto di un’identità poetica e storica ben precisa.
In questo modo dunque la cultura cortese, feudale e laica, si affiancava alla cultura clericale, dominando la scena letteraria in modo pressoché esclusivo per almeno due secoli – dall’XI a metà del XIII – per poi continuare ad esercitare una notevole influenza, in forma diversa, anche nei secoli seguenti, fino a tutto il Rinascimento, e, per taluni aspetti, fino alla Rivoluzione francese.
L’intreccio tra esigenze politiche e decorative – svaghi e prestigio dei signori – produsse forti investimenti culturali da parte dei nobili per cui – inizialmente nelle corti feudali della Provenza, nel Sud della Francia, tra l’XI e il XII secolo – nacque una produzione poetica molto omogenea, sia per i caratteri formali – tipi di versi e di strofe, uso della rima, ecc – sia per i temi. Questa poesia, scritta in lingua d’oc, era profondamente legata all’ambiente della corte, di cui fu espressione e dove trovava pubblico, argomenti e raison d’etre: fu manifestazione di una nuova domanda di letteratura che doveva intrattenere e nello stesso tempo dare prestigio ai membri e allo stile di vita della corte.
Si è molto dibattuta la questione delle origini della poesia provenzale: molte consuetudini di questa poesia possono essere rintracciate in Ovidio, ma non è plausibile ricondurle tutte a questa origine. Tra le ipotesi maggiormente accreditate oggi vi è quella che, seguendo la traccia di una certa affinità tematica, è individuabile il modello di ispirazione nelle kharagiat andaluse, poesie in mozarabico, ossia scritte in una lingua nata dall’ibridazione dei volgari iberici con l’arabo. Secondo una teoria affermata vigorosamente peer la ricchezza delle argomentazioni da Maria Rosa Menocal, in Il ruolo arabo nella storia della letteratura medievale, parte della lirica romanza ebbe origine dalla poesia arabo-andalusa popolare, di cui la strofa, fu usata prima che dai cristiani dai musulmani andalusi e fu coltivata eccellentemente dal poeta cordovese Ibn Quzman (ca. 1080-1160), mentre anticipa forme e modi che saranno poi dei giullari europei. Questa situazione denuncia contatti con una tradizione poetica e popolare indigena, la cui esistenza è stata anche dimostrata dalla scoperta di liriche bilingui – in arabo, ma con congedi in protoromanzo iberico – risalenti fino all’XI secolo, cioè anteriori alle più antiche liriche volgari europee finora conosciute. Il lavoro della Menocal avvalora la definizione di Ramon Menéndez de Pidal della Spagna come anello di congiunzione fra l'Islam e la Cristianità medievale. Un gruppo di poeti girovaghi che andavano di corte in corte sarebbero apparsi nella Spagna dell'XI secolo, talvolta giungendo nelle corti cristiane della Francia meridionale. I contatti tra questi poeti spagnoli e i trovatori francesi erano frequenti e le forme metriche usate dai poeti spagnoli erano simili a quelle usate in seguito dai trovatori.
L’abbandono della lingua latina e la scelta di temi laici, in particolare di quello amoroso, sono sensibili novità che segnalano l’affiorare dell’idea che la letteratura poteva avere un va­lore in sé, slegato dalle finalità religiose e morali – ancora presenti e vive nella Chanson de Roland – e che l’attività poetica poteva semplicemente ricercare la bellezza ed il piacere di chi lo ascoltava.
Le corti feudali, del Nord come del Sud della Francia, raccogliendo chierici e giullari, si qualificarono nel tempo come un luogo che fissava modelli non soltanto di comportamento, ma anche di una vita piena e gioiosa, anche grazie alla produzione letteraria e musicale dedicata a interessi e temi laici. La principale novità di questa forma d’arte consiste nel fatto che, per la prima volta, siamo di fronte a testi letterari composti da laici e destinati ad altri laici, mentre nei precedenti secoli del Medioevo la scrittura era stata un patrimonio esclusivo dei chierici. La figura del trovatore, il poeta – dal provenzale trobàr che significa poetare – era parte integrante della corte del Mezzogiorno: molti erano aristocratici e feudatari, più o meno potenti, come Guglielmo IX duca d’Aquitania, che tramite la poesia davano voce ai propri ideali e ai propri desideri, altri erano di umili origini, ma la loro attività poetica li elevava socialmente e spesso procurava riconoscimenti o incarichi che davano loro dignità e ricchezza. Questi ideali non sempre coincidevano con quelli della Chiesa: basti pensare al fatto che essi celebravano anche la guerra e le loro imprese guerriere, anche quando queste non erano a servizio della fede, bensì utili a procurare gloria e bottino.
Il linguaggio dei nuovi generi non era più il latino, ma il volgare, poiché nuovo era anche il pubblico, a cominciare da quello femminile della corte.
Le donne di corte, infatti, svolsero un ruolo centrale in questa evoluzione ed assunsero, perciò, una posizione di rilievo, sia pure prevalentemente passiva, in qualità di lettrici e di protettrici dei letterati, o talvolta di loro ispiratrici. Questa presenza femminile nella corte fu esaltata come stimolatrice d’ingentilimento e la corte assunse la gioia e «l’amore – scrive Aurelio Roncaglia in Poesia dell’età cortese del 1961 – (o magari, più intellettualisticamente, l’amore dell’amore) come esperienza centrale di vita e di poesia. Come della gioia e dell’amore, la corte diviene così sede elettiva della poesia; e la poesia, impegnata a cercare amore e gioia, ad analizzarne la fenomenologia e a definirne l’essenza, s’impone come segno indispensabile al prestigio della corte».
S’imposero così nuovi temi e nuovi generi letterari – lirica e romanzo – che riprendevano temi, motivi e personaggi della letteratura classica e medievale, ma li reinterpretavano alla luce delle nuove strutture e delle nuove esigenze sociali, affiancando alla materia antica anche tematiche e motivi del tutto originali, come la materia di Bretagna e l’invenzione del romanzo.
La concorrenza culturale tra le varie corti contribuì potentemente all’espansione ed all’articolazione di una cultura cortese che si diffuse rapidamente dal Mezzogiorno francese in tutta l’Europa, romanza e germanica, anche grazie ai rapporti matrimoniali e familiari – caso tipico e importantissimo quello della famiglia del primo trovatore, Guglielmo IX.
La vita di corte fu, inoltre, codificata in elaborate forme rituali che facevano sì che alle virtù tipicamente guerriere e cavalleresche si affiancassero anche virtù civili. Furono molto valorizzate: la virtù della liberalità, intesa come generosità – il disprezzo del denaro e di ogni meschino attaccamento ai beni materiali –  la nobiltà d'animo, intesa come disinteresse, e la virtus di stampo classico – intesa nella misura e nell’equilibrio. Di stampo classico fu anche il valore della bellezza, intesa come culto delle belle arti e delle maniere eleganti, del rispetto delle gerarchie ed il culto delle belle forme si doveva riflettere anche nel carattere delle persone. Il contrario di tutti questi valori si riassumeva nel termine villania: era cioè villano chi letteralmente veniva dalla campagna e quindi era abituato a uno stile di vita rozzo. L’opposto è, invece, essere cortesi ed in particolare, la dama – soggetto attorno a cui ruotava tutto questo sistema di valori – diventò simbolo assoluto della cortesia; per questo la dama, pur non essendo dotata di un reale potere politico e sociale, diventò nell’immaginario collettivo un soggetto molto carismatico, che ebbe un forte potere di soggezione nei confronti dei cavalieri, oltre a rappresentare il fulcro della corte, specialmente in assenza del signore.
La distanza che separa la poesia provenzale del XII secolo dalla precedente letteratura medievale, compresa la Chanson de Roland, emerge pienamente dalla centralità del tema dell’amore che la maggior parte dei trovatori espresse in una concezione originalissima dell’amore che prende il nome di amor cortese o di fin amor, come essi stessi amavano definirlo: questo termine riassume un ideale di vi­ta esclusivo del milieu della corte in una concezione nuova non solo per il Medioevo, ma anche rispetto al mondo classico, dove l’amore, nonostante le differenze abissali tra uomo e donna, era concepito in maniera paritaria. Nella cultura cortese la concezione dell’amore non fu più paritaria, ma l’amante affermava un vero e proprio culto della donna, vista da lui come un essere sublime, impareggiabile e irraggiungibile. I protagonisti di questo particolare rapporto amoroso possono essere soltan­to la dama di corte–madonna ed il poeta–amante che è tenuto ad un atteggiamento di cortesia rivolto alla dama che è di totale ubbidienza, vassallaggio, desiderio ed omaggio.
Per meglio comprendere la concezione di amor cortese occorre risalire indietro nel tempo. Il Medioevo aveva ereditato dall'antichità classica la concezione erotica di Ovidio, lascivi praeceptor amoris, le cui opere ebbero una straordinaria circolazione nell’antichità. Questa concezione ludica e spregiudicata entrò in crisi con la rivoluzione cristiana, che mutò radicalmente i parametri dell'amore, quando i padri della chiesa elaborarono una complessa precettistica che mirava sia a condannare la libertà nei rapporti erotici sia a disciplinare l'amore coniugale. Su questa linea della condanna di ogni passionalità si muovevano scrittori ed educatori di parte ecclesiastica – Pietro Lombardo e Ugo di San Vittore – fino al XII secolo, cioè nel pieno della cosiddetta civiltà cortese, legata alle corti della Provenza e della Francia settentrionale. Su una nuova idea della vita, fondata sugli ideali di liberalità, magnanimità, raffinatezza, si innestò una nuova concezione dell'amore, assai più nobile e intensa di quella che emergeva nelle pagine di Ovidio, autore pur riscoperto e valorizzato in quegli ambienti. Fu allora che fermenti di libertà intellettuale e di tolleranza morale cominciarono a scardinare l'ortodossia cristiana nell'ambito erotico.
Si è molto indagato sull’origine di questa particolare concezione dell’amore ed oggi le ipotesi fanno sempre più spesso capo ad una derivazione araba. Le ragioni di questa filiazione sono rintracciabili nei poeti arabi e nella poesia della Sicilia e della Spagna musulmane nonché dal contatto più intenso dell'Europa con il mondo islamico. Poiché pratiche simili all'amor cortese erano già in auge nella penisola iberica araba ed altrove nel mondo islamico, è molto verosimile che queste influenzassero gli europei cristiani. Ma l’aspetto più nuovo ed interessante del XII secolo fu la trasformazione profonda che si manifestò nei costumi, nell’ideale di vita della classe aristocratica, che cessò di essere un ambiente unicamente di guerrieri in preda solo alla volontà di potenza. Nel corso della seconda metà dell’XI secolo, tra il 1060 e il 1080, accadde qualcosa che rese più complessa, più ricca la nozione che esprimevano le parole «corte, cortejar, cortezia». Il lusso, il gusto degli abiti preziosi aumentò sensibilmente: i latini della prima crociata, abbagliati dagli splendori bizantini ed islamici, subirono certamente uno choc psicologico che agì in questa direzione: all’interno delle corti e dei castelli dell’Europa latina, che fino ad allora sarebbe apparsa decisamente barbara e primitiva a chi l’avesse confrontata con i ben più ricchi mondi orientali dell’Islam e di Costantinopoli, si verificò la nascita di un’inedita raffinatezza. Esemplare è in tal senso la figura di Guglielmo IX, che, per motivi politici – la prima crociata e la Reconquista in corso in Spagna – ebbe duraturi contatti con la cultura islamica. Secondo G. E. von Grunebaum – in Studies in Islamic Cultural History del 2011 – ci sono parecchi elementi dell’amor cortese che si sviluppano nella letteratura araba: le due nozioni dell'amore finalizzato all'amore e dell'esaltazione della donna amata risalgono alla letteratura araba del IX e X secolo; la nozione dell'amore come potenza che nobilita è sviluppata nell'XI secolo dallo psicologo e filosofo persiano, conosciuto in Europa come Avicenna (980-1037), nel suo Trattato sull'amore; l'elemento finale dell'amor cortese, il concetto di amore come desiderio che non può mai essere appagato, era a volte implicito nella poesia araba, ma per la prima volta sviluppato in forma dottrinale nella letteratura europea, in cui sono presenti tutti e quattro gli elementi dell'amor cortese.
Proprio Avicenna assegna all’amore umano, l’amore sessuale, il ruolo positivo di contribuire all’ascesa dell’anima all’amore divino e all’unione col divino stesso. Secondo la sua visione, pertanto, il desiderio di unione fisica con l’amata non è un mero desiderio di piacere voluttuoso, bensì diventa un mezzo per l’anima razionale per avvicinarsi al Bene Supremo.
In Occidente l’amor cortese fu teorizzato ed esaminato in un trattato assai famoso a quel tempo, il De amore di Andrea Cappellano, che dettò le regole di comportamento e definì anche le situazioni sentimentali degne di un vero cavaliere. L’amor cortese vede come protagonisti un cavaliere ed una dama, la cui caratteristica è quella di essere sempre sposata e di rango superiore rispetto al maschio che la ama: anzi, spesso, è la moglie del suo signore feudale. Nell’amor cortese c’è dunque un evidente elemento di trasgressione rispetto alle norme morali correnti, che condannavano severamente l’adulterio e insistevano sulla necessità di un’assoluta fedeltà coniugale da parte della donna, dopo il matrimonio. Questo elemento spinto lascia comprendere uno dei motivi che resero così popolare la letteratura amorosa cortese: in un mondo in cui la passione erotica era condannata dal clero ed i matrimoni nascevano solo per ragioni di interesse e di politica, essa permetteva di sognare un modo diverso di vivere il proprio sentimento.
L’amor cortese seguiva un preciso codice di comportamento. Dopo aver rivelato alla dama ciò che egli provava per lei, il cavaliere accettava di mettersi al suo servizio e di esserle completamente fedele. Da questo punto di vista, è possibile rintracciare elementi di somiglianza tra l’amor cortese e i costumi feudali: in pratica, il giovane amante faceva esattamente le stesse promesse che si impegnava a rispettare un vassallo nel momento in cui riceveva un feudo dal suo signore e come questo avrebbe ricompensato solo il cavaliere che si fosse mostrato valoroso in battaglia, così la dama non si concedeva subito all’amante, ma solo dopo che questi aveva dato buona prova di sé. Non a caso l’atteggiamento del cavaliere nei confronti della propria dama, per quanto riguardava il servizio d’amore, ricalcasse molto da vicino l’atteggiamento del cavaliere stesso nei confronti del proprio signore: il cavaliere non inventò un nuovo modo di rapportarsi alla donna, ma semplicemente trasferì il codice di comportamento che aveva nei confronti del proprio signore alla dama. È interessante notare, infatti, come questo passaggio fosse rappresentato nella letteratura di età cortese: nei primi testi di autori provenzali, si trova, infatti, il tema del servitium amoris, sviluppato come una sorta di investitura del cavaliere da parte non più del signore, ma da parte della donna. In queste descrizioni poetiche, infatti, compaiono dei riferimenti a gesti, azioni ed oggetti che hanno forti legami simbolici con la realtà del vassallaggio. Secondo la concezione cortese, la vista della dama risvegliava nell’amante il desiderio di possedere la donna. Poiché essa, tuttavia, si sarebbe concessa solo dopo un lungo intervallo di tempo, il cavaliere doveva imparare a tenere a bada la propria passione. Se non fosse stato capace di un simile autocontrollo, il giovane avrebbe dimostrato di essere un villano, un bruto animalesco, e non un cuor gentile. Il momento massimo dell’autocontrollo era raggiunto quando il cavaliere era chiamato a giacere accanto alla dama e, pur essendo entrambi nudi, sapeva resistere al desiderio di possederla. Solo se il cavaliere avesse superato quest’ultima e decisiva prova, la dama, infine, si sarebbe concessa, coronando i sogni dell’amante. L’amor cortese, insomma, non escludeva che i due amanti giungessero a consumare l’adulterio: non era un amore asessuato. I trovatori, tuttavia, mettevano l’accento sul processo di perfezionamento cui il cavaliere si sottoponeva, per rendersi degno dei favori sessuali della dama ed essere finalmente accolto da lei.
L’amor cortese, dunque, presentava un modello di comportamento ai cavalieri del XII secolo, spesso tutt’altro che sensibili e raffinati, poiché fin da ragazzi erano stati addestrati solo all’uso delle armi, al governo dei cavalli e alla pratica della violenza. Tramite l’amor cortese, i trovatori provenzali tentarono di svolgere un’azione pedagogica per certi versi simile a quella che s’incontra nella cultura ecclesiastica dell’XI secolo: in entrambi i casi, l’obiettivo fu quello di ingentilire i rozzi costumi della classe dirigente, cioè dell’aristocrazia guerriera. La differenza consiste nel fatto che la Chanson de Roland e l’idea di crociata avevano indicato ai cavalieri di mettere la spada al servizio della fede, dei poveri e della Chiesa; i trovatori, invece, in modo certamente più laico, percorsero la strada del dominio su di sé, a cominciare dalla più impetuosa delle passioni, quella sessuale.
La lirica cortese compì una mediazione tra il sentimento d’amore e la sua trasfigurazione intellettuale attraverso un linguaggio letterario assai raffinato e seleziona­to, basato su alcune parole-chiave e sull’esclusione dei termini non eleganti; la lingua dei trovatori si presenta come un codice lirico, una lingua con regole assai rigide e distante da quella parlata.
La poesia dei trovatori, nata nelle corti della Francia meridionale, fu largamente conosciuta in Italia: già alla fine del XII secolo alcuni trovatori provenzali furono ospiti delle corti feudali del nord d'Italia e la poesia è considerata un mezzo di educazione intellettuale e morale. Nelle corti del Nord, una quarantina di trovatori sfuggiti alla crociata contro gli Albigesi nel 1208 continuarono a poetare in lingua d’oc: molti trovatori che esercitavano la loro attività nelle corti della Francia del Sud furono costretti ad abbandonare le loro terre ed attraversarono le Alpi alla volta dell’Italia a causa di eventi drammatici come la Crociata contro gli Albigesi e le pressioni espansionistiche del Re di Francia. Essi trovarono ospitalità presso le corti aristocratiche dell’epoca: i Savoia, i Saluzzo, i marchesi di Monferrato, gli Este, i Da Romano e i Malaspina, furono tra i primi ad accoglierli. E proprio in Italia fra XIII e XIV secolo il verbo dell’amor cortese giunse ad un altissimo grado di elaborazione, creando il nucleo iniziale della tradizione letteraria italiana ed europea: dalla Provenza questa colta poesia, stilizzata e raffinata, si diffuse e si rinnovò destando echi negli stilnovisti e palpitando ancora nell’arte di Petrarca attraverso il quale si propagò più tardi in tutta l'Europa del Rinascimento.
L'evoluzione dei costumi della società feudale, la fioritura delle grandi corti signorili anche nella Francia del Nord costituì la cornice in cui nacque, verso la metà del XII secolo, e si sviluppò il genere tutto nuovo del romanzo cortese. Ispirato alle leggende bretoni, il genere esprime capolavori quali i Lais di Maria di Francia, il poema Tristano e Isotta e soprattutto le grandi opere di Chrétien de Troyes. Struttura allegorica della cultura cortese e al tempo stesso suo superamento fu più tardi il Roman de la Rose.
Il romanzo medievale francese impose il tipo del cavaliere cortese, più raffinato dell'eroe delle chanson de geste, che persegue il proprio arricchimento spirituale attraverso l'amore e l'avventura. Il romanzo cortese, che si sviluppò nelle corti signorili, si differenziò nettamente dalle canzoni di gesta: alla recitazione pubblica si sostituì progressivamente la lettura privata; alla semplificazione vigorosa, la ricerca delle sfumature psicologiche e della varietà. Anche il pubblico era diverso: l'aristocrazia feudale, non più classe di rudi guerrieri, aveva acquisito uno stile di vita raffinato, in cui assumevano importanza, oltre al valore, l'amore, la grazia, la cortesia. Il romanzo cortese rispondeva perfettamente alle aspirazioni di quella società e ne rappresentò ad un tempo l'ideale di vita e l'evasione in un universo fiabesco.
L’amore ed il gusto per le cose spirituali, quale si incarna nell’arte dei trovatori, fu la manifestazione più originale di questa rivoluzione dei costumi.  Massimo Capuozzo

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