L’opulenza
e la maestosità della Cattedrale è il riflesso della ricchezza e della potenza
raggiunta dalla città marinara di Amalfi: nell’alto Medioevo, infatti, era una
Città-Stato, sede del centro commerciale più importante del Mediterraneo
Occidentale e doveva questa sua prosperità economica all’attività mercantile – assai
precoce per l’Occidente europeo – che svolgeva con ruolo di mediazione fra le
comunità produttrici dell’Oriente arabo-bizantino e le società consumatrici dell’Occidente
romano-germanico.
Quello della Cattedrale è un vero
e proprio complesso monumentale, infatti è
composto da più corpi autonomi, sebbene intimamente connessi tra loro: la scalea con l’atrio d’ingresso, le due basiliche
accostate e comunicanti, la cripta
inferiore, il campanile ed il Chiostro
del paradiso.
Questo complesso sorse in
prossimità del mare, nei pressi del Palazzo Ducale e del centro commerciale: la
primitiva Cattedrale, costruita nel IX secolo, fu ampliata nel 990, quando il
doge Mansone I ottenne da papa Giovanni XV l’innalzamento della chiesa
episcopale a dignità metropolitana. Nel 1203 la Cattedrale fu ricostruita e nel
1208 visse il momento più prestigioso della sua storia, oltre ad essere
pressoché completata nella sua struttura architettonica: per iniziativa
dell’arcivescovo Matteo Capuano e di suo fratello il cardinale Pietro Capuano,
furono, infatti, realizzati l'atrio e la Cripta, inoltre, Pietro Capuano, dotto
e nobile amalfitano, legato pontificio in Siria che Innocenzo III aveva
nominato cardinale, portò ad Amalfi il corpo dell'apostolo, cui era già
dedicata la chiesa cittadina. Con l'acquisizione delle reliquie e del crisma
dell'apostolicità, la Chiesa amalfitana mostrò il nuovo prestigio. Rimaneggiata
negli anni 1526, 1566 e 1691, fu poi ricostruita nel 1701-1731, quando
l'arcivescovo Bologna la fece rimodernare
nonostante l'opposizione degli amalfitani.
Alla Cattedrale si accede
attraverso un atrio porticato, sorretto da 26 colonne di spoglio chiuse nei
pilastri, che formano delle trifore con archeggiature acute, e preceduto da una
monumentale scalinata di 57 gradini.
L'atrio e tutta la facciata furono
completamente rifatti dall’architetto
milanese, ma napoletano di adozione, Enrico Alvino in collaborazione con Luigi Dalla
Corte e Guglielmo Raimondi e con le decorazioni pittoriche di Domenico Morelli,
tra il 1889 e il 1891, in uno
stile che riecheggia l'architettura normanna in Campania.
La riedificazione della facciata
si rese necessaria dopo il crollo di quella originale: il 24 dicembre 1861, infatti, sotto l'azione di un
forte vento, un tratto del coronamento, in cattivo stato di conservazione,
cadde sfondando una o due volte del sottostante atrio. I danni furono lievi e
non statici, ma siccome i lavori portarono alla luce l’antica facciata romanica
con archetti, colonnine e mosaici – di cui un frammento del XII secolo è
conservato nel Chiostro – fu stabilito di realizzare una facciata simile a
quella originaria. Il parere favorevole al restauro stilistico della Giunta delle Belle Arti fece sì che le
successive stratificazioni sulla facciata fossero cancellate, ricostruendo la
facciata secondo lo stile normanno campano: l’architetto, volendo riprodurre
l'originario stile della chiesa, dovette demolire portico, capitelli, cornici,
intonaci e paraste del Settecento – opera di Arcangelo Guglielmelli –
ma in questo modo andarono distrutte le stratificazioni che si erano
sovrapposte nel corso dei secoli.
Il progetto, caratterizzato da un
certo gusto scenografico e pittoresco, è
definito dai puristi un grosso falso
artistico, sebbene esteticamente, ad un fuggevole sguardo, se ne rimanga
estasiati. Questo tipo di intervento, tuttavia, non è un
fenomeno isolato, infatti, esso si inquadra nel vasto ambito di quelle
operazioni chiamate di ripristino in
stile, che ebbero notevole importanza nel dibattito per l’architettura
rappresentativa per l’Unità d’Italia: le fabbriche medievali furono, infatti,
considerate tra le più adatte come nuovo stile
postunitario. Per questo motivo, sia in nuovi progetti sia in interventi
sul preesistente, si richiamava soprattutto il linguaggio romanico, preferito
di gran lunga alle eventuali sovrapposizioni barocche.
Il
progetto di Alvino si presenta con una facciata normanno-campana, preceduta da un corridoio che collega il campanile,
il chiostro del Paradiso e la chiesa-cappella del Crocifisso. Il progetto fu
attuato per riprodurre l’originario carattere medievale della chiesa; per
giustificare questo rinnovamento della facciata, si asserì, infatti, che la
chiesa era quasi del tutto crollata. La facciata ripropone così l’antico
linguaggio della Cattedrale di matrice arabo-normanna, con un portico ad archi
acuti intrecciati e motivi decorativi a losanghe: esternamente una tessitura di archi moreschi scaricano
su colonnine marmoree, non tutte originali, mentre le pareti interne sono
costituite da grossi blocchi di tufo bicromo.
I lavori terminarono nel 1891 e
restituirono una facciata di tipo medievale, abbellita dai mosaici ornamentali d’impronta bizantina, araba e normanna, riprodotti dalla ditta
Salviati di Venezia da tele e cartoni di Domenico Morelli.
I mosaici nel timpano raffigurano il Cristo
dell’Apocalisse in trono, affiancato
dai simboli dei Quattro Evangelisti e dalle
podestà terrene; sotto il timpano sono raffigurati i dodici Apostoli.
Sotto il portico, si conserva il portale della facciata originaria con gli stipiti scolpiti
con un tralcio abitato, risalente al XIII secolo. L'architrave è un rifacimento
moderno il cui originale è conservato nel museo.
Nell’interno del portale si trova la
pregevole porta “bronzea” di notevole valore a sbalzi d’argento: una porta
bizantina, fatta a Bisanzio secondo il modello della chiesa di S. Sofia a
Costantinopoli, trasportata via mare e poi montata in loco.
Le porte della Cattedrale di
Amalfi fanno parte di un gruppo di quattro esemplari, importati da Costantinopoli
nell’XI secolo, ed il ciclo inizia proprio da Amalfi: Pantaleone Comite, tra il
1066 e il 1076 donò anche le porte bronzee di Montecassino, su richiesta
dell’abate Desiderio nel 1066, quelle della basilica di S. Paolo fuori le mura
a Roma nel 1070 ed infine quelle del Santuario di Monte Sant’Angelo nel 1078.
Tutt’e quattro le porte sono
caratterizzate da figure raffinatissime e da uno splendore che doveva rievocare
per i visitatori un passaggio attraverso le leggendarie porte d’oro e d’argento
di Costantinopoli. Queste porte sono accomunate dal dato stilistico, dalla
composizione, dal disegno di cornici, di borchie e di maniglie e soprattutto
dalla tecnica dell'agemina in argento e smalto: le immagini sono incise a
bulino e nei solchi sono battuti fili d'argento, rame e smalto.
Le porte bizantine si distinguono
distintamente dalle altre porte romaniche, che sono invece caratterizzate da un
rilievo estremamente plastico e da una vivacità ricca di notazioni
espressionistiche: le porte bizantine presentano tutte un rivestimento
“bronzeo”, fissato per mezzo di chiodi a capocchia semisferica ad una robusta
struttura lignea, mentre le verticali ed i correnti racchiudono pannelli
decorati con figure ageminate. Si tratta di una manifattura di gran pregio ed
estremamente costosa: queste porte sono, infatti, impropriamente dette di
bronzo, in quanto analisi
accurate hanno evidenziato che si tratta di oricalco, una lega ternaria, composta di rame al 62%, di
zinco al 17% – che insieme costituiscono
l’ottone – di piombo al 19% e con tracce rilevanti di stagno. L’effetto
originario doveva essere impressionante, assai simile a quello della pala d'oro
di San Marco a Venezia: oggi purtroppo vediamo battenti scoloriti e tinti di
verde dall’azione di ossidi che li hanno aggrediti nel corso dei secoli, ma nell’XI
secolo esse dovevano brillare come fossero d’oro. La decorazione è realizzata
con il sistema della fusione a stampo a cera persa, con formelle applicate ad
un’anima di legno.
La porta del duomo di Amalfi, fusa a Costantinopoli nel 1066 da Simone di Antiochia apre
questo ciclo artistico. La croce che si eleva sulla porta, fusa a parte ed
applicata con borchie, allude al sacrificio di Cristo sulla croce, attraverso
il quale l'uomo ha riconquistato la salvezza eterna.
Le porte di Amalfi, come quelle
più tarde di Atrani e di Salerno – molto palesemente ad esse ispirate –
presentano come elemento iconografico preponderante la croce fogliata, chiara
simbologia della vita eterna riconquistata per l'uomo dal sacrificio di Cristo
e molto diffusa soprattutto in ambito bizantino: questo elemento decora venti
delle ventiquattro formelle riquadrate dall'intelaiatura. La parte figurata,
predominante nella porta della basilica romana di San Paolo fuori le mura, si
riduce qui ai due pannelli centrali del terzo e del quarto registro con le finissime figure di gusto bizantino di Cristo Redentore, della Madonna, affiancati da simboli
alfabetici greci, nella parte sottostante gli Apostoli fratelli di Sant’Andrea e di San Pietro. La presenza di Sant’Andrea
è chiaramente legata al culto diffuso già da tempo nel territorio amalfitano,
mentre la presenza di San Pietro si spiega con il fatto che la porta fu
realizzata pochi anni dopo lo scoppio del violento Scisma d’Oriente ed in quel
frangente Amalfi e la sua Chiesa svolsero un’importante opera di mediazione tra
i cattolici e gli ortodossi, salvando numerose vite umane.
Le
quattro immagini, ben delineate mediante il panneggio delle lunghe vesti, stilisticamente si esprimono in figure
allungate, in gesti bloccati ed in un’accentuata stilizzazione, elementi questi
tipici della prima età dei Comneni. Le figure fanno parte della Deesis, un topos iconografico che
rappresenta l'intercessione da parte della Vergine e dei santi titolari della
chiesa presso Cristo, perché permetta al donatore di entrare nel regno dei
cieli ed all'uomo di entrare nel tempio e quindi nel Regno dei Cieli.
La porta mostra varie teste di
leone recanti un anello in bocca: una di esse, distinta dalle altre come
fattura artistica, risulta essere appartenuta ad un attracco portuale bizantino
del IV secolo. Le formelle della porta di Amalfi presentano a ripetizione la
croce trilobata orientale posta sul Calvario e, su una di queste croci è
trascritto a chiare lettere l’albero genealogico di Pantaleone Comite. Pantaleone
apparteneva ad una delle famiglie che doveva la propria ascesa sociale al
commercio e che per ricchezza, potenza e prestigio era la più illustre ed
influente dello Stato Amalfitano tanto da meritare l’epiteto di Comite,
attestante il rango comitale. Il grande mercante, capo della colonia
commerciale amalfitana a Costantinopoli, dove per lo più risiedeva, vantava
legami con la corte e con lo stesso imperatore Costantino ed era un capitalista
largamente in anticipo sui tempi: per motivi di affari, infatti, non si limitava
alla sola funzione di intermediazione, ma aveva a Bisanzio, nella zona
riservata agli amalfitani, una solida base produttiva i cui interessi si
estendevano dall’Africa alla Sicilia, dalla costa sirio-palestinese fino a
Bisanzio. Pur vivendo quasi sempre in terra straniera, Pantaleone non smise mai
di interessarsi alla sorte della sua città di origine legando il suo nome ad
Amalfi con il più importante lavoro artistico che essa possiede, le porte della
Cattedrale, probabilmente uscite dai suoi stessi opifici a Costantinopoli.
Sempre
all’interno del complesso monumentale del Cattedrale[1],
spicca il cosiddetto Chiostro del
Paradiso, realizzato fra il 1266 e il 1268, un vero e proprio capolavoro
dell’architettura romanica, i cui archi, fittamente incrociati, rivelano ancora
una volta chiare tendenze musulmane.
Il Chiostro fu edificato
dall'arcivescovo Filippo Augustariccio come luogo di sepoltura per i cittadini
amalfitani illustri e, dopo essere caduto pressoché in abbandono nel XVII
secolo, fu restaurato nel 1908.
Ad
esso, vero e proprio angolo d'oriente nel sud Italia, si accede dal lato
sinistro del portico. Il chiostro consiste in un quadriportico con volte a
crociera, con archi a sesto acuto intrecciati, tipici dell'arte arabo-normanna,
e sorretti da finissime colonnine binate d’influsso moresco: da qui il nome di Paradiso. Il motivo degli archi
intrecciati è più complesso rispetto a quello dell'abbazia della Trinità di
Cava dei Tirreni, simile al chiostro amalfitano, ma stilisticamente anteriore,
mentre la decorazione dell'intradosso degli archi a piani degradanti che sporge
dall'abaco dei capitelli lo mette in rapporto con il chiostro di Monreale.
Ai lati del colonnato vi sono sei
cappelle affrescate con resti pitture databili tra la fine del XIII e gli inizi
del XIV secolo raffiguranti una Crocifissione –
attribuita a Roberto d'Oderisio – un Cristo
Pantocratore e Storie dei Santi Cosma e Damiano, e cinque sarcofagi di epoca
romana riutilizzati nel medioevo.
Il campanile risale alla seconda metà del XII
secolo, iniziato nel 1180 ed ultimato nel 1276 ancora su commissione
dell'arcivescovo Augustariccio, nel XVIII secolo, fu restaurato e
successivamente nel 1934 ripristinato, liberandolo della veste barocca che lo
ricopriva.
Nella parte più antica si trovano delle colonne
angolari – come ad Aversa, a Salerno ed a Capua – i piani superiori sono aperti
da due ordini di finestre, bifore in basso, decorate da tufo giallo, trifore in alto, decorate
da tufo grigio scuro.
Il coronamento risale invece al 1276: la cella campanaria è costituita da un
nucleo centrale cilindrico contornato da quattro torrette angolari, coperte
da un tetto con tegole gialle e nere, concluse da lanterne e presentano ognuna
tre monofore, motivo
che sembra di derivazione calabro-bizantina ed è stato utilizzato anche in
alcuni campanili campani – come quelli di Salerno e di Caserta – qui la
copertura è però arabeggiante ad embrici maiolicati gialli e verdi. Gli
archi intrecciati sorretti da colonne, i motivi stellari e floreali, le fasce
geometriche policrome poste al di sotto del tetto del tamburo centrale,
realizzati con maioliche gialle e verdi, offrono una preziosa testimonianza di
forme decorative romaniche.
Tra quest'ultimo e la nuova facciata si nota il
frontone della primitiva cattedrale di Amalfi, detta cappella del Crocifisso,
risalente al X secolo.
[1] L'interno del Duomo si presenta in stile
tardo-barocco. Restaurato tra il 1690 ed il 1724 da Arcangelo Guglielmelli il
più celebre architetto dell'epoca, l'interno è a croce latina con tre navate
divise da 20 pilastri racchiudenti colonne.
Il
soffitto, a cassettoni in oro fu eseguito agli inizi del XVIII secolo
dall'intagliatore napoletano Francesco Gori, presenta quattro grandi tele di
Andrea d'Aste, allievo del Solimena, rappresentanti la Flagellazione di Sant’Andrea, il Miracolo della Manna ed il Santo
innalzato sulla croce.
Dello
stesso artista è la tela raffigurante la Crocifissione
di S. Andrea posta sul settecentesco altare maggiore, ai cui lati vi sono
due amboni della fine del XII secolo, decorati di mosaici.
Pregevole
è l'antica vasca battesimale di porfido rosso egiziano proveniente da Paestum
situata nella prima cappella a sinistra.
In
fondo alla navata destra si trova il quattrocentesco sepolcro del vescovo Andrea d'Acunto.
nella
prima cappella a destra è la cinquecentesca ancona marmorea raffigurante tre Santi
all'ingresso
del presbiterio vi sono due candelabri con decorazioni a mosaico.
Dalla
navata sinistra del Duomo, tra la quarta e la quinta cappella, una scala
conduce alla cripta che costruita nel 1253 venne rinnovata nel 1719.
Sulle pareti della scala vi
è la quattrocentesca tavola raffigurante la Madonna
col Bambino ed i SS. Giovanni e Andrea e la cinquecentesca Pietà.
La
cripta fu fatta costruire dal cardinale Pietro Capuano per ospitarvi le spoglie
di Sant’Andrea Apostolo da lui trasportate da Costantinopoli in occasione della
IV Crociata, evidenzia un
ambiente ricavato nell’area del cortile dell’ex palazzo ducale, diviso da una
fila di colonne su cui poggiano volte a crociera, che nel XIV secolo furono
affrescate con il motivo del “coelum stellatum” (cielo azzurro con stelle d’oro).
La
cripta nei primi anni del XVII secolo, per interessamento di Filippo III di
Spagna e del viceré di Napoli, subì una totale trasformazione, in base alla
quale fu realizzato un ciclo di affreschi sulla Passione di Cristo. Un affresco
in particolare, opera di Aniello Falcone, rievoca l’arrivo di S. Andrea
Apostolo (8 maggio 1208) e costituisce un documento storico a riguardo della
cattedrale di Amalfi prima delle trasformazioni barocche.
Nella cripta fu realizzato
l’altare sopra la tomba dell’Apostolo, opera di Domenico Fontana, presenta la
statua bronzea di S. Andrea, opera di Michelangelo Naccherino, allievo di
Michelangelo, e sulla trabeazione che conclude l'altare vi sono le statue
marmoree di S. Stefano e S. Lorenzo, opere di Pietro Bernini. Marmi policromi
fiorentini coprono i pilastri ed alcune pareti; mentre l’emblema imperiale
della casa spagnola campeggia sui vetri delle finestre. Sotto l'altare sono
custodite le reliquie del Santo patrono, racchiuse tra meravigliose lastre
istoriate, emanano una sostanza straordinaria: la Manna.
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