Il Ritratto di Sigismondo Malatesta di Piero
della Francesca (1416/7-1492), dal 1978 al Louvre,
riprende l'immagine ufficiale del principe, così come era fissata dalle
medaglie di Pisanello del 1445 e ci trasporta tra i fulgori del Rinascimento
negli anni intensi e tormentati, fastosi e contraddittori della Signoria di
Sigismondo Malatesta.
Questa
bellissima tavola si deve mettere in relazione con un affresco eseguito nel
1451 da Piero nel Tempio Malatestiano di Rimini, un affresco che raffigura il
condottiero, di profilo, inginocchiato davanti al suo santo patrono Sigismondo,
re dei Burgundi.
Sigismondo
Malatesta (1417-1468), Signore di Rimini dal 1432
al 1468, fu uno dei condottieri più brillanti dei suoi tempi,
dispotico e sprezzante, perennemente in guerra con gli Aragona e con i
confinanti Montefeltro. Troppo orgoglioso
dei suoi successi, attirò su di sé l’astio del Papa Pio II Piccolomini che
lo osteggiò
in tutti i modi, che lo dipinse coram
populo come eretico e colpevole di «omicidio, stupro, adulterio, incesto, sacrilegio, spergiuro» e di infiniti
altri «turpissimi e atrocissimi misfatti»,
e che lo scomunicò nel 1460.
Le sue
lotte contro il papato gli guadagnarono una reputazione di crudeltà e di paganesimo.
Su
di lui è stato detto tutto e il contrario di tutto: volgare assassino, brillante
mecenate e intrepido capitano, più belva
che uomo tanto da essere soprannominato il lupo di Rimini,
Sigismondo fu troppo temuto e troppo invidiato in vita per meritare di essere
adeguatamente giudicato dopo morto. Questa in fondo è la causa che nasconde la
sua vera anima la quale denota tuttavia – i più recenti studi lo provano – una
singolare fusione di ciechi istinti e di raffinata intelligenza. Sigismondo non ha avuto
particolare favore da parte degli storici, che lo hanno di solito liquidato
come un tiranno della peggior specie. Da questo punto di vista, memorabile è il
ritratto lasciatoci da Jacob Burckhardt (1818-1897) ne La
Civiltà del Rinascimento in Italia, dove lo studioso svizzero accusa il
principe romagnolo di ogni possibile nefandezza, trasformandolo nel simbolo
stesso dell’immoralità rinascimentale.
Ma atteniamoci ai fatti. Figlio illegittimo
di Pandolfo III, Sigismondo era cresciuto in una famiglia colta, legata agli ambienti
umanistici, ma una famiglia di uomini di uomini d’armi. Ancora adolescente dovette già lottare per emergere negli ambienti infidi
delle corti rinascimentali lombarde e romagnole, combattendo come mercenario al
servizio del miglior offerente. Nel 1429 ottenne in eredità dallo zio Carlo I
Malatesta la zona di Rimini, Fano e Cesena. Nel
1430, appena tredicenne, sconfisse a Serrungarina l'esercito pontificio capitanato
da Sante Carrillo, mosso alla conquista dello stato malatestiano con il
pretesto di recuperare certe somme dovute dal defunto Carlo Malatesta. Di poco
successive sono due gravi rivolte: l'una a Cesena, sobillata dal parente
Giovanni di Ramberto Malatesta, l'altra, scoppiata a Fano su istigazione del
prete Matteo Buratelli ed entrambe sedate coraggiosamente da Sigismondo che,
nel caso di Fano, riportò gravi ferite al costato da pugnalate, che non gli
permisero di assistere all’esemplare punizione, che seguì la fine della
sedizione. Secondo una leggenda, Sigismondo avrebbe sodomizzato il parroco
davanti a testimoni, prima di avviare il colpevole alla giustizia del podestà.
Nella realtà, Buratelli fu degradato da un consesso di sette vescovi,
consegnato alla giustizia secolare ed impiccato nella piazza della fontana di
Rimini con quattordici suoi compagni. Dal 1430 al 1450 Sigismondo ampliò
il suo stato con il recupero di Cervia e la conquista di Senigallia e di
Mondavio. Prendeva così forma l'ambizioso disegno di Sigismondo di costituire
sotto la propria dinastia un forte e durevole stato fra Romagna e Marche. I confini del territorio furono
contrassegnati da una lunga serie di rocche fortificate, che ancora oggi
rendono pressoché unico il paesaggio della regione marchigiano-romagnola. I
problemi per Sigismondo cominciarono quasi subito: minacciato dai Montefeltro di Urbino, dovette costantemente
allearsi con stati più ricchi e potenti, in un gioco diplomatico spregiudicato e pericoloso. Dopo aver sostenuto i veneziani contro Francesco
Sforza, si alleò con i fiorentini, aiutandoli a respingere con successo
l’invasione aragonese dei loro domini. Questo
scatenò l’odio di Alfonso d’Aragona, che lanciò nei suoi confronti una pesantissima campagna diffamatoria, presentandolo come perfido assassino e volgare
doppiogiochista. Questo disegno così ambizioso
subì una prima battuta di arresto dopo la sua esclusione dalla Pace di Lodi del 1454, che sanciva la
fine delle guerre in Italia e poneva pure in rilievo le potenze
maggiori, quelle che si spartivano l'Italia. La sua marginalizzazione fu dovuta
ad Alfonso d'Aragona, che dichiarò di volersi escludere dal patto, qualora vi
fosse stato incluso Sigismondo Malatesta. La seconda battuta d’arresto nel
1458, con l'ascesa al pontificato di Pio II Piccolomini, suo implacabile
nemico, che determinò il collasso definitivo della signoria di Sigismondo. La propaganda anti-malatestiana ebbe notevole
successo anche per la sregolatezza privata del condottiero riminese, che si sposò ben tre volte ed ebbe un numero
impressionate di amanti e di concubine. Particolarmente chiacchierati, furono i
matrimoni con Ginevra d’Este e con Polissena Sforza, entrambe morte
in circostanze misteriose, infatti, nel 1461 Papa Piccolomini accusò
apertamente Sigismondo di uxoricidio, reclamando direttamente i suoi possedimenti per la
Santa Sede, di cui era vicario fedele da parecchi anni. Scomunicato come
eretico e isolato diplomaticamente, Sigismondo combatté disperatamente contro
le forze del Papa, ottenendo perfino una spettacolare vittoria a Nidastore
contro un esercito numericamente superiore; ma alla fine dovette assistere
impotente alla perdita di buona parte dei suoi territori per mano
dell’odiato rivale Federico da Montefeltro. Nel
tentativo di risorgere si unì a Venezia nella guerra contro i Turchi, senza
però alcun risultato rilevante. I gravi errori
di valutazione politica portarono in cinque anni alla totale dissoluzione dello
stato e Sigismondo poté conservare solo la signoria di Rimini con una esigua
porzione del contado. Morì cinquantunenne ed il suo corpo fu sepolto nella
tomba del Tempio Malatestiano,
incompiuto, come il suo progetto di ingrandimento dello Stato e del suo
innalzamento alla gloria immortale.
Sigismondo fece di
Rimini una corte raffinata, trasformandola in un
importante centro del Rinascimento, con la presenza dei più grandi artisti
dell’epoca.
Durante
la sua signoria, la corte di Rimini brillò come i più prestigiosi centri
culturali rinascimentali, anche perché Sigismondo non si limitò a svolgere la
funzione di generoso e illuminato mecenate e grandioso committente, ma
contribuì egli stesso al fervore intellettuale, componendo versi d’amore. Nella
sua Rimini operarono artisti quali Filippo Brunelleschi, Roberto Valturio, che
per Sigismondo compose il De Re Militari, ed inoltre una vivace schiera di letterati, grammatici,
filosofi, giuristi, tra i quali Giusto da Valmontone, Tobia del Borgo, Giusto
de’ Conti, il Porcellio, Tomaso Seneca e Basinio da Parma che celebrò
le imprese di Sigismondo nell’originale poema latino Hesperis o Hesperidos: le vittorie
riportate in due eventi bellici contro gli Aragonesi sono il punto di partenza
per l’esaltazione di Sigismondo come campione della latinità contro i barbari.
Tra il 1447 e il 1450,
Sigismondo fece
trasformare, ad opera di Leon Battista Alberti (1404-1472), la chiesa riminese di San Francesco, tradizionale luogo di sepoltura dei Malatesta, in un mausoleo classicheggiante, un vero e proprio tempio dinastico.
Il progetto, sebbene rimasto incompiuto, ridefinì
completamente l'edificio che fu rinnovato completamente, con il contributo di
artisti come Matteo de' Pasti, Agostino di Duccio e Piero della Francesca.
Questo edificio è l'opera chiave del Rinascimento riminese – stagione breve ma
intensa che coincise tutta con la signoria di Sigismondo
– ed una delle architetture più
significative del Quattrocento italiano in generale. Leon Battista Alberti, al quale fu poi
affidato il progetto di una nuova sistemazione architettonica esterna,
comprendeva, secondo la testimonianza di una famosa medaglia, di Matteo de'
Pasti del 1450 l'aggiunta di una rotonda
all'estremità della chiesa, coperta da una cupola a imitazione di quella del Pantheon. Se il progetto fosse stato
completato, la navata avrebbe allora assunto un ruolo di semplice accesso al
maestoso edificio circolare, e sarebbe stato molto più evidente la funzione
celebrativa dell'edificio. La struttura è a dir poco inaudita per quei tempi e in
pratica unico in Italia. Il Malatesta, infatti, volle tale edificio unicamente
come suo sepolcro, per la sua stirpe e per i dignitari a lui vicino,
trasformandolo in un enorme monumento celebrativo di se stesso e della sua
casata. La sua decorazione
interna, paganeggiante, valse all’edificio il nome di Tempio Malatestiano. È
qui che Piero della Francesca eseguì, nel 1451, l’affresco raffigurante
Sigismondo, di profilo, inginocchiato ai piedi del suo santo patrono, culmine della glorificazione del committente, dove il
tema religioso si intreccia con aspetti politici e dinastici, come nelle
fattezze di san Sigismondo che celano quelle dell'imperatore Sigismondo del Lussemburgo, che nel 1433 investì
il Malatesta come cavaliere e ne legittimò la successione dinastica,
ratificandone la presa di potere.
I
legami tra quest’affresco ed il ritratto del Louvre hanno spinto alcuni storici
a pensare che Piero avrebbe potuto dipingere questo prima del 1451 ed
utilizzare poi questo ritratto come modello per l’affresco.
Piero della Francesca era nato a Borgo San Sepolcro, allora nei
territori dei Malatesta, soggiornò alla
corte di Sigismondo nel 1451, quando dipinse l'affresco di Sigismondo in preghiera nel Tempio Malatestiano.
Al centro dell'affresco sta inginocchiato Sigismondo,
ritratto di profilo e con le mani giunte, mentre prega san Sigismondo, re dei Burgundi e suo protettore, ritratto seduto in
trono al di sopra di un gradino nella parte sinistra dell'affresco e reggente
in mano i segni della sua dignità regale: lo scettro e il globo, oltre alla
berretta sopra la quale si trova un'aureola scorciata in prospettiva. Le
fattezze del santo e la particolare berretta (sopra la quale si trova l'aureola
scorciata in prospettiva), ricordano quelle di Sigismondo di Lussemburgo,
l'imperatore che nel 1433 investì Malatesta come cavaliere e ne legittimò la successione
dinastica, ratificandone la presa di potere su Rimini. L'affresco aveva quindi
una valenza tanto religiosa quanto politica.
Intorno al 1451 Piero
eseguì anche il ritratto del signore.
Questa tavola,
dalla quale emerge la durezza di Sigismondo, fu acquistata dal Louvre nel 1978. A Parigi il ritratto è stato sottoposto
a un delicato restauro che, oltre a mettere in luce l’ottima qualità, ha
ribadito l’attribuzione a Piero della Francesca. Dopo la rimozione delle
ridipinture che ne offuscavano la piena leggibilità, il dipinto si è rivelato
come uno dei vertici della produzione pierfrancescana.
La qualità pittorica straordinaria lo rende unico nel
panorama della ritrattistica italiana del Quattrocento, nonostante il rispetto
della tradizione iconografica del tempo che imponeva il personaggio di profilo
e a mezzo busto. Il profilo lineare e
volitivo, che si staglia al di sotto del casco dei capelli, giustifica il verso
con il quale D’Annunzio definì il giovane, “la
procellosa anima imperiale ch’ebbe poche castella e non il mondo”.
Di
fronte al ritratto che Piero della Francesca ha lasciato di Sigismondo – quel
profilo, nel rigore che lo ha ideato, reso vivo dalla scansione della geometria
– si percepisce il peso politico e spirituale, l’orgoglio e la fierezza di
quest’uomo che nella prima metà del Quattrocento dominò un vasto territorio che
dalla Romagna si estendeva fino alle Marche settentrionali.
Nel ritratto Piero coglie il fiero
spirito militare di Sigismondo in grado
di addensare tempeste militari su di sé e sugli altri e nello stesso tempo lo rappresenta
riccamente vestito, in busto e di profilo, come nella migliore tradizione della
ritrattistica di corte, diffusa dalle corti dell’Italia del Nord che restano
attaccate allo stile del gotico
internazionale. Questa tradizione si ispirava all’arte della medaglia cui
gli umanisti, affascinati dall’Antichità classica, donarono un nuovo impulso.
Ma a differenza dei volti debolmente modellati dal Pisanello, quello di
Sigismondo Malatesta sorge da un fondo scuro e si distingue in rilievo. Piero,
presente a Firenze fra il 1437 e il 1439, era stato senza dubbio impressionato
dalle esperienze che avevano portato la pittura fiorentina alla rappresentazione
dello spazio e del volume. Così, a differenza del Ritratto della una giovane principessa del Pisanello anch’esso al
Louvre, la spalla del personaggio, strettamente di profilo, è descritta secondo
le norme di una visione prospettica, sebbene raffigurato in scorcio. Grazie al
gioco di luci, il collo è potentemente modellato alla maniera di una colonna.
L'artista tende ad una geometrizzazione delle forme, particolarmente evidente
nell’attaccatura dei capelli, che segue esattamente la diagonale della tavola.
Inoltre, Piero ha arricchito la sua conoscenza della pittura fiorentina con
un’attenta considerazione sull'arte fiamminga che esisteva alla corte di
Ferrara – dove soggiornò dal 1448 al 1450 – successivi testimonianze, in
particolare un trittico de Rogier Van der Weyden (1399/1400-1464).
L’analisi
del materiale pittorico ha mostrato inoltre che in alcuni punti Piero ha
mescolato dell’olio all’uovo, legante tradizionale della pittura italiana
dell’epoca. Solo l'uso dell'olio, più flessibile dell’uovo, poteva permettergli
di raggiungere la perfezione nel rendere le tonalità della pelle: il modellato
sottile, gli effetti di trasparenza (la carne sotto l’ombra bluastra della
guancia rasata) e questa precisione nei tocchi luminosi (il filo di luce sotto
il mento). È grazie a questa tecnica, ispirato dagli esempi fiamminghi, che
Piero creò l’illusione della vita che emerge dal ritratto.
Piero lasciò Rimini nel 1452 e si recò ad Arezzo, su richiesta della
famiglia Bacci: dopo la morte del pittore Bicci di Lorenzo, la sua presenza era
diventata necessaria per portare a compimento gli affreschi del coro di San
Francesco. poco dopo le cose per Sigismondo precipitarono, fino a subire l'onta del rogo
della sua effige nel 1461.
Massimo Capuozzo
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