mercoledì 9 gennaio 2013

La Storia le storie: la storia di Properzia. Di Massimo Capuozzo

Parlare di donne, tanto spesso soffocate da una società maschilista, nonostante ottime prove in campo artistico e letterario, serve a dare un equanime e doveroso contributo ad una pari opportunità in campo artistico e letterario e ad offrire il tributo della memoria alle tante creature femminili che hanno scolpito, dipinto e poetato come e talvolta anche meglio degli animi maschili, senza che di loro, però si trovino più tracce nei manuali scolastici oltre alle solite Artemisia Gentileschi e Rosalba Carriera.
Properzia de' Rossi (1490 – 1530) è stata la prima scultrice in Europa. Bella ed affascinante, passionale e sensibile, durante la sua breve e tormentata esistenza, riuscì a vivere intensamente come poche donne dell’epoca e a costituire un modello per molte artiste che vennero dopo di lei. Indubbiamente rappresentò un elemento di disturbo nel panorama artistico bolognese per la sua accesa e straripante sensualità e per il suo carattere passionale nella vita e nell’arte: ancora nel XIX secolo le fu dedicata una tragedia dal ravennate Paolo Costa (1771 - 1836) cui Properzia, a tre secoli dalla morte, ispirò una tragedia in versi intitolata a lei. Era senz’altro una donna controcorrente, poiché si sottrasse al vincolo del matrimonio e scelse la convivenza, guadagnandosi l’epiteto di concubina, fatto cui si collegò la critica contemporanea che l’accusò di usare la sfera sessuale per ottenere in scambio incarichi. I tratti peculiari delle sue scelte di vita, anche nel senso delle sue scelte artistiche, motivano in parte la predilezione per tecniche contrassegnate da un impegno-sfida: piccoli tocchi di cesello impressi su noccioli di frutta alternati a colpi vibrati sulle lastre di marmo.
Properzia era figlia naturale del notaio Girolamo de’ Rossi di Bologna e nacque nel 1490 probabilmente a Bologna. Neppure per lei manca un aneddoto che ne tratteggi la precocità infantile, prefigurando l'attività futura: si racconta, infatti, che da bambina, il suo gioco preferito era quello di modellare nella creta figure d'uomini e di animali.
Secondo la tradizione, Properzia si formò nello studio dell'incisore bolognese Marcantonio Raimondi, quando lei era un’adolescente di sedici anni e lui di dieci anni maggiore di lei; da Raimondi apprese l’arte della miniatura e della scultura in marmo e terracotta fino al 1507, anno in cui l’incisore lasciò Bologna per Roma.
Il misogino Giorgio Vasari, mai tenero con gli artisti bolognesi, era rimasto talmente impressionato dall’abilità tecnica di Properzia, capace di scolpire perfino noccioli di pesca, che le dedicò un ritratto leggendario nelle sue celebri Vite: l'eccezionale presenza di una donna che mise le «tenere e bianchissime mani nelle cose meccaniche, e fra la ruvidezza de' marmi e l'asprezza del ferro» destò la sua stupita ammirazione e le riservò un esaltante elogio per la sua bellezza e per il suo virtuosismo come intagliatrice di noccioli di frutta. Un ritratto tanto celebrato da crearne un mito.

Presso il Museo Civico Medievale di Bologna, si conserva uno stemma eseguito in forma di gioiello per la nobile famiglia Grassi: esso è realizzato in filigrana d'argento e vi è raffigurata un’aquila bicefala, sormontata da una corona. Nella filigrana sono incastonati a giorno undici noccioli di pesca, intagliati dalla scultrice. Per ciascun nocciolo, Properzia eseguì due immagini: da una parte l'effige di un apostolo e dall'altra quella di una santa, l'aquila imperiale a due teste sormontata da corona sintetizza un’interessante iconografia, rappresenta, infatti, un emblema araldico e al contempo un simbolo di devozione.
In un nocciolo di pesca, parte di una collana conservata al Palazzo Pepoli-Bonamini di Pesaro, Properzia scolpì l’intera Passione di Gesù.
Secondo alcune fonti, è opera sua anche un nocciolo di ciliegia con incise sessanta teste ed incastonato in un anello conservato presso il Gabinetto delle Gemme della Galleria degli Uffizi di Firenze.
Questi gioielli sono preziosi non tanto per il valore intrinseco dei materiali, quanto per la perizia dell'esecuzione: essi, infatti, suscitarono le lodi di collezionisti e di esperti d'arte, come si rileva dalle parole tratte da un manoscritto di Marcello Oretti: «...figurine così ben mosse, che è uno stupore il vederle.»
La vita di Properzia, che «fu del corpo bellissima, e sonò, e cantò ne' suoi tempi, meglio che femmina della sua città», secondo le parole di Vasari, è avvolta in gran parte dall'ombra ed è caratterizzata da inquietudini e trasgressioni, che secondava il suo ingegno, definito da Vasari “capriccioso e destrissimo”.
Le sue mirabili miniature la fecero notare e molti nobili bolognesi cominciarono a commissionarle busti in marmo. Properzia giunse così alle opere di grandi dimensioni grazie alla fama procuratale dai lavori ad intaglio su superfici infinitesime.
Per la chiesa bolognese di Santa Maria del Barracano, eseguì alcune figure per il baldacchino e per l’altare maggiore, attirandosi per questo l’invidia dei rivali: precisione di tratto ed abilità inventiva trovavano espressione nella sua vibrante capacità di far guizzare dai materiali – legno, marmo o calcare – figure turgide, rappresentate nella pienezza delle loro emozioni.
Nel 1520, Properzia fu citata in giudizio e processata insieme al giurista Anton Galeazzo Malvasia, del quale era ritenuta convivente, per aver danneggiato la proprietà di un vicino, il vellutaro Francesco da Milano: vilipesa con l'epiteto di concubina fu accusata d'aver schiantato, con la complicità del suo amante, «ventiquattro piedi di vite ed un arbore di marasca».
Tra tutte queste turbolenze esistenziali, Properzia tra il 1525 e il 1526 ottenne il premio della sua vita: l’esecuzione di alcuni lavori nel cantiere della basilica di San Petronio di Bologna per la decorazione della facciata ovest della Cattedrale con figure di angeli e di sibille.
Il cantiere di San Petronio significava per lei lavorare nel cantiere più prestigioso della città: mentre il portale centrale era stato realizzato da Jacopo Della Quercia dal 1425 al 1434, i due portali laterali furono disegnati da Ercole Seccadenari – ingignero dal 1524 della Fabbrica della Basilica di San Petronio – e dovevano essere decorati da formelle: i pilastri ospitano, infatti, Scene bibliche, mentre gli architravi Storie del Nuovo Testamento. Alla decorazione partecipavano gli artisti più in vista del momento, da Amico Aspertini, a Niccolò Tribolo, ad Alfonso Lombardi, a Girolamo da Treviso, fino a Zaccaria da Volterra e allo stesso Saccadenari. Properzia era l’unica donna in un contesto artistico, quello della scultura, di esclusiva prerogativa maschile a causa della maggiore difficoltà, provata proprio dall'assenza di donne scultrici. Ma Properzia aveva vinto il concorso e doveva realizzare due formelle in marmo sul tema della castità di Giuseppe.
Alla particolare attenzione dell'intreccio narrativo, rapidamente sintetizzato nelle due formelle Giuseppe e la moglie di Putifarre e La moglie di Putifarre accusa Giuseppe, è associato un dramma interiore, riflesso della personale vicenda biografica di Properzia: Vasari riconduce la formella con Giuseppe e la moglie di Putifarre alla passione della bella Properzia non ricambiata per un giovane bolognese, forse Anton Galeazzo Malvasia, con cui sembra comunque convivesse. Nelle sembianze di Giuseppe, l'artista avrebbe, infatti, rappresentato l'uomo amato, ritraendo invece la propria fisionomia nei panni della seduttrice.
Nella Genesi si racconta che la moglie del ricco signore d'Egitto Putifarre si fosse infatuata del giovane schiavo Giuseppe che per le sue capacità, era stato posto a capo dell'amministrazione della casa. La donna cercò di sedurlo, ma piccata dal rifiuto del ragazzo, si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza, mostrando come prova la veste dello schiavo, della quale questi si era liberato per fuggire dalle mani della moglie del padrone. Per questa falsa accusa Giuseppe fu rinchiuso nelle prigioni del Faraone dove, però trovò grazia agli occhi del direttore del carcere al punto che questi gli affidò le sue stesse mansioni.
Al di là degli aspetti romanzeschi ed autobiografici proposti da Vasari, questo bassorilievo rimanda piuttosto ad un’interpretazione al femminile del testo biblico, in cui i modelli figurativi raffaellizzanti per la resa del morigerato Giuseppe, si fanno michelangioleschi nel gesto forte e deciso del braccio della donna che tenta il giovane afferrandogli il mantello con braccia vigorose: l’emergere aggressivo e protagonistico della figura femminile, l’attenzione con cui è indagato il suo corpo, reso con assoluta naturalezza, può indurre ad un’immediata identificazione con l’inquieta scultrice, qui intenta quasi a proclamare senza ritegno la volontà femminile della propria vita affettiva sentimentale e sessuale. Più che una confessione autobiografica è la dichiarazione di un modo di intendere la propria condizione umana, sociale e professionale.
L’invidia dei colleghi le causò la solita accusa di concubinaggio con il nobile Malvasia: coinvolta in una lite avvenuta notte tempo insieme al pittore Domenico Francia, graffiò la faccia del pittore Vincenzo Miola. Al processo intervenne come testimone accusatore anche il collega Amico Aspertini, forse determinato a stroncare con Miola la carriera della pericolosa rivale, con evidente ostilità verso Properzia, al punto di adoperarsi – a detta di Vasari – per screditarla fino ad ottenere che le formelle le fossero pagata un vilissimo prezzo: evidentemente la fama di Properzia costituiva un elemento di disturbo nei riguardi del monopolio artistico maschile e le citazioni in giudizio potevano essere un efficace strumento per mettere a rischio il suo prestigio.
Tuttavia, nonostante l'ostile concorrenza degli altri maestri attivi nel cantiere di S. Petronio, Properzia riuscì ad ottenere anche altre importanti commissioni, ma i suoi interventi furono comunque controllati e sottoposti alla supervisione del fiorentino Tribolo, infatti, dagli atti di pagamento, si deduce che la scultrice si limitava ad eseguire in marmo i modelli predisposti dall'artista: Properzia eseguì Gli Angeli reggenti i simboli della passione e le diverse Sibille, dalle movenze ancora di sapore michelangiolesco.
Per l’undicesima cappella della Basilica di San Petronio Properzia realizzò due angeli in altorilievo, posti ai lati dell’Annunciazione di Domenico Brusasorci. Suo è anche un’altra formella che raffigura La visita della regina di Saba a Salomone.
È noto che Properzia avesse ricevuto molte commesse per realizzare sculture in legno e marmo, ma molte opere non sono documentate e l’attribuzione è incerta.
Per salvaguardare la propria posizione, in seguito al clima conflittuale determinato dalle rivalità degli altri artisti, Properzia ricorse alla protezione dei Pepoli, per i quali eseguì un bassorilievo che ritrae, il Conte Guido già defunto copiando mirabilmente un oggetto fornitogli dal figlio, conservato presso la proprietà della famosa famiglia a Palata.
È abbastanza difficile invece distinguere la produzione di Properzia nell'esecuzione dei capitelli del portico del palazzo Salina-Amorini a Bologna, perché l'artista collaborò con altri scultori di fama: la prerogativa estetica dell'edificio consiste, infatti, non solo nella struttura architettonica, ma soprattutto nelle invenzioni decorative delle sculture che ne abbelliscono il prospetto.
A Properzia sono inoltre attribuiti gli intagli nel cortile di palazzo Grassi a Bologna.
Alla sua turbolenta vita corrisponde un epilogo tragico.
La sua fama era giunta anche al Papa Clemente VII dei Medici che avrebbe voluto conoscerla. Vasari riferisce che, al termine dell'incoronazione di Carlo V il 24 febbraio del 1530, papa Clemente VII chiese di incontrare la scultrice, ma gli fu risposto che Properzia era morta di peste, quella stessa settimana, notizia «che li spiacque grandissimamente».
Questa donna a forti tinte, ammirata, invidiata e forse molto infelice, era morta sola com’era sempre vissuta nell'ospedale di San Giobbe ed era stata sepolta nell'ospedale della Morte.
Aveva appena trentanove anni.
Massimo Capuozzo

domenica 6 gennaio 2013

Gli esordi di Sofonisba Anguissola Di Massimo Capuozzo

Sofonisba era stata avviata insieme alle sorelle allo studio delle lettere e delle arti secondo gli auspici del divulgatissimo testo rinascimentale Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, che prescriveva la necessità per le donne del ceto aristocratico-borghese di arricchire il proprio corredo educativo con nuove strategie d’intrattenimento sociale.
Negli anni Cinquanta, la cultura artistica di Sofonisba fu ulteriormente promossa da suo padre, bravissimo propagandista della ragazza: egli badò a promuoverne la fama di sua figlia nelle corti d’Italia, stabilendo contatti con Mantova, Ferrara, Parma, Urbino e infine con Roma, per completare l’educazione di sua figlia e caldeggiarla presso quelle corti. Amilcare era il primo, il più convinto e tenace patrocinatore delle capacità della giovinetta: a tal proposito un interessante carteggio mostra come fosse intenso il suo scambio di lettere con i potenti e con i massimi artisti dell’epoca, nel raccomandare sua figlia. «Per la più cara cosa ch’io abbia, gli dedico essa Sophonisba per sua serva e figliola…» arrivò a scrivere a Michelangelo, il quale rispose con buoni giudizi ed incoraggiamenti e sostenne il talento della ragazza presso il Granduca di Toscana: quando infatti Cosimo de Medici chiese a Michelangelo un disegno, egli pensò di inviargli il disegno della giovane e promettente pittrice, visto che il mondo era già pieno di eccellenti uomini. Amilcare Anguissola aveva inviato a Michelangelo i disegni di Sofonisba e fra quei disegni c'era anche un Fanciullo morso da un granchio, oggi a Napoli nella Galleria Nazionale di Capodimonte: in esso la giovanissima artista cremonese, allora poco più che ventenne, aveva colto l'espressione del dolore infantile con un'invenzione che piacque molto a Michelangelo, allora ottantaquattrenne, che lodò i suoi studi delle espressioni del riso e del pianto, degni della mutevolezza della anima. Quella smorfia di dolore fermata da Sofonisba si troverà poi nel Ragazzo morso da un ramarro di Caravaggio.
La fama di Sofonisba nacque presto tanto che lo stesso Giorgio Vasari, giunto nel 1566 in casa Anguissola per verificare la fama dalla ragazza, volle conoscerla e le sue tele suscitarono in lui tanta impressione che la citò in seguito nelle sue Vite.
Sofonisba era poco più di una ragazzina e già aveva sviluppato quella che Vasari definì la freschezza del suo disegnare, evitando la maschera del volto per dedicarsi all’indagine psicologica. Il suo genio creativo dava alle immagini anche realtà interiori, fatte di sentimenti, emozioni, pensieri, movimenti dell’anima, colloqui taciuti nei segreti del cuore, come nella celebre Partita a scacchi, nella Vecchia che studia l’alfabeto ed è derisa da una bambina, nel già citato Fanciullo morso da un granchio e in moltissimi altri che suscitano lo stupore di studiosi e profani. Questa capacità di penetrare oltre l’apparenza e di portare alla superficie ciò che essa nasconde fu il tratto distintivo dei suoi tanti ritratti e autoritratti.
Sofonisba, benché preferisse presentarsi al pubblico come virgo bene educata, nell’Autoritratto al cavalletto, del 1556, mette in scena se stessa mentre dipinge un'opera devozionale con Madonna e Bambino attraverso il solito gioco degli specchi multipli, sulla scorta di un precedente modello iconografico della pittura fiamminga.
Nell’Autoritratto alla spinetta, a Napoli nella Galleria Nazionale di Capodimonte, una delle opere cardine dell'attività giovanile di Sofonisba, collocabile probabilmente intorno alla metà degli anni Cinquanta, come suggerisce l’acquisita padronanza del mezzo espressivo. Quando l'artista entrò in contatto con il miniatore croato Giulio Clovio, al servizio dei Farnese e amico di Fulvio Orsini, attuò il superamento dell’analiticità descrittiva e mostra la nuova predilezione per un morbido chiaroscuro: contro lo sfondo scuro che ha la funzione di avvicinare il soggetto allo spazio reale dello spettatore, risalta il volto illuminato della pittrice alla spinetta. Anche in questo autoritratto Sofonisba si distingue per la ricerca di espressività affettiva, vicina agli esiti di Moroni, e per l'intensa produzione di autoritratti: l'immagine della prima donna famosa della storia della pittura italiana doveva, infatti, suscitare certamente curiosità e ammirazione e Sofonisba, nella scelta degli attributi, in questo caso la spinetta, dava ogni volta dimostrazione della propria virtù e della propria completa educazione artistica.
Nella Partita a scacchi della collezione Radzinsky a Poznai, Sofonisba, appena ventenne, già è padrona della tecnica pittorica ed affermata ritrattista: in questo dipinto vive un vibrante realismo di sapore lombardo che supera le formule manieristiche, sottraendosi alla logica del ritratto, e costruisce un complesso racconto a più voci. Attorno a una scacchiera sono disposte quattro figure femminili: tre sorelle minori di Sofonisba – Lucia, Minerva ed Europa – e un’anziana domestica, loro fedele governante, sono impegnate in una partita a scacchi in giardino con un lontano paesaggio di fondo d’ispirazione fiamminga, mentre l’incrocio degli sguardi e la mimica delle  mani suggeriscono una corrente interlocutoria tra i vari personaggi: tutti gli sguardi si cercano, ma non trovano rispondenza. Lucia, la ragazza che rivolge lo sguardo all’osservatore del dipinto, ha appena attuato una brillante mossa di gioco: ha infatti mangiato la regina nera di Minerva che alza la mano, forse in gesto di disappunto o di resa; la piccola Europa sorride divertita. La posizione degli scacchi non è casuale, ma rappresenta un momento saliente della partita. Lo spazio della tela è saturo, quasi che la partita a scacchi non è altro che un pretesto per portare in primo piano le relazioni familiari dei personaggi.
Il dipinto segna una tappa significativa, nella formazione di Sofonisba, soprattutto per il gusto con cui il ritratto vi appare risolto in scena di genere, non senza riflessi bresciani, specialmente di Moroni. Per questa via, infatti, nei brani migliori della sua ricca produzione ritrattistica, Sofonisba giunge a superare le remore del chiuso manierismo cremonese nella freschezza di un'acuta e composta notazione aneddotica.
Vasari parla con particolare ammirazione del Ritratto di famiglia. Questo è uno dei dipinti più noti di Sofonisba ed è anche uno dei più complessi sia per formato sia per impostazione spaziale sia per l’intreccio tra la tipologia del ritratto di famiglia e quella del ritratto aulico dinastico. Le ascendenze moroniane del tema iconografico del ritratto di famiglia si impiantano su uno schema di profondi referenti simbolici legati alla continuità dinastica della casata, mentre la serena quiete della partitura narrativa si qualifica per un plastico vigore michelangiolesco, conferito soprattutto alla postura paterna in primo piano il padre con il figlio ultimogenito, molto desiderato dopo sei figlie, e rappresentato nell’abbraccio paterno, più indietro c’è la sorella Minerva che sembra raggiungerli. La composizione, circoscritta nello spazio da due tronchi d’albero, presenta sullo sfondo uno splendido paesaggio segno di una certa influenza nordica. La raffigurazione del padre della pittrice che abbraccia l’unico figlio maschio, Asdrubale, e che ignora la figlia Minerva, è l’emblema della società cinquecentesca: il padre investe le proprie attese sul maschio, pur avendo quattro figlie ricche di un talento riconosciuto anche dai grandi dell’epoca. 
Se incisivo era stato l’intervento dell’abile Amilcare nel fare uscire da un contesto provinciale la figlia, decisivo fu l’eccezionale talento di quest’ultima.
Per Sofonisba il primo passo fuori provincia giunse con un invito alla Corte dei Gonzaga dove la giovane pittrice fece un ritratto alla duchessa Margherita e alla nuora Elena d’Austria; da qui la giovane spiccò quel primo volo che l’avrebbe condotta molto lontano.
Intanto, i suoi dipinti erano molto ricercati nelle Corti italiane dove Sofonisba partecipò come figura di spicco alla vita artistica: la vita e la carriera dell'artista, si svolsero per lo più tra importanti Corti alle quali era chiamata come ritrattista, quale quella dei Farnese di Parma. Ma Sofonisba fu un personaggio eccezionale rispetto alle altre donne che si occuparono attivamente di arte poiché non era né figlia né moglie né sorella di pittori o artisti in genere, ma soprattutto perché lei e le sue sorelle, dato il loro rango, non esercitarono mai la professione di artista per sostentamento, ma esercitarono nobilmente la pittura, senza ricevere mai commissioni ufficiali, regolate da un contratto notarile o comunque commerciale e non vendettero mai le loro opere, ma le regalarono sotto la tutela del padre, della corte o infine dei mariti, ricevendone in cambio privilegi, gioielli, stoffe preziose e doni adatti al suo lignaggio.
Di questo periodo è il bel Ritratto di Alessandro Farnese, conservato di Dublino nella National Gallery of Ireland, quando Alessandro non aveva ancora compiuto quindici anni. Oltre al cappotto tedesco, in broccato d'oro adorno di perle, si scorge la fodera di ermellino, segno regale che spettava ad Alessandro, come nipote di Carlo V: quest’opera divenne un modello di una felice soluzione iconografica, adottata in seguito da Taddeo Zuccari negli affreschi del palazzo Farnese a Caprarola, per proporre l’immagine adolescenziale del principe, educato presso la corte reale.
La penetrante investigazione psicologica leonardesca e la ricerca sugli umori sprigionati dagli stati d’animo si intensificarono ulteriormente nel quinquennio 1555 – 1560 fino alla lenticolare accuratezza dell’indagine fiamminga, estesa anche ai molteplici inserti narrativi di natura morta disseminati nelle scene pittoriche.
Ricordi sentimentali si colgono nel Ritratto di dama dipinto nel 1556 oggi a Berlino allo Statliche Museen Preussischer Kulturbesitz, captando con lucida osservazione analitica la sussurrata effusione che emana dall’espressione femminile, probabilmente identificabile con la madre Bianca Ponzoni Anguissola.
Squisiti esiti di verosimiglianza rimarca nel 1557 il Ritratto di dama  a Berlino, che sembra instaurare una muta conversazione con l’autrice esterna, anche qui auspicando una lenticolare lettura col soffermarsi della luce intorno al collo impreziosito dalla collana perlacea col pendaglio, scorrendo poi sui riverberi luminosi della veste per inquadrare la pelliccia di zibellino, stretta nella mano sinistra. 
La tela del '59 La Sacra famiglia dell’Accademia Carrara di Bergamo rivela una debole ripresa di moduli parmigianineschi sempre derivati da Bernardino Campi. Il dipinto ha un’ambientazione boschereccia e raffigura un momento di riposo durante la fuga in Egitto. La Vergine porge dei fiori al Bambino che si gira verso di lei mentre gioca con la barba di San Giuseppe: Sofonisba riproduce fedelmente gli effetti atmosferici del cielo tempestoso e rende molto espressivi i volti. Sofonisba è una pittrice di anime: riesce a catturare le sensazioni, i sentimenti, i moti dell'animo fugaci e irripetibili di ogni personaggio. Ella è molto attenta ai particolari: i riflessi di luce, gli sguardi, le piccole smorfie labiali; l’anima del soggetto è il vero centro focale delle sue opere. 
Dopo un breve soggiorno a Milano presso la corte del duca di Sessa, governatore di Milano (1558-60), probabilmente accompagnata oltre che dai genitori anche da Lucia, Sofonisba, col suo talento, riuscì nell’impossibile. Grazie al duca d’Alba, le si aprirono le porte della Corte spagnola di Filippo II a Madrid: i requisiti della sua pittura valsero per la chiamata a Madrid nel 1559 come Dama per la Regina Isabella di Valois.
Le sue doti di ritrattista originale e squisita erano ormai riconosciute dai grandi e dai potenti: dal Papa a Michelangelo, da Vasari a Filippo II di Spagna e proprio questo re la volle alla sua corte per quindici anni.
Massimo Capuozzo

venerdì 4 gennaio 2013

La formazione di Sofonisba Anguissola. Di Massimo Capuozzo

Nata intorno al 1530 nella suggestiva cornice della città di Cremona, dalla nobile famiglia piacentina degli Anguissola, dal Conte Amilcare e da Bianca Ponzoni, due nobili non molto ricchi, ma assai colti ed amanti delle arti liberali. Sofonisba era la prima di sette figli, seguivano cinque sorelle e un fratello: Elena, Lucia, Minerva, Europa, Anna Maria ed Asdrubale. A lei ed al fratello Asdrubale spettò continuare nel nome la saga cartaginese iniziata dal nonno Annibale.
Il nobile Amilcare, influenzato dal clima intellettuale ed aperto della cultura cremonese e, sull’esempio del giurista Agostino Gallarati che sostenne il talento letterario della figlia Partenia, intese le inclinazioni artistiche delle figlie e tentò di promuoverle presso le più alte cariche del tempo.
Amilcare aveva un ruolo importante nella società, faceva parte del consiglio dei Decurioni, che governava la città di Cremona per conto dell’impero spagnolo di Filippo II. Questa attività gli permise importanti contatti con personaggi in vista sia spagnoli sia italiani. Bianca ebbe un ruolo importante nella famiglia con le sue altolocate conoscenze, probabilmente riuscì a promuovere il talento artistico delle sue figlie. I tempi erano maturi per un riconoscimento dei talenti femminili, ad iniziare dalle corti, dove si misero in luce.
Le Sofonisbe, come le chiama il misogino Carlo Emilio Gadda, crebbero insieme, istruite e assecondate dai genitori a coltivare i loro talenti intellettuali ed artistici. Una storia di illuminata anticipazione di ciò che, a distanza di poco meno di tre secoli, divenne la costruzione borghese dell’identità femminile di classe medio-alta: secondo i suoi genitori, infatti, la musica, la poesia, l’arte potevano sposarsi con la maternità, con la dedizione ai figli, con la cura della casa, purché non si facessero mestiere, purché non emancipassero la donna dal perimetro della casa e della famiglia, procurandole autonomia, decisionalità e denaro da amministrare.
Intorno al 1546, le Sofonisbe continuarono ad essere indirizzate dal padre verso una formazione intellettuale piuttosto liberale e sicuramente anticonformista per l’epoca. Perseguendo l’obiettivo di un modello di socialità filo-femminile, e coltivando la speranza di garantire lustro e continuità alla propria stirpe, Amilcare Anguissola decise, infatti, di coltivare le qualità delle proprie figlie, avviandole a studi umanistici ed artistici. In virtù di un padre per certi aspetti anticonvenzionale, come Amilcare, che si può considerare, senza dubbio, un precursore di quella che, pochi secoli dopo, diventò l’educazione tradizionale delle future nobildonne, la figura di Sofonisba acquisisce oggi una valenza storica ancora più significativa.
Nel 1546, Amilcare Anguissola si accordò con il pittore Bernardino Campi (1546 – 1549) giovane – era più grande di Sofonisba soltanto di  dieci anni – ma destinato ad una carriera folgorante e gli mandò a bottega le due maggiori, Sofonisba ed Elena, di poco più piccola, affinché imparassero a disegnare e a dipingere dopo il tirocinio Elena però decise di entrare in convento.
Il ventiquattrenne maestro Bernardo era un pittore di formazione mantovana non imparentato con i cremonesi Giulio Campi e Antonio Campi e Vincenzo Campi, era il tipico esponente del Manierismo lucido, elegante e sofisticato di Parmigianino. Campi era famoso per i ritratti, ed Amilcare desiderava che le figlie potessero seguire questa strada potendo, in un futuro, ritrarre l’aristocrazia che essi frequentavano e in quel periodo la corsa al ritratto era diventata una vera mania.
Certamente le due ragazze non frequentarono la bottega vera e propria accanto a garzoni e apprendisti di ogni  genere, ma per tre anni si recarono tutti i giorni a casa del pittore, accompagnate da una domestica, sotto la vigilanza della madre e ricevettero un’educazione che fornì loro i rudimenti dell’arte, in particolar modo dedicandosi allo studio dei ritratti dal naturale e tralasciando l’invenzione dei consueti soggetti religiosi.
Nel 1549, però, Bernardino dovette lasciare Cremona, per ritrarre Ippolita Gonzaga, figlia del governatore di Milano: trasferitosi in maniera stabile Milano alla corte di Ferrante I Gonzaga, esportò le novità del Manierismo in una scuola pittorica ancora attardata nell'imitazione dello stile di Leonardo e Gaudenzio Ferrari.
Sebbene le sorelle fossero già pronte per camminare da sole, il padre le volle affiancare al più anziano Bernardino Gatti detto il Sojaro (1549-1551ca), pavese d’origine, ma radicato tra Cremona e Piacenza era ben legato alla vivace cultura artistica cremonese del Cinquecento: i suoi modelli furono Pordenone e Correggio, che fu suo maestro, riuscì a combinare questi motivi in una formula personale di classicismo, senza escludere inflessioni naturalistiche di sapore lombardo.
Sofonisba ritornò in famiglia si specializzò nel ritratto ed insegnò le tecniche alle sorelle Lucia, Europa e Anna Maria e proprio nell’ambiente domestico nacquero i suoi dipinti più celebri. In questo periodo spesso i modi figurativi sono collocati all’incrocio di diverse traiettorie, tra il linguaggio dell'area emiliana e lombarda, quello che affluisce dalle scuole nordiche, in particolare quelle fiamminghe, e le influenze iniziali provenienti dalla Spagna. Il repertorio che si viene definendo predilige, più che la pittura religiosa o storica, i temi delle nature morte magari ambientate nelle vaste cucine e soprattutto la pratica del ritratto, nella quale Sofonisba eccelle, nel virtuosismo, nella resa dei dettagli di stoffe e gioielli, nell'attenzione per una resa fisiognomica che sottolinea, nell'individuo, la sua aderenza alla società di corte.
Massimo Capuozzo

domenica 30 dicembre 2012

La Storia le storie: la storia di Irene. Di Massimo Capuozzo

La storia di Irene comincia curiosamente due anni dopo la sua morte, quando, nel 1561, Dionigi Atanagi, un letterato legato alla Curia romana, pubblicò un volume Vita di Irene da Spilimbergo che piacque a Pietro Giordani e a Benedetto Croce. In quest'opera, che supera largamente le poesie composte per l'occasione da letterati e poeti famosi, si diffonde la vena sottilmente affettiva e melanconica di Atanagi nel breve distendersi della rievocazione biografica, rappresentando il personaggio diafano di una giovinetta in un clima di trasognata e poetica luminosità.

Gli elogi poetici contenuti – 279 in italiano e 102 poesie latine – appartengono a qualche anonimo e mentre altri sono scritti o attribuiti a personalità della cultura contemporanea tra cui Lodovico Dolce, Bernardo e Torquato Tasso, Tiziano, Luigi Tansillo, Angelo Di Costanzo, Benedetto Varchi e altri meno noti.
Irene nacque nel 1540 nel piccolo paese di Spilimbergo a circa 30 km a nord ovest di Udine, secondogenita del Conte Adriano da Spilimbergo e della nobile veneziana Giulia Da Ponte. Suo padre le impartì la prima educazione e rilevò ben presto la precocità intellettuale della figlia, che assimilava con tanta prontezza, quanto le era insegnato da suscitare l'ammirazione di quelli che la conoscevano: Bona Sforza, regina di Polonia, che di passaggio per il Friuli fu ospite dei Conti Spilimbergo, le donò due catene d'oro.
Il padre di Irene morì quando la bambina non aveva ancora dieci anni e, la madre, dopo il periodo di lutto, passò a seconde nozze, estromettendo la piccola dall’eredità paterna.
Suo nonno materno, Giovan Paolo Da Ponte volle Irene presso di sé e la giovinetta fece il suo ingresso nella nobile famiglia dei Da Ponte, una delle più illustri casate di Venezia, che vantava anche un doge, Nicolò Da Ponte.
Le qualità della giovinetta a Venezia ebbero modo di svilupparsi e di rendersi concreto: fra le dotte conversazioni e gli eleganti modi della nobile Olimpia Malipiero, Foscarina Venier e Adriana Contarini, Irene fu educata alle lettere, alla musica e al ricamo come tutte le patrizie veneziane; alla serietà degli studi fra le dotte dissertazioni letterarie di Pietro Bembo ed Elisabetta Quirini, consolatrice e compagna dei suoi pensieri e ispiratrice dei suoi ultimi sonetti amorosi dal 1537 in poi, cantata, oltre che da Bembo, da monsignor Giovanni Della Casa e ritratta da Tiziano; al culto del bello dalla familiarità di vita con Tiziano e Sansovino che, in fuga da Roma dopo il sacco del 1527, si era stabilito a Venezia.
Lo studio dei migliori scrittori italiani da Petrarca a Bembo assiduo nell'età dell'immaginazione e dell'entusiasmo e le dotte conversazioni accrebbero il patrimonio delle sue conoscenze tanto che cominciò ben presto ad attrarre l'attenzione degli illustri frequentatori del cinquecentesco palazzo Da Ponte.
Gli anni trascorsi nel vecchio castello di Spilimbergo, nella contemplazione delle bellezze della natura, del dolce paesaggio che dalle sponde del Tagliamento delicatamente si eleva fino alle verdi colline per perdersi nella grandiosità delle Alpi Carniche, avevano lasciato nel suo cuore un nostalgico desiderio di qualche cosa che potesse far rivivere il mondo interiore. A Spilimbergo aveva appreso ancora bambina il disegno da una certa Campaspe che frequentava il castello con altre ragazze; a Venezia, attratta nell'orbita di Tiziano, volle diventare sua allieva. E Tiziano, sebbene spesso ostile e infastidito dall’avere accanto allievi o imitatori, la accettò di buon grado e non era poco per lei divenire allieva di colui che fra i pittori era chiamato maestro universale".
L'amore per la natura, per quella natura che è straordinariamente superiore a qualsiasi tecnica pittorica e che sola può ispirare la bellezza fu il principio che unì maestro ed allieva fin dall'inizio. Per due anni Tiziano guidò amorevolmente Irene, incoraggiando e correggendo con paternità e con severità, indicandole come modello da imitare Giovanni Bellini che era stato suo maestro e che aveva saputo inculcargli tanta grazia straordinaria nelle sue Madonne.
Tiziano si preoccupò di instillare in Irene quel senso del bello che deriva dall'armonia dei colori e dall'equilibrio tra il semplice e il vero. Irene sentì nella persona e nell'arte di Tiziano qualche cosa che trascendeva le più elette capacità e fece meta dei suoi pellegrinaggi quasi quotidiani l'Assunta che già splendeva nella Chiesa dei Frari. La contemplazione e la meditazione di quel gioiello furono la sua scuola migliore. Volle allora cimentarsi con la tavolozza. Rimangono di lei tre quadretti che nell’armoniosa fusione delle tinte, delle luci, della composizione possono considerarsi una splendida prova della versatilità e dell'intuizione di Irene.
I tre quadri, portati alla luce dal conte Fabio di Maniago e raffiguranti rispettivamente "Noè che entra nell'Arca", il "Diluvio Universale", la "Fuga in Egitto", furono composti da Irene diciottenne, dopo un anno cioè di studio assiduo sotto la guida del suo illustre maestro, spinta da un profondo senso di emulazione per la pittrice Sofonisba Anguissiola che pur giovane già aveva fama meritata.
Oltre la pittura storico-biblica sembra che Irene abbia appreso da Tiziano anche l'arte del ritratto.
Irene fu anche scrittrice: poesie e alcune prose ma tutti questi saggi letterari andarono perduti.
Aveva appena diciannove anni quando una febbre violentissima la assalì, accompagnata da acutissimi dolori alla testa. Per ventidue giorni si dibatté tra la vita e la morte Il trapasso, anche nel tormento del male, fu sereno e cristianissimo com’era stata la sua vita. Era il 15 dicembre del 1559.
Tiziano che l'aveva tenuta come allieva prediletta, che l'aveva amata come un padre, la volle immortalare in un quadro, dove splendore, bellezza e compostezza si fondono mirabilmente. Il quadro del Conte Giulio di Spilimbergo e custodito nella sua casa di Maniago, fu in seguito fu portato in casa dei Conti Maniago.
È generalmente rifiutata dalla critica l'antica attribuzione ad Irene di Spilimbergo di un dipinto raffigurante S. Sebastiano nella parrocchiale dei SS. Mauro e Donato di Isola in Istria; la paternità della pala è stata infatti assegnata a un autore della scuola di Palma.
Massimo Capuozzo

giovedì 27 dicembre 2012

La Storia le storie: Storia di Marietta. Di Massimo Capuozzo


Quella di Marietta Robusti, nota come La Tintoretta, è la storia struggente di un'artista di rare qualità, di una donna bella, intelligente che dovrebbe comunque essere maggiormente ricordata, in omaggio di tutte le donne che cercano di capire e di apprendere quanto di bello fa parte della cultura, della bellezza e delle risorse che appartengono a qualsiasi donna.
Marietta è un episodio della vita delle donne veneziane dell'età moderna che furono sicuramente più libere ed intellettualmente indipendenti rispetto ad altre realtà italiane, proprio perché figlie ed espressione della particolarità di Venezia e delle sue istituzioni, una città che aveva saputo da sempre rapportarsi in modo disinvolto ed aperto con la diversità, una città senza mura, crocevia di genti e di culture, che accoglieva una società cosmopolita, multiforme e vivace: un milieu unico quello di Venezia nel panorama degli antichi stati italiani. La presenza femminile fu una partecipazione intelligente e creativa in molti campi della cultura della città, dalla scrittura, alla pittura, alla musica, all'istruzione: Gaspara Stampa, autrice di belle e accorate rime petrarchesche, di suor Arcangela Tarabotti con la sua amara denuncia delle monacazioni forzate, di Marietta Tintoretto, di Barbara Strozzi, compositrice ed intellettuale spregiudicata, e di tante altre ancora.
La maggior parte delle informazioni su Marietta derivano dalla breve biografia scritta da Carlo Ridolfi ed inserita nelle Meraviglie dell’Arte, pubblicato  nel 1648.
Tintoretto curò molto la sua formazione culturale, infatti, le fece studiare anche canto e musica: egli voleva fornire a sua figlia una buona educazione in cui era inclusa anche la pittura, voleva renderla una dama di elevata cultura come lo erano Sofonisba Anguissola o Irene di Spilimbergo, allieva di Tiziano.
Marietta era nata a Venezia non si sa se nel 1554 o nel 1560 e aveva manifestato fin da piccola la sua spiccata propensione per il disegno. Jacopo Tintoretto adorava questa figlia avuta prima del matrimonio, e riconoscendo in lei un se stesso bambino, a sette anni la fece entrare nella sua bottega per istruirla ai principi della pittura. Carlo Ridolfi, ci dice che Tintoretto la faceva vestire con abiti maschili per poterla portare con sé suoi cantieri in giro per la città.
L’attività di Tintoretto era affiancata dalla presenza di una vivace bottega, in cui operarono anche alcuni membri della sua stessa famiglia tra cui il figlio Domenico e Marietta. Nella bottega del padre Marietta apprese tutti i segreti della pittura e del disegno, fino al punto che la sua mano era confondibile con quella del padre. Crescendo si dedicò eccellendo anche nella musica e nel canto, esprimendo così una poliedricità che la accomunò ad altre artiste veneziane venute dopo di lei, come ad esempio Rosalba Carriera. Venezia era l'humus giusto per esaltare le capacità non solo maschili, ma anche e forse sopratutto femminili in questo settore.

Appena sedicenne, Marietta dipinse il Ritratto di Ottavio Strada, un giovane mercante d'arte. Con un'espressione di innocenza assunto, egli accetta avidamente le monete d'oro e d'argento versato in mano da una cornucopia da una figura femminile allegorica. Ansiosamente strofina una piccola statua apparentemente classica che ha appena acquistato. Non è sorprendente che la statua a grandezza naturale di Venere – forse un autoritratto della giovane pittrice – volta il viso come per disgusto.
Nel 1580, Marietta divenne così famosa presso la società veneziana e i suoi graziosi ritratti furono, talmente, apprezzati, nei circoli aristocratici della città, che la moda del momento divenne quella di posare per la Tintoretta tanto che i nobili consideravano un privilegio farsi ritrarre da quest’artista.
Marietta dipinse nella bottega di suo padre per 15 anni, mentre contemporaneamente completava i ritratti che le erano commissionati, ottenendo grande popolarità come ritrattista, genere per il quale ottenne molte commissioni, sebbene poche opere siano sopravvissute o sono state attribuite a suo padre o ad altri artisti.
Le false attribuzioni sono state a lungo un problema con artiste del passato: solo recentemente, storici dell'arte moderna hanno portato alla luce una serie di artiste rinascimentali donne che non erano stati noti in passato, ma solo da poco sono state riconosciute, alcune di esse sono Sofonisba Anguissola e sua sorella Lucia Anguissola, Lavinia Fontana, e Diana Scultori Ghisi.
Marietta sarebbe potuta diventare molto famosa: la sua fama era cresciuta al punto da ricevere l’invito di lavorare come pittrice alla corte di Filippo II e dell’Arciduca Ferdinando e a quella dell’Imperatore Massimiliano d’Asburgo, ma per l'attaccamento quasi morboso che la legava al padre rifiutò per non allontanarsi dalla sua casa. Marietta, facendo della pittura il suo mondo, trascorse quasi tutta la sua vita nella bottega del Tintoretto, ma purtroppo il suo lavoro, sommerso ed a volte confuso con quello del padre, non è sopravvissuto: di lei sono rimaste pochissime opere certe, contrassegnate dalla caratteristica firma di m.
Secondo un’altra ipotesi invece suo padre non le avrebbe permesso di lasciare il suo fianco: le donne in questo periodo, quantunque veneziane, erano sottoposte ai desideri dei loro padri o mariti. La sua carriera era quindi sempre sotto il controllo del padre e non ebbe la possibilità di svilupparsi in senso autonomo.
Avendo lavorato a fianco di suo padre, il loro lavoro diventò indistinguibile tanto che insieme lavorarono su numerosi dipinti. Jacopo faceva profondo affidamento su sua figlia per la sua felicità personale e per la sua opera. Solo in seguito, quando un pretendente accettò di vivere con lei sotto il tetto paterno, Jacopo consentì a Marietta di sposarsi.
Nel 1590, quattro anni dopo aver sposato il gioielliere veneziano Marco Augusta, da cui ebbe un figlio, Giacometto, morto ad appena undici mesi Marietta, distrutta e senza alcuna velleità artistica, soli trent'anni morì.
Fu sepolta nella gotica Chiesa di Santa Maria dell’Orto, parrocchia di famiglia, lasciando un padre distrutto dal dolore e dove, dopo alcuni anni fu tumulato anche Tintoretto, ormai vecchio.

Nonostante la sua abilità e la sua popolarità come ritrattista, Marietta non ricevette commissioni note di grandi opere religiose, come pale d'altare o decorazioni della chiesa di altri: ella fu soprattutto una ritrattista. Tra le poche opere il Ritratto di uomo anziano con ragazzo, scoperto nel 1920 talmente vicino allo stile paterno da rivaleggiarne come potenza, stile e profondità e un suo Autoritratto in cui si rappresenta con in mano lo spartito di un madrigale ed una spinetta accanto.
Massimo Capuozzo

lunedì 24 dicembre 2012

Longobardi, Normanni all'ombra della Cattedrale di Salerno di Massimo Capuozzo


Tra stretti vicoli e piccole botteghe artigianali, si erge uno dei più suggestivi esempi di architettura medioevale del Mezzogiorno d’Italia, la maestosa Cattedrale di San Matteo.
Alla sua costruzione contribuirono soprattutto due circostanze: la traslazione delle reliquie di San Matteo da Capaccio a Salerno e la conquista della città, nel 1075, da parte del duca normanno Roberto  il Guiscardo, che, sconfitto Gisulfo II principe di Salerno, pose fine al principato longobardo. Roberto il Guiscardo era già noto ai salernitani perché aveva sposato la colta principessa Sichelgaita, sorella di Gisulfo II: esortato dall'arcivescovo Alfano I, dispose che si costruisse una grande cattedrale in onore di San Matteo, non solo per rafforzare la propria potenza e la propria immagine, ma soprattutto per guadagnarsi il favore della cittadinanza e la benevolenza del Papa.
Con la demolizione delle chiese paleocristiane di S. Maria degli Angeli, sorta a sua volta sulle rovine di un tempio romano, e di S. Giovanni Battista e con le donazioni delle famiglie patrizie salernitane si ricavarono i terreni su cui fu edificata la nuova Cattedrale reimpiegando colonne, capitelli, architravi e lastre marmoree dei templi pagani della città. La sua realizzazione avvenne in tempi brevissimi forse troppo brevi: già nel 1081 fu, infatti, terminato il primo nucleo architettonico costituito anche simbolicamente dalla Cripta, in cui furono riposte le spoglie di S. Matteo e dei Santi e Martiri salernitani.
Le vicende della costruzione di questa Cattedrale sono strettamente connesse all’intreccio politico fra Alfano I, l’agonizzante potere longobardo e l’ascesa normanna di Roberto il Guiscardo.
Alfano come il suo amico l’abate Desiderio di Montecassino, era un longobardo di nobile famiglia – imparentata con quella del principe di Salerno – e divenne anch’egli monaco in Santa Sofia di Benevento. Eletto abate di San Benedetto e poi arcivescovo di Salerno per la sua fama di scrittore versatile e colto, produsse pregevoli Inni, ispirati ad Orazio, e scrisse opere di vario genere: agiografia, teologia e medicina, e raffinate traduzioni dal greco, base di successive esperienze cliniche e di ricerca medica. Durante il suo episcopato, in corrispondenza con il movimento per la riforma della Chiesa, Alfano accompagnò a Costantinopoli il principe di Salerno Gisulfo II, ospite del facoltoso mercante amalfitano Pantaleone, per chiedere sostegno ed aiuto militare al basileus Costantino X Ducas contro il cognato Roberto e i suoi normanni e per promuovere una lega anti-normanna. Ma Gisulfo, a sua insaputa, lasciò Alfano in ostaggio all'Imperatore d'Oriente: dopo una inimmaginabile fuga tornò in Italia dove fu accolto da Roberto il Guiscardo e dalla moglie, la principessa Sichelgaita. Quando nel 1075 il Guiscardo conquistò Salerno, Alfano fece da mediatore, nella delicata fase di transizione, tra longobardi e normanni. Per il ritrovamento delle reliquie di San Matteo lo stesso Papa Gregorio VII si rallegrò con Alfano, che approfittò di tanto entusiasmo per proporre a Roberto il Guiscardo la costruzione di un monumento che manifestasse tutta la santità e lo splendore di Salerno che, nel 1076, era divenuta la capitale dello stato normanno: una nuova cattedrale che potesse accogliere le reliquie di San Matteo. La costruzione iniziò nel 1080 con il patrocinio di Roberto il Guiscardo, ricordato come committente da alcune iscrizioni sul portale centrale e fu consacrata dallo stesso papa Gregorio VII che nel 1084, in piena lotta per le investiture, era stato condotto a Salerno – dove morì nel maggio 1085 – dallo stesso Roberto il Guiscardo, dopo essere stato liberato dall'assedio dell'imperatore Enrico IV, in Castel Sant’Angelo.
Nella vicenda della cattedrale di Salerno entra un nuovo protagonista: Papa Gregorio VII le cui linee-guida della riforma furono l'imitazione degli apostoli e il ritorno alle consuetudini della Chiesa delle origini, che in campo artistico si manifestò in un ritorno a forme e a temi paleocristiani: l'arte divenne in questo modo un concreto mezzo di propaganda papale delle idee riformatrici. Uno dei punti di partenza di questo ritorno al passato è stato individuato nell'opera di Desiderio, poi successore di Gregorio con il nome di Vittore III, che volle ricostruire il suo monastero ispirandosi alle grandi basiliche paleocristiane con la consacrazione della chiesa nel 1070. Nell'ambito della produzione libraria, le influenze più rilevanti della riforma gregoriana sono state individuate nella diffusione delle grandi bibbie atlantiche e nel rinnovamento della tipologia degli Exultet in Italia meridionale conseguente all'imposizione della liturgia romana su quella greca.
I celebrati avori conservati nel Museo Diocesano e la cosiddetta cattedra gregoriana della Cattedrale sono stati messi da alcuni in relazione con la presenza di Gregorio a Salerno. Nell'impiego di marmi antichi rilavorati per i braccioli a protomi leonine della cattedra – presumibilmente quella impiegata da Gregorio VII durante la cerimonia di consacrazione del duomo – si trova attuato concretamente quel ritorno all'Antico, legato alla riforma gregoriana, che trovò un seguito nella produzione di seggi papali a Roma fino all'inizio del Duecento.
La Cattedrale fu costruita tra il 1080 ed il 1084 e, alla fine dello stesso anno consacrata dal papa Gregorio VII; per l’eccessiva celerità con cui fu costruita e per i cedimenti di terreno dovuti a numerosi sismi, subì nei secoli numerosi rifacimenti.

L'arcivescovo Alfano I, proveniente da Montecassino e legato all'abate Desiderio, si ispirò alla chiesa costruita da quest'ultimo e ai modelli romani: Alfano, che aveva assistito alla costruzione della nuova basilica cassinese e che nel 1071 era presente alla celebre cerimonia organizzata da Desiderio per inaugurare la nuova abbazia, si ispirò per la forma e per la pianta della costruzione  al modello della chiesa abbaziale di Montecassino, conoscendone profondamente il significato. La cattedrale di Salerno con le sue tre navate – di cui quella centrale molto larga – l’alzato altissimo, le tre absidi che ne coronano il fondo, il quadriportico d'accesso, riprende esattamente quegli elementi di esaltazione della romanità che Desiderio aveva introdotto a Montecassino, ispirandosi alle basiliche paleocristiane di Roma pur con delle novità, come ad esempio la forma della cripta ad aula con lo spazio scandito da colonne e con le absidi in corrispondenza con quelle del transetto superiore. L'elemento di romanità a Salerno è evidente anche nella presenza di numerosi elementi di spoglio: colonne, capitelli, architravi.
Della tipologia cassinese Alfano modificò solo le dimensioni, che furono quasi raddoppiate – nonostante i problemi tecnici ed economici che una tale soluzione comportava – per esaltare l'importanza di Salerno. L'imitazione di modelli aulici che caratterizzò gli stili dei mosaicisti neocampani che lavorarono per gli arcivescovi Alfano appare nei mosaici del duomo di Salerno. In realtà l'intera decorazione del duomo è attribuita sia ad Alfano I, sia al suo successore Alfano II (1085-1121).
L'aspetto attuale corrisponde per ampia parte alla ristrutturazione barocca, avviata dopo il terremoto del 5 giugno 1688 su progetto dell'architetto napoletano Arcangelo Guglielmelli e soprattutto all’opera di Ferdinando Sanfelice, modificato e completato dall'architetto romano Carlo Buratti.

L'ingresso attuale è stato modificato rispetto a quello medievale: mentre quello romanico prevedeva dodici scalini semicircolari, quello attuale si presenta invece con una scalinata monumentale a doppia rampa: dell’antico prospetto resta solo il portale detto Porta dei Leoni a causa di due statue ai lati degli stipiti raffiguranti un leone – simbolo della forza – e una leonessa con il suo cucciolo – simbolo della carità. Sull’architrave, scolpita ad imitazione di un portale romano, una scritta ricorda a chi entra l’alleanza tra i principati di Salerno e di Capua. Il fregio, raffigurante una pianta di vite – evidente rimando al salvifico Sangue di Cristo – presenta altre decorazioni animali: una scimmia – simbolo dell’eresia – ed una colomba che becca i datteri – simbolo dell’anima che si pasce dei piaceri ultraterreni; in alto sulla lunetta un affresco del Seicento raffigura San Matteo mentre scrive il Vangelo ispirato dall’angelo.
L'ampio atrio, unico esempio di quadriportico romanico in Italia oltre a quello della chiesa di Sant’Ambrogio a Milano, è circondato da un porticato – ideale continuazione verso l’esterno delle navate interne – retto da ventotto colonne di spoglio, provenienti dal vicino Foro Romano, con archi a tutto sesto rialzato decorati con intarsi di pietra vulcanica sulle lesene e ai pennacchi poggiati su capitelli corinzi, che riecheggiano tipologie islamiche. L’atrio, completato da uno splendido loggiato soprastante a bifore e pentafore, è arricchito su tutti i lati da una serie di sarcofagi romani, riutilizzati in epoca medievale, configurandosi come una specie di Pantheon  cittadino.

Sul lato meridionale sorge l’alto e maestoso campanile arabo-normanno della metà del XII secolo. Il monumentale campanile si eleva per quasi 52 metri con una base di circa dieci metri per lato, fu commissionato da Guglielmo da Ravenna, arcivescovo di Salerno dal 1137 al 1152. La sua particolare composizione risponde ad una precisa esigenza statica poiché i primi due piani, indubbiamente più pesanti, sono in travertino e costituiscono una solida base di sostegno. Gli altri due piani sono in blocchetti di laterizio, certamente più leggeri. Tutti i piani sono alleggeriti da ampie bifore che scaricano i pesi lateralmente sugli angoli. La torretta costituisce la parte più interessante con la decorazione a dodici archi a tutto sesto intrecciati con alternanza regolare di diversi materiali policromi. Le forme del campanile, inoltre, rimandano a precise simbologie bibliche. I piani sono tre, numero equivalente ai livelli dell’universo secondo le Sacre Scritture; inoltre, la forma cubica vuol ricordare la loro fisicità. La torretta, invece, ha una forma circolare che nella Bibbia equivale all’elemento ultraterreno; la parete esterna è percorsa da dodici colonnine – quanti sono gli apostoli – che reggono la fascia stellata a sei punte – stella ebraica – che è la raffigurazione del paradiso. In cima a tutto vi è la cupola, la cui perfetta forma sferica rappresenta Dio.

L'ingresso principale alla chiesa è costituito da una porta di bronzo bizantina, uno dei sei esemplari bizantini presenti in Italia, fusa direttamente a Costantinopoli nel 1099, inserita in un bel portale marmoreo medievale. La porta fu donata alla città da due coniugi, Landolfo e Guisana Butrumile, è formata da cinquantaquattro formelle in gran parte raffiguranti croci bizantine, presenta al centro una teoria di 6 icone raffiguranti S. Paolo, S. Pietro, S. Simeone, Gesù benedicente, S. Matteo e la Vergine, la raffigurazione simbolica di due grifi che si abbeverano ad un fonte battesimale – il grifo, oltre che dell’immortalità dell’anima, è anche simbolo della famiglia normanna degli Altavilla, ai quali apparteneva il fondatore Guiscardo. Le porte bronzee bizantine di Salerno insieme con le altre costituiscono una straordinaria testimonianza del patrimonio artistico del Medioevo e un documento unico della produzione metallurgica di Costantinopoli, di cui nelle regioni dell’impero d’Oriente non è sopravvissuto nessun altro caso simile. Questi preziosi manufatti non rappresentano solo un rilevante fenomeno di gusto legato al sempre più largo successo riscosso dalle arti suntuarie di Bisanzio in epoca romanica, ma sono anche un documento di primaria importanza per ricostruire quelle rotte commerciali e artistiche mediterranee nelle quali svolsero un ruolo decisivo le Repubbliche marinare, soprattutto Venezia, Amalfi e Pisa.
La basilica è un imponente edificio a tre navate, ma probabilmente in origine dovevano essere cinque, di cui quella centrale è sormontata da una volta a botte, mentre il transetto presenta delle capriate in legno rifatte negli anni cinquanta.
La navata centrale, originariamente su colonne di spoglio – le colonne ed i capitelli originari sono stati in parte scoperti all'interno dei pilastri barocchi durante i restauri – si apre sull'ampio presbiterio nel quale si conservano il pavimento ad intarsi marmorei e porzioni dei mosaici.
Al termine della navata s’inserisce un coro ligneo: l’arcivescovo Romualdo II Guarna (1163-1181) eresse nel Duomo una parete, rivestita di marmi e mosaici, che separava il transetto dalla navata: iconostasi ante litteram, demolita nel XIX secolo e sulla quale – secondo un’altra ipotesi – probabilmente erano posti gli avori, divideva l'area presbiteriale dalla navata, una divisione, ulteriormente sottolineata dalla delimitazione dei due celebri amboni e del candelabro pasquale degli ultimi decenni del XII secolo. Durante le ristrutturazioni barocche sia l'ambone sia l'iconostasi hanno subito delle alterazioni che rendono oggi impossibile una ricostruzione dettagliata della configurazione iniziale. Attorno all'altare si conserva ancora l’antico recinto costituito da lastre ricoperte con intarsi marmorei.
I due amboni salernitani, sorretti da colonnine tipicamente bizantine decorate con un intarsio di pietre policrome e decorate con sculture e mosaici di ambito siciliano, hanno un ruolo fondamentale nella storia dell’arredo liturgico delle chiese del Mezzogiorno: dal periodo paleocristiano ed altomedievale fino alla rinascita dei secoli XII e XIII, questo tipo di arredo liturgico era caratterizzato dalla presenza di un ambone a doppia rampa, privo quindi di colonne. A Roma, cuore pulsante del patrimonium Petri, è molto documentata la tipologia a doppia rampa, ma nei territori di influenza campana invece i pulpiti di Salerno, strutturati a cassa su colonne, dovettero svolgere dalla fine del XII secolo un’azione normativa tale da non lasciare più spazio a nessuna variante, diventando l’indiscusso modello di riferimento. I pulpiti salernitani Guarna e d’Aiello soppiantarono immediatamente la struttura a doppia rampa, sebbene molto diffusa, come si evince anche dal superstite ambone Rogadeo della Cattedrale di Ravello o dalle numerose miniature degli Exultet, ispirando a seguire tutti i pulpiti prodotti in area campana, dalla stessa Ravello a Caserta, da Capua a Sant’Angelo in Formis, da Teano a Sessa Aurunca.

Sulla sinistra, a cornu evangeli, è collocato l’ambone Guarna del 1180 che, finemente decorato con mosaici e sculture, fu donato da Romualdo Guarna, come è riportato sull’iscrizione che corre lungo il parapetto. Il pulpito è retto da quattro colonne, tre delle quali sormontate da bellissimi capitelli figurati, mentre la quarta presenta il capitello a motivi vegetali. Uno dei tre è decorato con figure dalle code serpentiformi poste negli spigoli. Il secondo presenta sulle facce delle figure femminili elegantemente scolpite in abbigliamento classico e figure maschili che come atlanti sorreggono con fatica gli spigoli del capitello. Nel terzo le figure femminili sono sostitute da altrettante figure maschili mentre negli spigoli trovano posto leoni accucciati. Colpisce il naturalismo con cui sono scolpite, quasi a tutto tondo, le figure. Sugli archi si trovano, in rilievo sul fondo intarsiato, le raffigurazioni di evangelisti – San Matteo e San Giovanni – e profeti. La base della cassa è delimitata da una cornice scolpita a tralci avvitati. Un'aquila domina il gruppo marmoreo che costituisce il leggio: si narrava che l'aquila, quando diventava vecchia, con volo possente si librava fino al sole, le piume si bruciavano al calore ed essa cadeva in mare, dal quale poi emergeva ringiovanita. Sul fondo del lettorino poligonale si osserva il rilievo raffigurante la testa di Abisso. Particolarmente interessanti sono le figure di atlanti uno giovane ed uno vecchio che si trovano sugli spigoli. Particolarmente ricca è la lastra rivolta verso la navata: nastri intrecciati ricavano degli spazi in cui trovano posto figure di uccelli e draghi. Al particolare pregio delle sculture si affianca la preziosità della decorazione musiva fondata sul ripetersi e sul complicarsi del modulo di ispirazione bizantina del disco inscritto in una fascia a motivi geometrici sempre diversi. Ogni pluteo è decorato da cinque dischi, di porfido o di tessere musive dorate, uniti da volute in mosaico. Un astratto valore iconico distingue nei dischi in alto un mondo superiore, sede degli eletti, e nei dischi in basso un mondo inferiore, il nostro. Il disco al centro simboleggia Gesù: centro dello spazio cosmico e della storia. Come la scultura, anche la decorazione musiva appare in piena sintonia con quanto era stato espresso nei grandi cantieri palermitani.

Molto più grande è l'ambone D’Ajello del 1195 posto a destra, a cornu epistulae la cui donazione è attribuita alla famiglia dell’arcivescovo Niccolò D’Aiello. Se l’attribuzione è incerta, evidente appare l’affinità stilistica con l’ambone Guarna, con il muro di recinzione e con il cero pasquale, il che fa ipotizzare una contemporaneità di esecuzione nella seconda metà del XII secolo. L’ambone è a pianta rettangolare su dodici colonne a fusto liscio con capitelli in cui si ripetono più motivi ornamentali; sui pannelli a mosaico si ritrova il motivo del disco inserito in una cornice a spirale. I capitelli del colonnato, di fattura più semplice rispetto a quelli dell'altro ambone soprattutto quelli con figure di uccelli, protomi e cornucopie, sono in stretto collegamento con quelli di analogo soggetto, ma di fattura meno raffinata, del chiostro di Monreale. Le lastre sono ricoperte con motivi a nastri intrecciati a quinconce che ritagliano spazi ricoperti con minuti intarsi multicolori. L'ambone ha due lettorini di cui quello rivolto verso la navata raffigurante l'aquila che artiglia la testa dell'uomo col serpente. Il secondo, rivolto verso il presbiterio, è costituito da due diaconi stanti su leoncini. Lo stile del rilievo è molto diverso dal precedente è richiama esperienze di tipo settentrionale, francesi o tedesche.

Accanto all’ambone maggiore, c’è il candelabro del cero pasquale, cilindrico e ricoperto da tarsie a zig-zag, a spirale e lineari. La base di tipo corinzio è affiancata da quattro figure di orsi accovacciati mentre il fusto è diviso in tre parti da nodi di cui quello superiore è decorato con raffinati intarsi naturalistici.
Su tutta l'area prebiteriale – coro, presbiterio e transetto – sono realizzati con motivi di tarsie policrome eseguiti su ordine dell’arcivescovo Guglielmo da Ravenna, nella prima metà del XII secolo.
Le tre absidi si innestano direttamente sul muro orientale del transetto. Degli ampi mosaici originari, della fine dell'XI secolo, rimangono solo pochi ma significativi frammenti dei simboli di Matteo e Giovanni. Sul fondo dell'abside centrale si trova la cattedra che si dice appartenuta al vescovo Alfano in fondo troneggia l’altare decorato con paliotti d’argento. Nell'abside sinistra un mosaico dell'XI secolo, completato ad affresco nel XIV secolo, raffigura il Battesimo di Cristo. L’abside della navata destra, detta Cappella dei Crociati, perché durante la visita di Papa Urbano II, fu istituita una confraternita che si proponeva di raccogliere soldati e fondi per la liberazione del Santo Sepolcro. Il committente, Giovanni da Procida, la fece costruire e rivestire di mosaici nel 1258: Giovanni da Procida raffigurato in atto di genuflessione nei pressi della figura centrale di San Matteo. Il mosaico al centro della cappella rappresenta San Matteo in trono; al di sopra San Michele Arcangelo, ai lati San Lorenzo, Giacomo, Fortunato e Giovanni. Ai piedi di San Matteo si vede, in piccolissime proporzioni, la figura di Giovanni da Procida. Sotto l’altare è presente l’urna del Papa Gregorio VII che morì in esilio a Salerno a causa della lotta per le investiture. I mosaici che ornano tutta quest’area furono tutti rifatti nel 1954, ma degni di nota, poiché originali, sono quelli della navata destra nonché quello bellissimo della controfacciata, raffigurante San Matteo benedicente col Vangelo risalente agli anni di passaggio dal XII al XIII secolo.
Al livello inferiore, in corrispondenza dell'altare centrale, vi è la Cripta, primo nucleo nella costruzione del duomo. Già nel Marzo 1081, alla presenza di Roberto Guiscardo e dell'Arcivescovo Alfano I, erano deposte le reliquie di san Matteo, dei santi martiri e di altri santi. La cripta si estende sotto il transetto ed il coro ed è costituita da un ambiente a sala con nove file di tre campate, con volta a crociera poggiate su colonne; queste ultime si snodano nelle diverse direzioni e formano, con mirabile effetto architettonico, un intreccio di curve che degradano sfumando. L'impianto a sala riprende una tipologia utilizzata dai monaci cluniacensi, ma la costruzione complessiva della Cattedrale è frutto del nuovo clima spirituale e religioso dell’XI secolo. Nel XVII secolo si determinarono per la Basilica inferiore grandi trasformazioni anche dovute allo stato di degrado in cui versava. I lavori furono commissionati a Domenico Fontana, responsabile del progetto architettonico e decorativo.
Sempre dalla sagrestia si ha accesso al complesso dell’ex seminario che attualmente ospita il Museo diocesano: in esso sono conservati numerosi reperti tra cui sculture, pale d’altare e frammenti decorativi provenienti dalla Cattedrale, inoltre nel museo sono esposti gli Avori Salernitani: tessere decorate su avorio e raffiguranti scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, che una volta decoravano l’antico altare della Cattedrale.
La stessa scelta iconografica della serie di tavolette d'avorio contiene un forte richiamo alla tradizione romana. Questo ciclo di sessantasette tavole e tavolette d'avorio scolpito, raffiguranti scene dell’Antico e del Nuovo Testamento – provenienti dalla Cattedrale ed ora esposte per la maggior parte nel Museo Diocesano di Salerno – è la più vasta, completa e meglio conservata serie di opere eburnee del Medioevo cristiano al mondo. Il complesso proviene dall'area artistico-culturale di Amalfi e Salerno che dal finire del secolo XI al XIII produsse opere rilevanti, ed esso rappresenta uno sforzo di inventiva, creatività e composizione notevole che non si ritrova nemmeno nei contemporanei paliotti o retabli per altare.

Questi avori sono stati oggetto di un dibattito critico molto complesso, nel quale si sono registrate posizioni assai differenti sui committenti, sulla cronologia, sull’identificazione degli autori e sulla possibile collocazione originaria – dossale, cattedra episcopale, reliquiario, porta d'avorio. Le formelle furono realizzate verosimilmente per arredare l’altare maggiore della cattedrale, con la raffigurazione degli Episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento – tema iconografico della decorazione delle antiche basiliche romane a partire da S. Pietro – circondati da cornici a decori vegetali, dalle figure degli apostoli e da testine di oranti, anch’essi realizzati in avorio. Un ciclo complesso, quindi, ma smembrato già alla fine del XII secolo per sottrarlo all’incursione depredatrice dell’imperatore Enrico VI.

I pezzi più affascinanti e artisticamente pregevoli sono quelli raffiguranti le storie legate all’Antico e il Nuovo Testamento. Nelle prime, le figure e le ambientazioni si stagliano entro tavolette di forma rettangolare che hanno un andamento orizzontale e in questo modo, gli autori riuscirono a rappresentare nella stessa formella anche due episodi contemporaneamente. Nelle storie neotestamentarie, invece, le raffigurazioni si dipanano sulle superfici in senso verticale: ciò fa intuire che, nella posizione originaria del ciclo, esso avesse una funzione diversa, quasi centrale nella composizione. Altro fattore rilevante è lo stile diverso, frutto del felicissimo amalgama tra gli stili locali di tendenza normanna, araba e bizantina, quest'ultima orientata al recupero dell'arte classica, segno tangibile che l'opera sia attribuibile ad almeno tre maestri e con una sovrabbondanza decorativa e di sfondi che fa pensare ad una sorta di horror vacui. Vi sono inoltre richiami precisi a Salerno e al mondo orientale, con la città e i templi simili più a minareti e moschee che a chiese cristiane. Sia i personaggi principali, sia quelli secondari sono rappresentati mentre compiono un’azione, in cui nulla è lasciato al caso; proprio come un attore in scena, ogni figura ha un ruolo specifico e fondamentale ai fini della rappresentazione dell’episodio narrato, e raramente funge da sfondo scenografico. Sorprendenti sono gli elementi decorativi che impreziosiscono le architetture, le ambientazioni e le vesti, raffigurati in modo preciso ed essenziale. L’analisi stilistico-formale delle figure e delle architetture ha rivelato come ad intagliare gli avori furono ben tre personalità artistiche differenti, ma operanti probabilmente nella stessa bottega salernitana. Artisti che adoperarono una svolta sul piano culturale, allontanandosi dai modi della scuola amalfitana ancora imperante alla fine dell’XI secolo, per accostarsi ai nuovi intendimenti romanici provenienti dall’Italia settentrionale e dalla Francia meridionale e della Spagna. Dal confronto con la cassetta eburnea di Farfa si deduce che dovettero esistere una o più botteghe – attive nella Costa d'Amalfi – in cui era lavorato l'avorio: questo ciclo di tavolette eburnee mostra anche un evidente collegamento della manifattura in questione all'insieme delle arti suntuarie, prima fra tutte l'oreficeria che richiedeva l'uso degli stessi strumenti, quali il cesello, applicati ad opere fragili e delicate – interessante presenza questa di orefici di origine greca o siciliana nell'area fra Amalfi e Salerno. La raffinatezza dell'esecuzione, la libertà di espressione e di inventiva e la complessità del risultato, caratterizza questa bottega, di elevatissimo livello nell'ambito del panorama artistico campano. Come in genere tutto il panorama artistico campano anche questi avori attestano i possibili contatti con l'arte islamica che certamente in qualche modo giungeva tramite i contatti commerciali tra le due sponde del Mediterraneo. L'apporto dell'arte islamica si coglie nella grande perizia e nell’estro profusi per la resa degli apparati decorativi, per il ricorso a distese di elementi floreali, fitomorfi se non addirittura astratti, spesso usati come semplice riempitivo di superfici che altrimenti sarebbero risultate vuote. 

La prima caratteristica che differenzia nettamente le tavolette eburnee dalla cassetta di Farfa è il grande rilievo dato all'impianto architettonico che inquadra le scene, le suddivide e ne costituisce l'elaborato fondale; sebbene in nessun caso l'artista sia riuscito a far realmente muovere le figure in uno spazio dotato di profondità ma questo non rientrava nelle sue intenzioni, egli si è accontentato piuttosto di offrire ai personaggi un fondale estremamente ricco e preziosamente cesellato, che manca del tutto in altre opere coeve. Il ricorso sistematico alle quinte architettoniche nonché alla spartizione dei riquadri istoriati mediante altri elementi architettonici come colonnine e paraste, lega saldamente gli artefici delle tavolette all'arte bizantina ed al mondo tardo antico e carolingio da cui proviene il maggior numero di elaborazioni del tema iconografico di Cristo nel Limbo, intento a trarne fuori i Progenitori. Ma il richiamo all'arte tardo antica risiede soprattutto nell'uso dell'elemento architettonico come quinta ed inquadramento; in questo senso il richiamo più immediato è con le numerose fronti di sarcofago, a porte di città, ad immagini di edifici, mura merlate e porte, così frequenti nei cicli pittorici e musivi delle basiliche e chiese tardo antiche e altomedievali, spesso raffigurate a simboleggiare la Gerusalemme celeste quale ambientazione delle teofanie che decoravano absidi e grandi arche sepolcrali.
Massimo Capuozzo

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