Il
ritratto serviva anche a immortalare i committenti e a far trasmettere
particolari messaggi.
È il
caso di Enrico Scrovegni, ritratto da Giotto nella cappella dell'Arena a Padova
dedicata alla Vergine della Carità, un
tema caro alla confraternita dei Frati
Gaudenti, dediti a combattere l’usura.
Di questa confraternita faceva parte Enrico degli Scrovegni, mercante e banchiere ricchissimo, e la grande spesa che egli fece
per costruire e decorare la cappella permetteva di riscattare l'anima del padre
Reginaldo dalle pene ultraterrene cui sarebbe stato destinato, perché
notoriamente usuraio – Dante lo collocò nell'Inferno proprio tra
gli usurai; nello stesso tempo, permetteva di allontanare da se stesso il
rischio di andare incontro alla medesima sorte, essendosi anch'egli macchiato
di quel peccato, senza la fatica del lavoro. Nella scena della dedicazione della
Cappella alla Vergine il gesto di Enrico Scrovegni, raffigurato mentre
dona a tre angeli il modellino dell’oratorio da lui fatto erigere e decorare da
Giotto, aveva appunto il significato di
restituire simbolicamente quanto era stato guadagnato mediante l'usura,
condizione posta dalla Chiesa per la remissione di quel peccato.
L’idea tradizionale,
ripetuta di recente anche in un volume statunitense – A. Derbes - M. Sandona, The usurer's heart: Giotto, Enrico Scrovegni, and the
Arena Chapel in Padua, Pennsylvania State University Press, 2008 –
è nota e di recente è stata confutata. La teoria secondo la quale Enrico,
usuraio e figlio di un usuraio, considerava la cappella come un’espiazione per
il peccato di usura del padre e che il giudizio di Dante avesse rivestito un
ruolo nella decisione del ricco patrono per fare ammenda della sua vita
scellerata passata ad accumular denaro, non regge: il canto dell’Inferno fu,
infatti, composto dopo l’esecuzione degli affreschi, in un contesto politico –
con Dante amico di Cangrande della Scala, nemico della guelfa Padova – di odio partigiano
verso il committente degli affreschi.
Non solo i nobili
sentimenti religiosi mossero
Scrovegni che non era poi così pentito
e devoto quindi la cappella era più che altro un monumento auto celebrativo.
La prova di questa teoria sarebbe costituita dalla statua del
mercante, che attualmente si trova nel museo degli
Eremitani adiacente la cappella. È possibile ipotizzare che Enrico Scrovegni,
ricchissimo e orgoglioso di esserlo, sceglie la cappella e i suoi affreschi
come maestosa autorappresentazione e celebrazione del suo potere e della sua
ricchezza, prezioso dono alla comunità padovana, a cui proporsi, forse, quale
nuovo signore.
Nella
scena della dedicazione, Enrico veste
il viola, colore della penitenza, ma si fa collocare nel settore destinato ai
beati, sotto l'immagine protettrice della croce. Il donatore è inoltre della stessa
scala dei personaggi sacri, ma il volto non è molto caratterizzato e distinto
dagli altri.
Giotto
non appare eccessivamente impegnato a descrivere le fattezze dei personaggi nel
ritratto, infatti, il suo principale interesse è non tanto quello di cambiare
gli schemi di rappresentazione dei singoli soggetti, quanto di razionalizzare
la rappresentazione, organizzandola in uno spazio misurabile, in cui gli
elementi si disponessero organicamente e non secondo principi gerarchici o
secondo la funzione e l’importanza dei personaggi. L’evidente resistenza giottesca,
a dare spazio ai ritratti di contemporanei può risiedere nei caratteri della
società fiorentina del tempo: mentre una società retta da un regime monarchico
è favorevole al ritratto perché queste immagini possono avere un’utilizzazione
strumentale, di propaganda e affermazione del potere personale e della sua
dinastia, questa stessa funzione celebrativa del singolo non era gradita invece
in una società più democratica, dove
il potere spettava a magistrature collettive ed elettive.
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