La
ripresa di modelli antichi favorì la comprensione del naturalismo e stimolò la
resa realistica della figura umana. Proprio nei cantieri federiciani si forma
Nicola de Apulia, meglio, noto come Nicola
Pisano, lo scultore che, trasferitosi a Pisa, elaborò nuove soluzioni di tipo
naturalistico e di ripresa dell’antico in scultura, sviluppate e diffuse dai
suoi allievi, fra cui spiccano il figlio Giovanni e Arnolfo di Cambio.
Grazie
ai Pisano e soprattutto grazie ad Arnolfo, cominciano ad apparire ritratti
scolpiti di eccezionale realismo, ritratti onorari e nei monumenti funebri. È il periodo in cui Arnolfo matura
uno spiccato interesse per la scultura antica, favorito anche dal soggiorno
romano e forse meridionale e dalla frequentazione della casa d’Angiò.
Nella Statua onoraria
di Carlo d’Angiò del 1277 circa oggi
a Roma nei Musei
Capitolini, Arnolfo ricalca il modello della statua
onoraria romana con il civis togato o
con la corazza:
in questo caso il re è seduto su un seggio pieghevole
privo di schienale, il faldistorio, con protomi leonine sui braccioli. Carlo
indossa una lunga veste ed un ampio mantello
originariamente dipinto di azzurro e decorato con i gigli dorati, colori ed
emblemi della casa reale di Francia e d’Angiò. Sul capo ha una preziosa corona, solo in parte conservata, e nelle mani, modificate nel corso di un restauro
tardo quattrocentesco, impugnava uno scettro o forse una corta spada e il
globo, simbolo del potere. La monumentale
scultura del re, ricavata da un frammento di trabeazione antica, comunica
l’idea della regalità: i tratti del volto sono chiaramente sottoposti a
idealizzazione. La scultura faceva parte di un
grandioso Monumento onorario fatto erigere da Carlo I d’Angiò probabilmente
negli anni in cui egli ottenne per la seconda volta il titolo di Senatore di
Roma, tra il 1268 e il 1278. I più recenti studi suggeriscono che il Monumento
onorario fosse destinato ad essere collocato all’interno della grande aula
medioevale del primo piano del Palazzo Senatorio, dove il
Senatore, o un suo vicario, amministrava la giustizia civile e penale.
Il nome di Arnolfo si trova nel Monumento al cardinale De Braye del 1282 in San Domenico di Orvieto.
Il domenicano Guillaume de Bray, cardinale del titolo di San
Marco, uomo di scienza e di lettere e importante membro della Curia quando il
Papa risiedeva a Viterbo e ad Orvieto, morì nel 1282 e volle essere sepolto
nella chiesa del suo ordine, dove è ancora collocato il suo monumento funebre.
Il Monumento al cardinale De Braye è un complesso organismo scultoreo e architettonico a parete, decorato con inserti decorativi di mosaico cosmatesco
e composto di vari elementi, dove domina il ritmo ascensionale, con
valore simbolico – ascesa dell’anima del defunto verso il cielo.
In passato l’opera era stata smembrata, ma in seguito a un
lungo restauro, terminato nel 2004, il monumento è stato ricostruito,
sebbene in
maniera purtroppo incompleta – è privo, infatti, del coronamento che culminava
con delle cuspidi – ed è stato ricollocato in
San Domenico, addossato alla parete sinistra di ciò che resta della chiesa. La
struttura del monumento è purtroppo diversa da quella originale, infatti, gli
studiosi hanno potuto ricostruirla solo per via ipotetica. Il Monumento de
Braye non doveva però differenziarsi troppo dagli altri primi esempi
di tombe a muro realizzati in Italia. I riferimenti più diretti sono due monumenti
conservati a Viterbo nella chiesa di San Francesco alla Rocca, la
Tomba di Clemente IV, realizzata da Pietro di
Oderisio nel 1270 e la Tomba di
Adriano V, attribuita allo stesso Arnolfo.
Queste opere corrispondono a un modello di sepolcro formato da
un baldacchino con un arco di forme gotiche, ogivale o trilobato, con
un basamento che sostiene un sarcofago con il gisant: qui la statua distesa del
defunto
poggia su un catafalco, reso visibile dalle tende scostate da due chierici.
Nella
parte superiore si trovano i santi Marco e Domenico, mentre più in alto si
trova la Madonna col Bambino in trono. Le figure sono ridotte rispetto ai contemporanei
monumenti francesi; il gusto per la policromia, data dai mosaici cosmateschi
distribuiti nella parte bassa e in varie sezioni del monumento, è infatti maggiore.
Arnolfo arricchì il modello originario progettandone uno
sviluppo in altezza con altri elementi scultorei e architettonici. Nella parte
alta, infatti, s’inseriscono tre nicchie con statue e al centro
una lapide con la dedica funebre e la firma di Arnolfo. In alto, la
nicchia principale contiene il gruppo della Madonna in trono col Bambino. Nelle nicchie laterali sono posti a
sinistra San Marco che presenta il
Cardinale De Braye alla Madonna, a destra San Domenico, che partecipa all'avvenimento rivolgendosi al cielo.
La complessità dell'opera ha richiesto l'apporto di aiuti, ma
la mano di Arnolfo è riconoscibile in vari punti, soprattutto nel gruppo
centrale del cardinale giacente: la figura distesa è rivelata con
l'originale inserimento dei chierici reggicortina. Per la figura del
cardinale, Arnolfo si servì di una maschera funebre. L’uso della maschera funeraria
vuol dire interesse per la conservazione di quelle specifiche fattezze del
personaggio: non si vuole solo ricordare la sua carica né la sua vita
interiore; ma si vuole mostrare quel particolare uomo, che in un determinato
momento ha ricoperto quella carica.
Sono figure vivaci che oppongono la loro vitale energia alla
figura immobile, distesa e con gli occhi chiusi del defunto, in un efficace
contrasto simbolico tra vita e morte. Altra figura particolarmente espressiva è
la statua di San Domenico: la forma esile che si assottiglia verso il
basso aumenta l'effetto di leggerezza e di fragilità, le linee verticali delle
vesti che avvolgono il corpo del santo sviluppano una tensione verticale, ribadita
dalla testa e dallo sguardo rivolti verso l'alto. Grande attenzione è stata
riservata al volto, dall'espressione intensa e commossa. In ogni parte si
coglie il senso di chiarezza e rigore formale tipico dello stile di
Arnolfo.
Anche il gruppo della Madonna col Bambino, di altissima
qualità e scolpito a tutto tondo, è concepito secondo un principio di
essenzialità di forme e volumi. In occasione dell'ultimo restauro si è scoperto
che questo gruppo è una statua romana del II secolo, forse
una Giunone che Arnolfo ha sapientemente trasformato nella Vergine
cristiana. Il Bambino è stato appositamente scolpito e adattato al grembo
della madre. Il gruppo si inseriva in un trono con ornamenti cosmateschi
diverso da quello che si vede oggi.
Il restauro e l'accurato lavoro di analisi tra cui gli studi
condotti da Angiola Maria Romanini hanno permesso di scoprire aspetti del
lavoro arnolfiano finora sconosciuti. Una delle scoperte più interessanti è
rappresentato dall'uso del colore da parte di Arnolfo non inteso in senso
decorativo, ma come parte integrante dell'opera. Dalle tracce di colore
ritrovate nelle pupille dei chierici reggicortina ai raffinati mosaici
cosmateschi che rivestono le parti architettoniche, tutto rientra in un preciso
progetto in cui l'effetto pittorico è un fondamentale aspetto
dell'impatto visivo d'insieme.
Strettamente connesso a quest’aspetto, è l'altra importante
scoperta che tutti gli elementi, scultorei e architettonici del monumento,
rispondono alla scelta di un punto di vista preciso. Ogni pezzo è
concepito e disposto con un preciso orientamento ed è lavorato fino a dove
rimane visibile, sempre in riferimento a quel punto di vista, calcolato secondo
le leggi dell'ottica. Questi risultati si basano su conoscenze
scientifiche molto raffinate e all'avanguardia, oggetto di studio di
alcuni filosofi e matematici operanti presso le corti papali tra Roma, Viterbo
e Orvieto. Gli sviluppi futuri di tali ricerche si ritroveranno nella
prospettiva rinascimentale. Non è ancora chiaro come Arnolfo sia entrato in
possesso di simili conoscenze, ma la sua opera rivela un'apertura indubitabile
verso il mondo della scienza.
L'attenzione al modello imperiale romano non fu soltanto
appannaggio di sovrani, laici come
Federico II, o legati alla curia come Carlo d’Angiò, ma emerse anche dalle
scelte dei pontefici, come per esempio Bonifacio VIII, che volle farsi ritrarre
da Arnolfo nella statua frammentaria a fianco del sacello funebre demolito nel
vecchio San Pietro Vaticano. Il valore dell'opera, oltre a quello devozionale,
significava una presenza perenne, come il simulacro dell'imperatore al centro
della città.
Una delle principali ragioni del ritratto continuava a essere
quella di perpetuare i volti del sovrano o del pontefice che in quel momento
rappresentavano il potere temporale e spirituale.
Più astratta risulta la figura di Papa Bonifacio
VIII (1294-1303) che si può ammirare negli Appartamenti del Palazzo
Apostolico (Sala dei Papi), una delle più celebri statue di Arnolfo. Secondo
studi recenti, nel busto arnolfiano il gesto della mano destra del Papa
appartiene a una tradizione iconografica in cui era raffigurato Cristo
benedicente, come nel ritratto pre-iconoclasta di Cristo del Sinai.
Bonifacio
VIII aveva messo in atto una vera e propria politica di dominazione simbolica
attraverso l’esibizione ripetuta della propria immagine: egli fece realizzare
infatti numerose statue in marmo a Firenze, Orvieto e Anagni, mentre una sua
statua in rame sbalzato e dorato fu eseguita nel 1301 dall’orafo senese Manno
Bandini su commissione del Comune di Bologna per la facciata del Palazzo
Pubblico del comune bolognese. Inoltre la sua immagine figurava anche in vari criptoritratti
– ritratti nascosti, in veste di
personaggi del passato o della storia biblica – come ad esempio nelle veste di
San Clemente nel tabernacolo di San
Clemente a Roma.
Una
tale esibizione della propria immagine, che non aveva precedenti nella storia
del papato, colpì i contemporanei: uno dei capi di imputazione del processo
postumo intentato contro il papa dal re di Francia Filippo il Bello fu proprio
l’idolatria, di cui il pontefice defunto fu accusato per aver fatto collocare
statue d’argento a sua immagine nelle chiese e statue sopra la porta delle
città come gli idoli antichi.
Nei
ritratti di Bonifacio VIII, eseguiti da Arnolfo, per la prima volta il tipo
generico del pontefice è reso con i tratti individuali di un papa vivente, è pur sempre vero che il ritratto di
imperatori e di pontefici è meno realistico di quello dei defunti nei monumenti
funebri. I motivi di questo fatto sono da ricercare nell’assenza
della maschera, che serviva per costruire un’immagine convincente, ma anche e
soprattutto per una diversità di funzioni fra il ritratto funebre e quello dei
potenti del mondo viventi. I ritratti offerti nelle chiese alla venerazione dei
fedeli o posti sopra le porte urbiche per mostrare il possesso di quei luoghi e
come strumenti di magica protezione evitano volutamente di eccedere nella
descrizione delle particolarità fisiche e psicologiche dell’uomo e del
contingente, perché vogliono essere soprattutto immagini della carica, della
funzione – sia papale sia imperiale.
Il
ritratto funebre, invece, vuole essere quello dell’individuo, ormai spogliato
del corpo e delle cose terrene, comprese le sue cariche, solo davanti a Dio.
Massimo Capuozzo.
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