Diana
De Rosa, detta Annella di Massimo
Nelle Vite del pittore e biografo Bernardo De Dominici (1683 – 1759), che non pecca certo di
fantasia, il racconto della biografia Diana de Rosa (1602-1643), detta Annella di Massimo – riferito al celebre caposcuola napoletano Massimo
Stanzione (1586 -1658) – è arricchito da elementi romanzeschi tanto che il biografo creò intorno
alla figura della pittrice un intreccio romanzesco da cui però si può estrapolare solo molto poco.
Annella nacque a Napoli nel 1602 da Tommaso e da Caterina De
Mauro ed era la sorella maggiore del pittore
Giovan Francesco, noto come Pacecco
(1607-1656). Anche le sue sorelle Lucrezia e Maria Grazia erano molto belle e
con Diana furono soprannominate le «tre Grazie napoletane», epiteto che fu poi
ereditato dalle tre figlie di Maria Grazia, anch’esse molto belle.
Tommaso De Rosa era un pittore in rapporto
con Venceslao Coebergher e la sua attività oggi
è nota soltanto per il Martirio di S. Erasmo del 1601 nella chiesa dello
Spirito Santo a Napoli, un'opera in pessime condizioni che denota un classicismo
tardomanierista devoto e senza tempo,
tipico di ampi settori della pittura napoletana all'inizio del Seicento.
Tommaso De Rosa svolgeva – al pari di vari altri suoi colleghi – l'attività
professionale di maestro: pertanto Diana visse fin dall'infanzia in un ambiente
di pittori professionisti.
Nel 1610 Caterina De Mauro rimase vedova e due anni
dopo, nel 1612, sposò il pittore Filippo Vitale (1589 – 1650) da cui ebbe un
figlio, Carlo, così chiamato perché, data l’intimità di Vitale con Carlo
Sellitto (1581 – 1614) lo volle padrino
di battesimo del figlio, mentre madrina la madre di un altro affermato pittore,
Andrea Vaccaro (1604 – 1670).
Filippo Vitale
fu un protagonista, ancorché in gran parte da riscoprire, del naturalismo di
ascendenza caravaggesca proprio della pittura meridionale della prima metà del
Seicento, un artista che avviò la rivoluzione caravaggesca a Napoli insieme con
Carlo Sellitto (1581-1614), Battistello Caracciolo (1578 – 1635) e Josè de
Ribera (1591 – 1662), e che divenne il capostipite di un’importante famiglia di
artisti della nuova generazione come Annella e Pacecco De Rosa, Juan Do (1604 - 1646), Agostino Beltrano (1607 – 1656) e Aniello Falcone (1600 o 1607 – 1665). Un tipico esempio di
quella ragnatela di parentele che legò molti altri pittori napoletani del primo
Seicento, i quali abitarono quasi tutti nella zona delimitata tra piazza Carità
e lo Spirito Santo, vera Montmartre della Napoli dell’epoca.
La rete di
parentela di Annella era diventata più complessa ed articolata con il
matrimonio del caravaggesco Aniello Falcone con la sua sorellastra Orsola
Vitale e con quello del riberesco spagnolo Juan Do con la sorella Maria Grazia in
cui testimoni di nozze furono i colleghi ed amici Battistello Caracciolo e Josè
de Ribera.
Nel 1626 Diana
sposò il giovane pittore Agostino Beltrano, allievo di Massimo Stanzione.
Annella, prima
di frequentare la bottega di Stanzione, insieme con il fratello Pacecco,
dovette avere per maestro il patrigno Filippo Vitale: osservando il percorso del
fratello, possiamo immaginare la carriera di Diana in secondo momento influenzata dal naturalismo classicista di Massimo
Stanzione. De Dominici ha imbastito una rocambolesca vicenda e racconta che
Annella, allieva di Massimo Stanzione, fosse la pupilla del maestro, il quale
si recava spesso da lei, anche in assenza del marito per controllare i suoi
lavori e per elogiarla. Una serva della pittrice, che più volte era stata rimproverata
dalla padrona per la sua spudoratezza, irritata da ciò, avrebbe riferito,
ingigantendone i dettagli, della benevolenza dimostrata dal «Cavaliere» verso
la discepola, scatenando la gelosia di Agostino, il quale accecato dall’ira,
sguainata la spada, le avrebbe trafitto il seno. In seguito a questo episodio
Beltrano, pentito dell’enormità del suo gesto ed inseguito dall’ira dei parenti
di Annella, si rifugiò prima a Venezia e poi in Francia dove visse molti anni
prima di ritornare a Napoli.
Fin qui la fervida fantasia di De Dominici, ma a fugare tutti
i dubbi sulla morte romanzesca Diana esiste l'atto di morte, nel quale si
dichiara che la pittrice morì di malattia il 7 dicembre 1643, dopo una vita di
successi professionali che le permise di lasciare ai figli una discreta somma
di denaro guadagnata in tempi diversi da lei e dal marito Agostino Beltrano.
Il nomignolo di «Annella di Massimo», ritenuto anch’esso
pura invenzione di De Dominici è invece dell’epoca in cui visse, essendo stato
rinvenuto in alcuni antichi inventari in cui sono riportati come dipinti della
mano di «Annella di Massimo».
È rischioso tuttavia attribuirle delle opere,
difficilmente riconoscibili in quelle oggi riconducibili alla cerchia di
Pacecco o a quella di Stanzione. La mancanza di date e di documenti da
legare a opere sicure rende, infatti, assai problematica l'indagine sulla
personalità artistica di Diana e anche le attribuzioni tradizionali spesso si
rivelano prive di fondamento. Sebbene citata
dalle fonti e resa famosa dall’aneddoto sulla sua morte violenta, Annella è tuttora
«una pittrice senza opere» che le si possano attribuire con certezza. Le
maggiori difficoltà nell’identificare opere sicure di Annella nascono dal fatto
che ella collaborava attivamente ad opere sia di Stanzione sia di suo marito,
senza però quasi mai completarle.
La tradizione le assegna, oltre ai lavori nel soffitto
della Pietà dei Turchini, anche un dipinto per la chiesa di Monte Oliveto, oggi
nota come S. Anna dei Lombardi, ed uno nella sacrestia della chiesa di Santa
Maria degli Angeli a Pizzofalcone: di queste opere di cui oggi non c’è più
traccia.
Nel 1969 Roberto Longhi, nel suo saggio di apertura sul naturalismo
napoletano, per primo tentò una ricostruzione meditata del corpus della pittrice sulla scorta di un monogramma
intrecciato ADR a da lui identificato sotto un pregevole quadro,
rappresentante l’Ebbrezza di Noè, della
collezione Calabrese a Roma ed oggi di ubicazione ignota. Per affinità
stilistica egli assegnò così altre tele alla pittrice: nell'opera,
oltre che nell'Isacco che benedice Giacobbe, già nella collezione Majetti,
individuava caratteri di evidenza
velasqueña e una resa naturalistica così possente da parere scaturita da
Ribera. Intorno a questi due dipinti, cui Longhi collegò il Martirio di S. Ignazio di Antiochia della Galleria Borghese di Roma,
attribuito invece a Francesco Fracanzano, e il Filosofo di Palazzo Bianco a Genova, ruotò il
dibattito critico successivo.
Alcune contraddizioni indussero, infatti, Raffaello Causa
a respingere la tesi di Longhi di riconoscere nella sigla «ADR», le iniziali
della pittrice, perché ella si chiamava Dianella e non Annella. Anche Bologna,
ha ritenuto che essa fosse apocrifa, «anche nel ductus grafico» ricollocando piuttosto
le opere assegnate da Longhi ad Annella al catalogo di Filippo Vitale e della
sua cerchia.
Oggi le uniche opere che ragionevolmente possono essere
assegnate ad Annella sono le due tele che, nella Chiesa della Pietà dei
Turchini, si possono vedere ai lati dell’altare e che probabilmente sono le
stesse che De Dominici collocava nel soffitto decorato da una serie di dipinti
su tela commissionati entro il 1646 a Giuseppe Marullo. Le due tele
rappresentano la Nascita della Vergine
e la Morte della Vergine e De
Dominici le assegna ad Annella De Rosa, per la cui commissione presso i
governatori della chiesa si era mobilitato lo Stanzione in persona. Tra le due
tele c’è un divario di qualità: la Morte
della Vergine mostra un livello artistico ed una cultura figurativa non di
tipo stanzionesco quanto piuttosto affine al linguaggio figurativo proprio di
Vitale ancora caravaggesco.
Un tentativo di allargarne lo scarno catalogo di Annella è
stato compiuto recentemente da Giuseppe Porzio, il quale, nel redigere la
scheda di uno Sposalizio della Vergine,
proveniente dalla chiesa di San Giovanni Maggiore ed oggi nelle sale del museo
diocesano di Napoli, ha sottolineato “il ripetersi degli stessi tipi
fisiognomici tra il quadro in esame e la Nascita
della Vergine” ed ha pensato di attribuire, anche se col beneficio del
dubbio, l’opera alla De Rosa; ipotesi coraggiosa, che può essere parzialmente
accolta ipotizzando una collaborazione col marito che giustificherebbe la
facies beltranesca che promana chiaramente dal dipinto.
Ciro Fiorillo
nel 1984 ha riproposto l'attribuzione a Diana delle tele longhiane
affiancandole a un Autoritratto di
una collezione privata londinese, a un Martirio
di S. Bartolomeo di una collezione privata napoletano, a una tela
dello stesso soggetto proveniente dal Museo nazionale di Reggio Calabria e
al S. Sebastiano curato del
Museo di belle arti di Rouen
Nessun commento:
Posta un commento