domenica 24 febbraio 2013

Piero della Francesca ritrae Sigismondo Malatesta Di Massimo Capuozzo


Il Ritratto di Sigismondo Malatesta di Piero della Francesca (1416/7-1492), dal 1978 al Louvre, riprende l'immagine ufficiale del principe, così come era fissata dalle medaglie di Pisanello del 1445 e ci trasporta tra i fulgori del Rinascimento negli anni intensi e tormentati, fastosi e contraddittori della Signoria di Sigismondo Malatesta.

Questa bellissima tavola si deve mettere in relazione con un affresco eseguito nel 1451 da Piero nel Tempio Malatestiano di Rimini, un affresco che raffigura il condottiero, di profilo, inginocchiato davanti al suo santo patrono Sigismondo, re dei Burgundi.
Sigismondo Malatesta (1417-1468), Signore di Rimini dal 1432 al 1468, fu uno dei condottieri più brillanti dei suoi tempi, dispotico e sprezzante, perennemente in guerra con gli Aragona e con i confinanti Montefeltro. Troppo orgoglioso dei suoi successi, attirò su di sé l’astio del Papa Pio II Piccolomini che lo osteggiò in tutti i modi, che lo dipinse coram populo come eretico e colpevole di «omicidio, stupro, adulterio, incesto, sacrilegio, spergiuro» e di infiniti altri «turpissimi e atrocissimi misfatti», e che lo scomunicò nel 1460.
Le sue lotte contro il papato gli guadagnarono una reputazione di crudeltà e di paganesimo. Su di lui è stato detto tutto e il contrario di tutto: volgare assassino, brillante mecenate e intrepido capitano, più belva che uomo tanto da essere soprannominato il lupo di Rimini, Sigismondo fu troppo temuto e troppo invi­diato in vita per meritare di essere adeguata­mente giudicato dopo morto. Questa in fondo è la causa che nasconde la sua vera anima la quale denota tuttavia – i più recenti studi lo provano – una singolare fusione di ciechi istinti e di raffinata intelligenza. Sigismondo non ha avuto particolare favore da parte degli storici, che lo hanno di solito liquidato come un tiranno della peggior specie. Da questo punto di vista, memorabile è il ritratto lasciatoci da Jacob Burckhardt (1818-1897) ne La Civiltà del Rinascimento in Italia, dove lo studioso svizzero accusa il principe romagnolo di ogni possibile nefandezza, trasformandolo nel simbolo stesso dell’immoralità rinascimentale.
Ma atteniamoci ai fatti. Figlio illegittimo di Pandolfo III, Sigismondo era cresciuto in una famiglia colta, legata agli ambienti umanistici, ma una famiglia di uomini di uomini d’armi. Ancora adolescente dovette già lottare per emergere negli ambienti infidi delle corti rinascimentali lombarde e romagnole, combattendo come mercenario al servizio del miglior offerente. Nel 1429 ottenne in eredità dallo zio Carlo I Malatesta la zona di Rimini, Fano e Cesena.  Nel 1430, appena tredicenne, sconfisse a Serrungarina l'esercito pontificio capitanato da Sante Carrillo, mosso alla conquista dello stato malatestiano con il pretesto di recuperare certe somme dovute dal defunto Carlo Malatesta. Di poco successive sono due gravi rivolte: l'una a Cesena, sobillata dal parente Giovanni di Ramberto Malatesta, l'altra, scoppiata a Fano su istigazione del prete Matteo Buratelli ed entrambe sedate coraggiosamente da Sigismondo che, nel caso di Fano, riportò gravi ferite al costato da pugnalate, che non gli permisero di assistere all’esemplare punizione, che seguì la fine della sedizione. Secondo una leggenda, Sigismondo avrebbe sodomizzato il parroco davanti a testimoni, prima di avviare il colpevole alla giustizia del podestà. Nella realtà, Buratelli fu degradato da un consesso di sette vescovi, consegnato alla giustizia secolare ed impiccato nella piazza della fontana di Rimini con quattordici suoi compagni. Dal 1430 al 1450 Sigismondo ampliò il suo stato con il recupero di Cervia e la conquista di Senigallia e di Mondavio. Prendeva così forma l'ambizioso disegno di Sigismondo di costituire sotto la propria dinastia un forte e durevole stato fra Romagna e Marche. I confini del territorio furono contrassegnati da una lunga serie di rocche fortificate, che ancora oggi rendono pressoché unico il paesaggio della regione marchigiano-romagnola. I problemi per Sigismondo cominciarono quasi subito: minacciato dai Montefeltro di Urbino, dovette costantemente allearsi con stati più ricchi e potenti, in un gioco diplomatico spregiudicato e pericoloso. Dopo aver sostenuto i veneziani contro Francesco Sforza, si alleò con i fiorentini, aiutandoli a respingere con successo l’invasione aragonese dei loro domini. Questo scatenò l’odio di Alfonso d’Aragona, che lanciò nei suoi confronti una pesantissima campagna diffamatoria, presentandolo come perfido assassino e volgare doppiogiochista. Questo disegno così ambizioso subì una prima battuta di arresto dopo la sua esclusione dalla Pace di Lodi del 1454, che sanciva la fine delle guerre in Italia e poneva pure in rilievo le potenze maggiori, quelle che si spartivano l'Italia. La sua marginalizzazione fu dovuta ad Alfonso d'Aragona, che dichiarò di volersi escludere dal patto, qualora vi fosse stato incluso Sigismondo Malatesta. La seconda battuta d’arresto nel 1458, con l'ascesa al pontificato di Pio II Piccolomini, suo implacabile nemico, che determinò il collasso definitivo della signoria di Sigismondo. La propaganda anti-malatestiana ebbe notevole successo anche per la sregolatezza privata del condottiero riminese, che si sposò ben tre volte ed ebbe un numero impressionate di amanti e di concubine. Particolarmente chiacchierati, furono i matrimoni con Ginevra d’Este e con Polissena Sforza, entrambe morte in circostanze misteriose, infatti, nel 1461 Papa Piccolomini accusò apertamente Sigismondo di uxoricidio, reclamando direttamente i suoi possedimenti per la Santa Sede, di cui era vicario fedele da parecchi anni. Scomunicato come eretico e isolato diplomaticamente, Sigismondo combatté disperatamente contro le forze del Papa, ottenendo perfino una spettacolare vittoria a Nidastore contro un esercito numericamente superiore; ma alla fine dovette assistere impotente alla perdita di buona parte dei suoi territori per mano dell’odiato rivale Federico da Montefeltro. Nel tentativo di risorgere si unì a Venezia nella guerra contro i Turchi, senza però alcun risultato rilevante. I gravi errori di valutazione politica portarono in cinque anni alla totale dissoluzione dello stato e Sigismondo poté conservare solo la signoria di Rimini con una esigua porzione del contado. Morì cinquantunenne ed il suo corpo fu sepolto nella tomba del Tempio Malatestiano, incompiuto, come il suo progetto di ingrandimento dello Stato e del suo innalzamento alla gloria immortale.
Sigismondo fece di Rimini una corte raffinata, trasformandola in un importante centro del Rinascimento, con la presenza dei più grandi artisti dell’epoca.
Durante la sua signoria, la corte di Rimini brillò come i più prestigiosi centri culturali rinascimentali, anche perché Sigismondo non si limitò a svolgere la funzione di generoso e illuminato mecenate e grandioso committente, ma contribuì egli stesso al fervore intellettuale, componendo versi d’amore. Nella sua Rimini operarono artisti quali Filippo Brunelleschi, Roberto Valturio, che per Sigismondo compose il De Re Militari, ed inoltre una vivace schiera di letterati, grammatici, filosofi, giuristi, tra i quali Giusto da Valmontone, Tobia del Borgo, Giusto de’ Conti, il Porcellio, Tomaso Seneca e Basinio da Parma che celebrò le imprese di Sigismondo nell’originale poema latino Hesperis o Hesperidos: le vittorie riportate in due eventi bellici contro gli Aragonesi sono il punto di partenza per l’esaltazione di Sigismondo come campione della latinità contro i barbari.
Tra il 1447 e il 1450, Sigismondo fece trasformare, ad opera di Leon Battista Alberti (1404-1472), la chiesa riminese di San Francesco, tradizionale luogo di sepoltura dei Malatesta, in un mausoleo classicheggiante, un vero e proprio tempio dinastico.
Il progetto, sebbene rimasto incompiuto, ridefinì completamente l'edificio che fu rinnovato completamente, con il contributo di artisti come Matteo de' Pasti, Agostino di Duccio e Piero della Francesca.
Questo edificio è l'opera chiave del Rinascimento riminesestagione breve ma intensa che coincise tutta con la signoria di Sigismondo ed una delle architetture più significative del Quattrocento italiano in generale.  Leon Battista Alberti, al quale fu poi affidato il progetto di una nuova sistemazione architettonica esterna, comprendeva, secondo la testimonianza di una famosa medaglia, di Matteo de' Pasti del 1450 l'aggiunta di una rotonda all'estremità della chiesa, coperta da una cupola a imitazione di quella del Pantheon. Se il progetto fosse stato completato, la navata avrebbe allora assunto un ruolo di semplice accesso al maestoso edificio circolare, e sarebbe stato molto più evidente la funzione celebrativa dell'edificio. La struttura è a dir poco inaudita per quei tempi e in pratica unico in Italia. Il Malatesta, infatti, volle tale edificio unicamente come suo sepolcro, per la sua stirpe e per i dignitari a lui vicino, trasformandolo in un enorme monumento celebrativo di se stesso e della sua casata. La sua decorazione interna, paganeggiante, valse all’edificio il nome di Tempio Malatestiano. È qui che Piero della Francesca eseguì, nel 1451, l’affresco raffigurante Sigismondo, di profilo, inginocchiato ai piedi del suo santo patrono, culmine della glorificazione del committente, dove il tema religioso si intreccia con aspetti politici e dinastici, come nelle fattezze di san Sigismondo che celano quelle dell'imperatore Sigismondo del Lussemburgo, che nel 1433 investì il Malatesta come cavaliere e ne legittimò la successione dinastica, ratificandone la presa di potere.
I legami tra quest’affresco ed il ritratto del Louvre hanno spinto alcuni storici a pensare che Piero avrebbe potuto dipingere questo prima del 1451 ed utilizzare poi questo ritratto come modello per l’affresco.
Piero della Francesca era nato a Borgo San Sepolcro, allora nei territori dei Malatesta, soggiornò alla corte di Sigismondo nel 1451, quando dipinse l'affresco di Sigismondo in preghiera nel Tempio Malatestiano.

Al centro dell'affresco sta inginocchiato Sigismondo, ritratto di profilo e con le mani giunte, mentre prega san Sigismondo, re dei Burgundi e suo protettore, ritratto seduto in trono al di sopra di un gradino nella parte sinistra dell'affresco e reggente in mano i segni della sua dignità regale: lo scettro e il globo, oltre alla berretta sopra la quale si trova un'aureola scorciata in prospettiva. Le fattezze del santo e la particolare berretta (sopra la quale si trova l'aureola scorciata in prospettiva), ricordano quelle di Sigismondo di Lussemburgo, l'imperatore che nel 1433 investì Malatesta come cavaliere e ne legittimò la successione dinastica, ratificandone la presa di potere su Rimini. L'affresco aveva quindi una valenza tanto religiosa quanto politica.
Intorno al 1451 Piero eseguì anche il ritratto del signore.
Questa tavola, dalla quale emerge la durezza di Sigismondo, fu acquistata dal Louvre nel 1978. A Parigi il ritratto è stato sottoposto a un delicato restauro che, oltre a mettere in luce l’ottima qualità, ha ribadito l’attribuzione a Piero della Francesca. Dopo la rimozione delle ridipinture che ne offuscavano la piena leggibilità, il dipinto si è rivelato come uno dei vertici della produzione pierfrancescana.
La qualità pittorica straordinaria lo rende unico nel panorama della ritrattistica italiana del Quattrocento, nonostante il rispetto della tradizione iconografica del tempo che imponeva il personaggio di profilo e a mezzo busto. Il profilo lineare e volitivo, che si staglia al di sotto del casco dei capelli, giustifica il verso con il quale D’Annunzio definì il giovane, “la procellosa anima imperiale ch’ebbe poche castella e non il mondo”.
Di fronte al ritratto che Piero della Francesca ha lasciato di Sigismondo – quel profilo, nel rigore che lo ha ideato, reso vivo dalla scansione della geometria – si percepisce il peso politico e spirituale, l’orgoglio e la fierezza di quest’uomo che nella prima metà del Quattrocento dominò un vasto territorio che dalla Romagna si estendeva fino alle Marche settentrionali.
Nel ritratto Piero coglie il fiero spirito militare di Sigismondo in grado di addensare tempeste militari su di sé e sugli altri e nello stesso tempo lo rappresenta riccamente vestito, in busto e di profilo, come nella migliore tradizione della ritrattistica di corte, diffusa dalle corti dell’Italia del Nord che restano attaccate allo stile del gotico internazionale. Questa tradizione si ispirava all’arte della medaglia cui gli umanisti, affascinati dall’Antichità classica, donarono un nuovo impulso. Ma a differenza dei volti debolmente modellati dal Pisanello, quello di Sigismondo Malatesta sorge da un fondo scuro e si distingue in rilievo. Piero, presente a Firenze fra il 1437 e il 1439, era stato senza dubbio impressionato dalle esperienze che avevano portato la pittura fiorentina alla rappresentazione dello spazio e del volume. Così, a differenza del Ritratto della una giovane principessa del Pisanello anch’esso al Louvre, la spalla del personaggio, strettamente di profilo, è descritta secondo le norme di una visione prospettica, sebbene raffigurato in scorcio. Grazie al gioco di luci, il collo è potentemente modellato alla maniera di una colonna. L'artista tende ad una geometrizzazione delle forme, particolarmente evidente nell’attaccatura dei capelli, che segue esattamente la diagonale della tavola. Inoltre, Piero ha arricchito la sua conoscenza della pittura fiorentina con un’attenta considerazione sull'arte fiamminga che esisteva alla corte di Ferrara – dove soggiornò dal 1448 al 1450 – successivi testimonianze, in particolare un trittico de Rogier Van der Weyden (1399/1400-1464).
L’analisi del materiale pittorico ha mostrato inoltre che in alcuni punti Piero ha mescolato dell’olio all’uovo, legante tradizionale della pittura italiana dell’epoca. Solo l'uso dell'olio, più flessibile dell’uovo, poteva permettergli di raggiungere la perfezione nel rendere le tonalità della pelle: il modellato sottile, gli effetti di trasparenza (la carne sotto l’ombra bluastra della guancia rasata) e questa precisione nei tocchi luminosi (il filo di luce sotto il mento). È grazie a questa tecnica, ispirato dagli esempi fiamminghi, che Piero creò l’illusione della vita che emerge dal ritratto.
Piero lasciò Rimini nel 1452 e si recò ad Arezzo, su richiesta della famiglia Bacci: dopo la morte del pittore Bicci di Lorenzo, la sua presenza era diventata necessaria per portare a compimento gli affreschi del coro di San Francesco. poco dopo le cose per Sigismondo precipitarono, fino a subire l'onta del rogo della sua effige nel 1461.
Massimo Capuozzo

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