domenica 20 gennaio 2013

Ritratti celebri nei secoli XIII e XIV Di Massimo Capuozzo

Nel Medioevo l’interesse per il ritratto decadde e le caratteristiche dell’individuo si trasformano in una tipologia fissa, fatta di pochi tratti sommari. Anche nel caso di ritratti di uomini illustri e potenti il riconoscimento avviene grazie agli attributi, ossia gli oggetti simbolo che si riferiscono al loro ruolo, come lo scettro, la corona, l’armatura o gli abiti sfarzosi.
Dal XIII secolo, con l’emergere dei nuovi ceti borghesi dediti all’artigianato e al commercio, il ritratto naturalistico riapparve nei dipinti a soggetto sacro, dove i signori usavano farsi rappresentare in veste di donatori in preghiera.
Le loro immagini, dapprima minuscole, diventeranno nel corso del tempo  sempre più grandi, fino ad eguagliare le proporzioni dei santi e delle divinità. Una maggiore attenzione alla resa dei tratti fisionomici, preludio alla svolta rinascimentale, si evidenzia in genere nella scultura fiorita sotto il regno di Federico II e, in particolare per quel che riguarda il ritratto.

Il Busto di Federico II del 1230 del Museo Civico di Barletta, ci ricorda la passione dello stupor mundi per la cultura classica. Federico è ritratto, con probabile somiglianza, in abiti imperiali: indossa la clamide, fermata sulla spalla da una fibula. Il volto ruotato lateralmente, i capelli raccolti in piccole ciocche sotto una corona di alloro ad imitazione dei ritratti di età augustea. L’ambizione di Federico II, infatti, era quella di recuperare l'immagine imperiale romana e di rinnovarla nel presente, come preciso modello politico oltre che artistico. Il busto del sovrano, sebbene sia in pessime condizioni, lascia ampiamente intuire lo sforzo di un'imitazione fisionomica motivata dalla volontà di rifarsi a precisi modelli classici. L'attenzione al modello imperiale romano non era soltanto appannaggio di sovrani, laici come Federico II, ma emergeva anche dalle scelte dei pontefici, come per esempio Bonifacio VIII che volle farsi ritrarre da Arnolfo di Cambio nella statua frammentaria a fianco del sacello funebre demolito nel vecchio San Pietro Vaticano. Il valore dell'opera, tuttora esistente, oltre a quello devozionale, significava una presenza perenne, come il simulacro dell'imperatore al centro della città.
Una delle principali ragioni del ritratto continuava a essere quella di perpetuare i volti del sovrano o del pontefice che in quel momento rappresentavano il potere temporale e spirituale.
Tuttavia, il ritratto serviva anche a immortalare i committenti.

È il caso di Enrico Scrovegni, ritratto da Giotto nella cappella dell'Arena a Padova dedicata alla Vergine della Carità, tema caro alla confraternita dei Frati Gaudenti, dediti a combattere l’usura, confraternita di cui faceva parte Enrico degli Scrovegni. Enrico era un banchiere ricchissimo e la grande spesa effettuata per costruire e decorare la cappella permetteva di riscattare l'anima del padre Reginaldo dalle pene ultraterrene cui sarebbe stato destinato in quanto notoriamente usuraio – Dante lo colloca nell'Inferno proprio tra gli usurai – e nello stesso tempo, di allontanare da se stesso il rischio di andare incontro alla medesima sorte, essendosi anch'egli macchiato di quel peccato, senza la fatica del lavoro. Nella scena della dedica della Cappella alla Vergine il gesto di Enrico aveva appunto il significato di restituire simbolicamente quanto era stato lucrato mediante l'usura, condizione posta dalla Chiesa per la remissione di quel peccato. Tornando alla scena della dedicazione, Enrico veste il viola, colore della penitenza, ma si fa collocare nel settore destinato ai beati, sotto l'immagine protettrice della croce.

È il caso della devozione di un re come la celeberrima Pala di San Ludovico da Tolosa incorona il fratello Roberto d'Angiò del 1317 di Simone Martini della Galleria Nazionale di Capodimonte: la ricca decorazione e i vivaci colori si stagliano sul fondo d'oro e concorrono a creare una scena in cui il motivo religioso svanisce rispetto all'esaltazione della regalità dei personaggi. San Ludovico, figlio del re di Sicilia Carlo II d'Angiò e di Maria di Ungheria, a Montpellier, ad inizio 1296, rinunziò alla corona di Napoli scegliendo la strada religiosa, che intraprese nel maggio dello stesso anno. Al suo posto ascese al trono il fratello Roberto, ma forti furono le contestazioni e le voci di usurpazione, tanto che si arrivò ad un processo presso la corte pontificia. Il Papa si pronunciò a favore, ma le polemiche non si placarono, soprattutto negli ambienti ghibellini. La santificazione di Ludovico, avvenuta il 7 aprile 1317 sotto il pontificato di papa Giovanni XXII, diede modo al nuovo re di Napoli di validare la propria legittimità al trono. Simone Martini valutò l'importanza dell'avvenimento ed impostò il suo concetto nel modo più razionale ed espressivo, mettendo in relazione sul piano figurativo le due alte investiture — terrena e celeste — che riconosceva come inseparabili anche nel pensiero di Roberto. L'opera è costituita da tavola grande, dove è raffigurato il santo, e una predella in cui sono narrate le sue storie. L'episodio principale è descritto nella sua quasi totalità dalla maestosa immagine di San Ludovico da Tolosa, assiso in trono e notevolmente adornato con vesti episcopali la cui apertura scopre il saio francescano. Il Santo è incoronato da due angeli nel momento in cui sta porgendo una corona sul capo di Roberto d'Angiò, suo fratello minore. Il dipinto, realizzato in occasione della sua santificazione, è dunque una celebrazione del Santo, ma anche quella della dinastia della famiglia angioina. Nella composizione tutto diventa aulico, regale e pregiato: la sontuosità del mantello in broccato rifinito con elegantissime bordure dorate, il prezioso casellamento di gemme sul pastorale e sulla mitra, la raffinatezza delle due corone che sembrano fondersi con lo stesso cromatismo dorato dello sfondo. Simone Martini dimostra in questo dipinto di avere una grande sensibilità e capacità di raffigurare le varie materie, come le stoffe con i relativi ricami, i gigli della famiglia Angiò, il tappeto di motivo orientale disteso sul pavimento, i pregiati metalli delle oreficerie, gli intarsi della pedana in legno sotto il trono.

È il caso ancora delle gesta di un condottiero, come il celeberrimo Guidoriccio da Fogliano che Simone Martini celebra nel suo affresco per il vittorioso assedio di Montemassi del 1328. L'opera mostra il comandante delle truppe senesi, Guido Ricci o Guidoriccio da Fogliano di Reggio Emilia, rappresentato a cavallo, di profilo, mentre si reca all'assalto del Castello di Montemassi in Maremma, episodio avvenuto nel 1328. Sullo sfondo la rappresentazione di un paesaggio piuttosto realistico con montagne, un accampamento e le località interessate dagli eventi. In quest’opera si mescola un'ambientazione fiabesca con un acuto senso della realtà, il ritratto del condottiero diventa una metafora della potenza senese, non un ritratto realistico, e il paesaggio circostante ha un valore simbolico, con elementi tipici della guerra (steccati, accampamenti militari, castelli), senza alcuna figura umana. La doppia valenza simbolica e di celebrazione individuale richiama alla pala di San Ludovico.
Massimo Capuozzo

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