Durante l’Alto Medioevo, il ritratto subì un ampio processo di
trasformazione.
Rispetto
all’arte romana in cui questo genere figurativo aveva raggiunto una notevole complessità
e un’eccezionale capacità illusionistica, il volto umano, ma in generale
l’immagine, subì un possente processo di idealizzazione e di astrazione.
Questo
processo di trasformazione dell’immagine – nella fattispecie di quella dell’Imperatore
e del potere imperiale – cominciò dal IV secolo: da un individuo
realisticamente caratterizzato si andò verso un tipo dai caratteri fissi, espressione del potere assoluto.
Una funzione fondamentale fu svolta dalla contaminazione dell'arte
bizantina, che da un lato tramandò la fissità ieratica dei volti, dall'altra
permise il recupero di un'impostazione classicista come dimostra l’Avorio Barberini.
Conservato al Museo del Louvre,
questo bellissimo manufatto propone il ritratto equestre Anastasio I e recupera
schemi e parametri propri della classicità più matura. Databile al primo
quarto del VI secolo ed attribuita
ad una bottega imperiale di Costantinopoli, questa
splendida operina raffigura il tema classico dell'imperatore trionfante,
molto probabilmente l’immagine di Anastasio
I Dicoro, imperatore dal 491 al 518.
L’intera
composizione è organizzata intorno al pannello centrale che raffigura l’imperatore
a cavallo che nella destra regge una lancia e nella sinistra le redini del suo cavallo
da battaglia. Dietro la lancia si distingue una figura di barbaro, riconoscibile
come tale per la capigliatura e per la folta barba, ma soprattutto per il suo
abbigliamento: un copricapo ricurvo, simile ad un berretto frigio per indicare la sua
origine orientale, una tunica con le maniche lunghe e brache. Il barbaro, un persiano o uno scita, toccando la lancia con la
destra e sollevando la sinistra, simboleggia la sottomissione dei popoli vinti dall'imperatore.
In basso a destra, sotto il cavallo, una donna è seduta a terra con le gambe
incrociate: il suo vestito, sfuggito via, mostra il seno scoperto, con la mano sinistra
regge un lembo della veste con cui porta dei frutti, simbolo di prosperità, e
con la destra sostiene il piede destro dell'imperatore, in un gesto di
sottomissione. La donna rappresenta la Terra,
che raffigura sia il dominio universale dell'imperatore sia la prosperità del
suo regno – i frutti che porta – è una metafora frequente nelle immagini
dell'imperatore in maestà trionfante. Simmetricamente a questa prima figura
femminile, nell'angolo superiore destro della lamina eburnea, è raffigurata una Vittoria alata, in piedi su di un globo su cui
è incisa una croce, che tiene nella sinistra una palma, simbolo di trionfo. Anche questa personificazione
è un motivo iconografico obbligato delle raffigurazioni dell'imperatore
trionfante. La scena è dominata dall'imperatore che indossa una corona decorata
di perle: i tratti del suo viso sono abbastanza pesanti, specie le sopracciglia
e il naso, ma conferiscono al ritratto un aspetto sorridente. Il sovrano indossa
l’abbigliamento militare tipico del comandante in capo dell'esercito: una
tunica corta sotto la corazza, e, su questa, il paludamentum, con un lembo che
svolazza dietro la sua figura, fermato sulla spalla da una fibula rotonda, in origine decorata con una
pietra preziosa come la corazza; i calzari hanno i lacci incrociati e sono
decorati da una testa di un leone. I finimenti del cavallo sono decorati con
medaglioni. Il rilievo del motivo centrale è particolarmente accentuato: la
Vittoria, la lancia e le teste dell'imperatore e del cavallo, sono scolpite
quasi a tutto tondo. La cura usata nel disegnare i drappeggi, così come nel
modellare alcuni dettagli anatomici come i muscoli delle gambe dell'imperatore
sono classicheggianti. Queste caratteristiche servono a porre l’accento sulla
maestà della persona imperiale, un tema tipico dell'arte teodosiana e
protobizantina.
Lentamente,
pur conservando i temi consacrati dalla tradizione antica, dalla fine del VI
secolo e soprattutto alla vigilia della crisi iconoclastica, l’estetica
bizantina tese a sostituire alle abituali formule romane un’iconografia
simbolica cristiana ed anche l’arte profana cominciò ad ubbidire alle stesse
norme dell’arte religiosa.
Pur
assegnando la giusta importanza alle modifiche stilistiche introdotte in
periodi e regioni diverse, permeate in misura differente dall’arte barbarica, l’estetica
bizantina impose alcuni tratti essenziali. La figura umana cominciò ad essere smaterializzata, il peso e il volume si
attenuarono e nello stesso tempo se ne limitò il movimento. I personaggi tesero
sempre più ad essere rappresentati frontalmente e tutta la loro vita si
concentrò nello sguardo intenso, diretto verso lo spettatore. Tutto ciò che è
accidentale, contingente, fu eliminato e le composizioni si collocarono in un
mondo bidimensionale, privo di ogni rapporto col mondo materiale. Questo distacco
tra immagine e realtà fu reso totale dalla
monocromia degli abbacinanti sfondi d’oro e dalla mancanza di un piano
d'appoggio per le figure che, pertanto, appaiono sospese come se fluttuassero
nello spazio.
Pian
piano si era passati dalla diversità degli individui a pochi tipi con caratteri
fissi e con attributi che li potessero rendere facilmente riconoscibili e, allo
stesso tempo, la figura umana cominciò ad essere costruita ricorrendo a una
geometrizzazione – tipica di tutte le età barbariche e di tutti i barbarismi –
con un valore prettamente simbolico funzionale all’avvicinamento dell’uomo a
Dio, mentre il ritratto per eccellenza diventò – e lo fu per molti secoli – il
ritratto di Cristo.
Il
ritratto dunque non era sparito del tutto, continuò ad esistere, ma riguardò
soprattutto determinati personaggi, quelli investiti di una missione superiore. Era diventato, però un
ritratto tipico non autentico ed i tipi erano i papi, i
vescovi, i re, gli imperatori. Si affermava un naturalismo nuovo, di tipo medievale,
che sostituì il naturalismo ereditato dai classici, un naturalismo che si può
definire simbolico. Il filone classicista, sia
pure compresso nella nuova espressività di contaminazione barbarica, riemerge di
tanto in tanto come un fiume carsico, condizionando di volta in volta la
ritrattistica di corte la quale si avvantaggiò di precise formule di
riconoscimento più che di una ricerca fisionomica vera e propria.
È
quanto accadde per esempio nei ritratti dei Papi, rappresentati nella basilica
di San Paolo fuori le mura in serie continue di immagini per dimostrare che
ogni singolo papa è l’elemento di una serie ininterrotta e per mostrare,
attraverso la continuità dei vari papi succedutisi nel tempo, la legittimità
del potere papale.
È quanto accade con i ritratti di Carlo Magno, sparsi in
codici e manufatti che conducono fino al celebre bronzetto equestre conservato
ad Aquisgrana in cui il modello seguito è palesemente quello del romano Marco
Aurelio. Il
bronzetto, nonostante le ridotte dimensioni, riecheggia i monumenti equestri
dell’antichità classica dalle manifeste implicazioni politiche. Siffatta tipologia
qualifica, infatti, significativamente il personaggio rappresentato, che alcuni
identificano con Carlo Magno, altri con uno dei suoi successori.
Allo
stesso modo, il ritratto dell'imperatore Ottone III lascia intuire come proprio
l'apparato iconografico determina l'inequivocabile riconoscimento del
personaggio e non la capacità imitativa della fisionomia. Le due figure di
Ottone II e di Ottone III sono, infatti, quasi uguali.
In una miniatura
della fine del X secolo oggi al Musée
Condé di Chantilly, Ottone II è ritratto seduto in trono e regge le
insegne del potere sia temporale sia spirituale. Le figure al suo fianco simboleggiano
le province della Slavonia, della Gallia, della Germania e di Roma. Il globo con la croce
simboleggia il potere spirituale mentre lo scettro il
potere temporale.
Così Ottone III, in
un’altra miniatura della fine del X secolo appartenente all’Evangeliario di
Bamberga, uscito dallo scriptorium di Reichenau e oggi alla Biblioteca di Monaco,
circondato dai grandi dell’Impero: l’imperatore è raffigurato in trono con le
insegne del potere (la corona, lo scettro, il globo) altri simboli sono la
tunica scarlatta ed il mantello, mentre il prezioso drappo che sta alle spalle
del sovrano è un drappo d’onore, derivato dalla tradizione romana e passato
nell’iconografia cristiana per designare il particolare rango di alcune figure
sacre, come per esempio la Vergine. Come l’imperatore anche i dignitari che lo circondano
sono raffigurati non come individui, ma come tipi: a sinistra due chierici e a destra due laici, in ciascuno dei
gruppi uno è più anziano e l’altro, messo un passo indietro, più giovane. I
chierici stanno a indicare la sottomissione dei vescovi-conti, mentre i laici
sono chiaramente connotati come condottieri. Il forte impianto gerarchico
dell’immagine è ribadito dalle dimensioni, per cui l’imperatore appare più
grande dei suoi vassalli. La funzione di una simile immagine è quella di
mostrare il potere dell’imperatore e la coesione del suo regno nelle varie
parti che lo costituiscono.
Alla
base di questa scelta iconografica c'è una difficoltà tecnica, aggirata
facilmente grazie a segni convenzionali di riconoscimento che possono giungere
fino alla scritta vera e propria del nome.
È il
caso dell'immensa Croce di Ariberto, oggi nel Museo
del Duomo
a Milano donata dall'arcivescovo Ariberto d’Intimiano alla chiesa di S. Dionigi
tra il 1037 e il 1039: alla base di questo
crocifisso di metallo, sotto gli enormi piedi del Cristo, c'è una piccola figura
a sbalzo dorato che raffigura lo stesso vescovo committente: ricurvo, ripreso
nell'atto di offrire la chiesa di San Dionigi, il vescovo non sarebbe
identificabile se non ci fosse la scritta «Aribertus Indignus Archiepiscopus» sul
capo del presule.
In
altri casi il contesto e l'abbigliamento facilitano il riconoscimento del
personaggio ritratto, così come accade, per esempio, nel duomo di Monreale,
dove Guglielmo II indossa una veste e una corona che, al di là della scritta,
lo rendono immediatamente identificabile.
La decorazione di Monreale, realizzata fra il 1180 e il 1190 – differenze stilistiche tra le varie
raffigurazioni hanno fatto ipotizzare che più
squadre di mosaicisti, direttamente provenienti dal mondo bizantino o forse da
cantieri locali, lavorassero alla loro realizzazione – quando pensieri e
modi occidentali cominciarono ad intaccare il tessuto orientale arabo e
bizantino dell'arte siciliana, testimonia un nuovo afflusso di maestranze
bizantine in Sicilia legate al giro della cultura,
sviluppatasi nell'età tardo-commena le cui tendenze estetiche mostrano una più
spiccata accuratezza realistica, nel desiderio di conferire un accento
personale ai tipi fissati da una lunga tradizione, nell’interpretazione degli
episodi, nei quali i sentimenti di dolore e tenerezza sono espressi con maggior
fervore: i corpi più snelli, hanno perduto l’impianto monumentale, le pieghe
agitate dei drappeggi denunciano il movimento ed il tracciato grafico accentua
l’espressione dei volti. Le scene di Monreale
e nello specifico quella dell’Incoronazione di re Guglielmo e quella
della Dedicazione della chiesa alla
Theotókos da parte del re – rispettivamente collocate sul pilastro sinistro e su quello destro dell’arco di
trionfo che divide il coro dalla zona absidale - si caratterizzano per un andamento
rapido e movimentato, servito dalla continua frammentazione della linea, dal
risalto dei colori non più stesi in zone locali statiche e circoscritte.
Tra gli sfavillii
delle tessere, Guglielmo compare effigiato riccamente e vestito alla bizantina, ai piedi della Vergine
mentre le offre il modellino della chiesa imitando, quasi provocatoriamente, la
rappresentazione regale del nonno Ruggero II, raffigurato analogamente nella
Martorana all’epoca di Giorgio di Antiochia.
Nell’Incoronazione
di re Guglielmo il sovrano è ritratto nell’atto
di essere incoronato da Cristo con l’ausilio di due angeli. Nelle intenzioni del sovrano questa struttura
doveva assolvere alla funzione di pantheon regale della dinastia
normanna, centro monastico di fondazione regia e chiesa di rappresentanza della
monarchia siciliana connessa al palazzo reale sul modello di Santa Sofia per
gli imperatori bizantini.
Il pannello, dunque, è opera direttamente commissionata dal sovrano
e preposta ad assolvere al ruolo di sua immagine ufficiale e dunque la scena
rappresentata è da interpretarsi in chiave prettamente politica, come conferma
anche il passo dal quale è tratto il versetto biblico che accompagna la figura
di Cristo.
Le due raffigurazioni di Guglielmo,
parti integranti di un unico palcoscenico che pone in scena in maniera
monumentale la monarchia normanna, la tradizione biblica e l’autorità vescovile,
sono collocate quindi in un luogo altamente
caratterizzato in senso pubblico ed ammantato di un altissimo valore
simbolico – in quanto spazio generalmente riservato ai soli ecclesiastici. In
questo senso, esse non si limitano a commemorare nel re il fondatore della
chiesa, ma ne compiono una vera e propria celebrazione e glorificazione.
Il sovrano è rappresentato nell’atto di essere incoronato da Cristo con
l’ausilio di due angeli che recano
dall’alto dei Cieli il labarum ed il
globo. Inoltre, grazie ad un’iscrizione riportata di lato alla testa del
re, si mette in scena lo stretto legame che intercorre tra lui e Cristo stesso.
Cristo, raffigurato sulla destra, è
identificato dal monogramma greco IC XC – IHCOYC XPICTOC –. Il sovrano, posto sulla sinistra, è
contraddistinto dalla scritta REX GVILIELMVS S[E]C[VN]D[VS].
Tra i due personaggi c’è l’iscrizione:
MANVS ENI[M] MEA AVXILIABITVR EI. Tale frase è tratta dalla Bibbia e si
riferisce alla promessa fatta da Dio a Davide per mezzo del profeta Natan.
La scena si svolge entro uno sfondo
interamente realizzato a tessere musive color oro. Nella parte in alto sono
raffigurati due angeli, alati, completamente vestiti da una lunga tunica bianca
e con la testa aureolata, che scendono dal Cielo con in mano un lungo scettro a
forma di labarum terminante con un
pomolo rettangolare ed un globo ornato di perle e con una croce, composta
anch’essa di perle, inscritta al suo interno. La volta celeste è resa
attraverso una sorta di tendone di forma convessa, posto orizzontalmente e
colorato di blu con il bordo inferiore a color avorio e bianco. Cristo è
raffigurato seduto su un trono di legno intarsiato e dorato, ornato di perle,
con la seduta coperta da preziosi cuscini blu e rossi e terminante con un poggiapiedi,
ornato di gemme di varia foggia e da un ampio cuscino di colore verde. La sua
testa è avvolta da un’ampia aureola con una croce, incrostata di perle e gemme,
inscritta al suo interno. Addosso veste una lunga tunica color porpora coperta in
parte da un ampio mantello blu che si apre, all’altezza della spalla destra,
per liberare il movimento del braccio. Infine porta due calzari piuttosto semplici che gli lasciano i piedi in
gran parte nudi. La mano destra pone la corona sulla testa di Guglielmo
mentre la sinistra sorregge il libro dei
Vangeli aperto al passo: EGO SVM LVX MVNDI QVI SEQVITVR ME. La frase è tratta dal Vangelo di Giovanni.
Massimo Capuozzo.
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