lunedì 8 marzo 2010

Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino

Nello scenario di Napoli e dei suoi dintorni, De Marchi (1851-1901) colloca la storia di un delitto, un best-seller di fine Ottocento ed un classico della letteratura d’appendice.
Emilio De Marchi nacque a Milano e concluse gli studi nella sua città natale, laureandosi in lettere nel 1874 e dedicandosi all'insegnamento presso l'Accademia Scientifica e Letteraria. Accanto alla docenza presso l'Accademia, De Marchi si impegnò in numerose iniziative benefiche, volte alla diffusione dell'educazione presso i ceti popolari.
Va ricordata anche la pubblicazione di alcune antologie per la gioventù ad uso didattico e la cura della collana "La buona parola" per l'editore Vallardi.
La attività di narratore di Emilio De Marchi, un manzoniano in odor di Scapigliatura, ma ben ancorato ai dettami del romanticismo milanese, lo vide misurarsi con movimenti letterari di notevole portata come la Scapigliatura stessa, che dominava l'ambiente letterario milanese della seconda metà dell'Ottocento, distaccandosene però quasi subito dal loro stile, e con il Verismo, per trovare una via personale alla scrittura, di impostazione chiaramente naturalista.
Il suo romanzo più importante è ‘Demetrio Pianelli’ del 1890 e sua prosecuzione tematica e narrativa è ‘Arabella’ del 1893.
Da ‘Redivivo’, un suo romanzo pubblicato su rivista, e pubblicato postumo nel 1909, Pirandello trasse la vicenda narrata in ‘Il fu Mattia Pascal’. Oltre a raccolte di racconti e poesie, De Marchi fu autore anche di testi teatrali e opere di critica letteraria.
Dopo un’esistenza dedicata all’insegnamento e priva di fatti particolarmente significativi, Emilio De Marchi morì a Milano nel 1901.
"Il cappello del prete", pubblicato nel 1887 per la prima volta a puntate nelle appendici de «L’Italia del Popolo», quotidiano milanese con spazio per romanzi d’appendice, raccolto in volume e curato dall’editore Treves nel 1888, lo stesso anno di ”Mastro don Gesualdo” di Verga, buon amico di De Marchi, è stato il romanzo più famoso di Emilio De Marchi: esso, ampiamente pubblicizzato come reazione italiana al romanzo naturalista francese, conobbe infatti un successo straordinario per l’epoca, vendendo migliaia di copie nei pochi mesi dall’uscita in libreria.
Fatto eccezionale per un’opera italiana, già prima della fine dell’Ottocento, il romanzo era stato infatti tradotto negli Stati Uniti, in Ungheria, Germania, Francia, Inghilterra e Danimarca, mentre nel 1913 in Italia si era già arrivati alla settima edizione. Una diffusione fuori del comune in un paese con un tasso di analfabetismo ancora altissimo: un successo che testimonia l’abilità di De Marchi di maneggiare un intricato plot narrativo, mantenendosi su un livello linguistico semplice e piano, ma nello stesso tempo accattivante.
Strana e fortunata storia editoriale, perché, in pieno dominio zoliano, De Marchi scrive che ‘Il cappello del prete’ è "romanzo d’esperimento" e non ‘romanzo sperimentale’, espressioni con cui l’autore esprime non solo il suo desiderio di distanziarsi dal contemporaneo Émile Zola, ma, come si legge nella Prefazione all’edizione del 1888, rivendica l’autonomia del romanzo d’appendice italiano e la qualità dei lettori, che forse non si nutrono solo di "incongruenze e di sozzure", ma sanno anche apprezzare la buona scrittura: "l’arte è cosa divina", conclude l’autore, "ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori". La fortuna editoriale del romanzo presso i contemporanei fu grande: centomila i lettori che De Marchi segnala e che gli diede modo di gettare frecciate verso una letteratura troppo elitaria, che non scrive storie che interessino il pubblico, tanto che Cesare Cantù espresse una favorevole critica de ”Il cappello del prete” in modo telegrafico e netto: «Eccellente il fondo. Interessante l’intreccio. Schietta la forma. Scacco ai romanzatori vecchi». Cominciava in quegli anni una querelle che la letteratura italiana ha trascinato, variato, reso questione di mercato per tutto il Novecento, e che ancor oggi è motivo di discussione. Proprio a tal uopo si ritiene necessario riportare integralmente la suddetta prefazione di De Marchi all’edizione del 1888.
«Questo non è un romanzo sperimentale, tutt'altro, ma un romanzo d'esperimento, e come tale vuol essere preso.
Due ragioni mossero l'autore a scriverlo.
La prima, per provare se sia proprio necessario andare in Francia a prendere il romanzo detto d'appendice, con quel beneficio del senso morale e del senso comune che ognuno sa; o se invece, con un poco di buona volontà, non si possa provvedere da noi largamente e con più giudizio ai semplici desiderî del gran pubblico.
La seconda ragione, fu per esperimentare quanto di vitale e di onesto e di logico esiste in questo gran pubblico così spesso calunniato e proclamato come una bestia vorace che si pasce solo di incongruenze, di sozzure, di carni ignude, e alla quale i giornali a centomila copie credono necessario di servire di truogolo.
L'esperimento ha dimostrato già a quest'ora le due cose, cioè che anche da noi si saprebbe fare come gli altri, e col tempo forse molto meglio per noi; e poi che il signor pubblico è meno volgo di quel che l'interesse e l'ignoranza nostra s'ingegnano di fare.
Pubblicato in due giornali d'indole diversa, in due città poste quasi agli estremi d'Italia ‑ nell'Italia di Milano e nel Corriere di Napoli ‑ questo Cappello del prete, senza nessuna delle solite basse transazioni, ma col semplice ajuto dei comuni artifici d'invenzione e di richiamo, ha ottenuto più di quanto l'autore pensasse di ottenere. I signori centomila hanno letto di buona voglia e, da quel che si dice, si sono anche commossi e divertiti.
Dal canto suo l'autore, entrato in comunicazione di spirito col gran pubblico, si è sentito più di una volta attratto dalla forza potente che emana dalla moltitudine; e più d'una volta si è chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori italiani di non servirsi pìù che non facciano di questa forza naturale per rinvigorire la tisica costituzione dell'e nostra.
Si è chiesto ancora se non sia cosa utile e patriottica giovarsi di questa forza viva che trascina i centomila al leggere, per suscitare in mezzo ai' palpiti della curiosità qualche vivace idea di bellezza che ajuti a sollevare gli animi.
L'arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori.»
Strana storia della fortuna critica de ‘Il cappello del prete’ perché la critica italiana si è occupata pochissimo di questo libro, fatto salvo un tardivo ricordo di Contini, e perché lo stesso De Marchi non occupa lo spazio dovuto all’importanza della sua opera, specie considerando che Redivivo un suo romanzo postumo, fu il modello diretto e dichiarato di ‘Il fu Mattia Pascal’ di Luigi Pirandello.
Ma cos’è ”Il cappello del prete”, romanzo d’esperimento e non sperimentale oltre che all’epoca vendutissimo?
Il cappello del prete” è un esemplare romanzo-sintesi della sensibilità letteraria generale che agita la fine dell’Ottocento italiano ed europeo: in esso si avvertono gli echi delle maggiori esperienze letterarie contemporanee, da Dostoevskji a Poe, da Dickens a Maupassant, senza tralasciare il patrimonio italiano, da Manzoni al Verismo, che soprattutto con Matilde Serao aveva prestato grande attenzione a Napoli e al suo mondo caotico e carico di contraddizioni. Lo scavo psicologico di Dostoevskij si unisce al Naturalismo di Zola ed al Verismo di Verga e di Capuana, mentre si vedono già emergere fra le righe le premesse di un Pirandello, per il quale occorre ricordare la già menzionata filiazione de ‘Il fu Mattia Pascal’ dal romanzo ‘Redivivo’, e di uno Svevo, che si servirà abbondantemente del ‘flusso di coscienza’ già presente in quest’opera di De Marchi.
Per questi motivi, "Il cappello del prete" resta ancora oggi un esempio di letteratura d’intrattenimento di alto livello, in cui De Marchi alterna con maestria il tono leggero del bozzetto ottocentesco con il registro cupo del romanzo gotico. Il tutto è condotto a sprazzi, a tratti, a pennellate: un collage d’epoca non sottovalutabile, in quanto sintesi e premonizione. L’opera, inoltre, apprezza una coloritura ”gialla”, poiché tratta e narra di un omicidio, quello del prete Cirillo, e dell’omicida, il barone Carlo Coriolano di Santafusca, il tutto nel colorito contesto di Napoli e dei suoi dintorni vesuviani.
Il cappello del prete’ è un "giallo psicologico", fra i primi nella storia della letteratura italiana, sempre così tentennante e restia ad abbracciare i generi della modernità. Eppure De Marchi si dimostra già un abilissimo costruttore di trame, in cui confluiscono elementi vari e diversi, in un intreccio ricchissimo ed appassionante: nonostante la vivace ambientazione partenopea, De Marchi riesce a salvarsi da quel bozzettismo municipalista, che nell’Ottocento aveva tarpato le ali a tanta letteratura italiana.
La storia narrata nelle pagine del romanzo è strana e misteriosa, una rarissima ghost story italiana, per l’incontrollato evolversi degli avvenimenti, per il procedimento investigativo, per la diabolica vitalità del cappello del prete, per l’angoscia crescente del barone, elementi di un giallo dai toni noir: un’indagine positiva sui danni del Positivismo di moda nel 1887, anno in cui apparve questo romanzo di De Marchi. Raffaele Crovi, nel tracciare una storia del giallo in Italia, designa, sebbene impropriamente, questo romanzo di De Marchi come il capostipite del genere proprio. Grazie alle cura di Toni Iermano questo romanzo torna ad essere reperibile in un’edizione che risponde a quella filologicamente definitiva del 1891, ma che conserva in apertura la significativa prefazione dell’autore, sopra riportata, uscita nella prima edizione in volume del 1888.
Ma se "Il cappello del prete" è l’avo di tanto noir contemporaneo italiano, non bisogna però trascurarne le qualità strettamente letterarie che pervadono il romanzo, al di là dell’occhio strizzato al pubblico.
Ambientato a Napoli, ‘Il cappello del prete’ narra le vicende del nobile spiantato barone di Santafusca, che, pur appartenendo ad una delle più nobili famiglie napoletane, si trova in una misera condizione economica.
I due protagonisti, ‘U barone’ e ‘U prevete’, sono tutti e due esseri abbietti.
Carlo Coriolano di Santafusca, ultimo rappresentante di una gloriosa dinastia della aristocrazia napoletana, è schiacciato dai debiti di gioco e da un tenore di vita decisamente superiore alle sue reali possibilità: tutto ciò che gli rimane degli antichi fasti di famiglia, è un’antica villa, il cui decadente splendore è il segno tangibile di un’epoca ormai giunta alla sua fine, di un prestigio sociale perduto per sempre. In questo clima di cupa desolazione, nella mente del barone matura la decisione di compiere un delitto, l’unico gesto, estremo e disperato, in grado di salvarlo dalla rovina.
L’assassino è un nobile decaduto vizioso, dissoluto e dedito alle pratiche più immorali accennate nel capitolo intitolato "L’orgia" dove, tra l’altro, si legge: «Usilli aveva portato un cesto di bottiglie di Sciampagna, marca garantita, cinquanta lire alla bottiglia, che egli aveva comperato da un capo scudiero del duca di Sassonia, il quale era venuto a passare l'inverno (lo scudiero non il duca) in una villa di Mergellina. Il vino era Sciampagna genuino come si serve alle tavole dei principi, e molto probabilmente lo scudiero l'aveva rubato al suo padrone.
‑ Vino rubato è vino già pagato.
I turaccioli scapparono dalle bocche d'argento come palle di lucide mitragliatrici, e saltarono in mare. Un'onda bionda e spumosa come i capelli di Marinella riempì le coppe, i piatti, traboccò, spruzzò i seni delle ragazze che si tuffarono gridando in quel dolce lavacro fremente, mentre «u barone», più alticcio degli altri, diceva di celebrare la santa messa.
Per quanto ei fosse venuto con tutte le buone intenzioni di non chiacchierar troppo e di custodirsi sempre cogli occhi, non poteva impedire al Reno e allo Sciampagna di dire anche le loro ragioni. Lieto ed ebbro di una falsa ilarità, guardando attraverso il bicchiere si rallegrava di non vedervi nulla, nemmeno un puntino nero.
Dall'alto terrazzo della villa l'occhio poteva scorrere su tutta la superficie del mare di sotto, che fa da ampio piatto azzurro alla tazza azzurra del firmamento. Nel gran tremolío fosforescente delle ondine al sole palpitava l'immensa vita della natura, quella vita che «u barone» sentiva in sé, mentre stringeva Marinella nelle braccia.
Chi avrebbe pescato in quel gran mare di seicento leghe un cappelluccio di prete?
- Tu mi hai promesso cento volte di condurmi a Santafusca; ma sei un barone d'un barone disse Marinella.
- L'ho venduta.
- L'hai venduta al prete?- chiese Vico di Spiano.
- Quale prete?
- Quello dell'ipoteca.
- Si l'ho venduta all'arcivescovo.
- Oh! a proposito di prete ‑ disse la Marinella. ‑ Avete letto il Piccolo di ieri sera? L'hanno trovato il prete.
- Che prete? ‑ domandò sbadatamente «u barone».
- Quello del cappello. Non hai letto il Piccolo?
- Va, pazzerella, io ti comprerò una villa piú bella di questa ‑ disse il barone che intendeva a mezzo.
- Oh guarda lassú quell'uccellaccio! ‑ gridarono le donne, segnando colla mano un punto alto del cielo.
- È un'aquila.
- È un airone.
- È una gru.
Nel punto più chiaro del cielo volgevasi un coso nero, un uccellaccio di mare. «U barone», che mal si reggeva sulle gambe, ridendo sgangheratamente disse:
‑ È il cappello del prete.
E rimase un istante col dito verso il cielo in atto di sfida.
Non so dire come fosse venuto sulla tavola il Piccolo.
«U barone», che aveva già le vertigini, accese un grosso avana, spinse una poltrona sul terrazzo, vi si sdraiò, distendendo le gambe, e aprì il giornale, mentre mandava grossi buffi di fumo al Padre Eterno.
Nel bel mezzo della pagina a grossi caratteri vide stampato: IL CAPPELLO DEL PRETE
Lo vide bene e non mostrò meraviglia. Gli pareva un fatto così sciocco e comune, che non valeva quasi la pena di occuparsene. Lesse solo per curiosità le prime righe, e per un giramento del capo gli si mescolarono le parole in una broda nera e sanguigna.
Un resto di ragione, sopravvissuta al bagordo, cercò di richiamare l'attenzione dispersa sulle cose inchiodate dalle parole sulla carta: ma il cervello era pieno di fumo. Il vino, il pasticcio d'oca, la torta, l'aragosta che egli aveva mangiato, fecero ad un tratto come una macina da molino sulla bocca dello stomaco.
«U barone» si sentiva schiacciato in mezzo al petto, mentre la testa si squagliava, volava. Al disotto del gran fumo usciva tratto tratto la grossa scritta nera, segnata da altre righe nere in cui spiccava il nome di prete Cirillo, il cappello, il cappellaio, Santafusca, la scatola...
Non ne capiva il senso, ma un atomo di coscienza restava come infilzato su uno spillo a soffrire atrocemente di tutto quel diavolío di geroglifici. Soffiava grossi sbuffi di fumo, ansando, sudando d'un sudor freddo che gl'imperlava la fronte divenuta pallida e fredda.
Le ragazze intanto distese sulle sedie ripetevano in un coro sguaiato la bella canzone:
- Fior di farina.
- O barchettina.
- Candida e bella.
- O Marinella.
E non poter leggere!... quale maledizione non poter capire come c'entrasse quella scatola e il cappellaio.
Dopo un grande e faticoso sforzo di mente una volta riuscí a decifrare questa frase: «La cosa è ora nelle mani dei procuratore del re.»
Era un sogno d'ubbriaco? Girava gli occhi verso la sala da pranzo, e riconosceva il luogo, gli amici, le donne sdraiate e seminude, che fumavano le loro sigarette. Girava gli occhi dall'altra parte e vedeva il bagliore azzurro e tremolante del mare infinito, dov'era andato a precipitare il suo segreto. Provava a scuotere il foglio bianco e nero che teneva in mano. Lo sentiva stridere, cantare, e la scritta maiuscola pareva diventata ancor piú grande; cosí: IL CAPPELLO DEL PRETE
Certo era un sogno, un delirio, un incubo del vino e del pasticcio d'oca.
Non erano insomma che sensazioni.
Si voltò verso le ragazze e disse ridendo:
- Stupidissime barbe...
Sentiva nel modo stesso che egli faceva a ridere, di essere ubbriaco. Lo sentiva dal peso stesso delle sue scarpe che parevano diventate di piombo. Badasse per carità a custodirsi, a non tradirsi. Riprese la lettura.
Quello stupido foglio nominava anche lui insieme a don Antonio. Vedi il sogno? vedi la stravaganza! vedi il romanzo di Saverio Montépin!
Ecco che cosa diceva il Piccolo: «Tutti i nostri lettori si ricorderanno certamente di prete Cirillo, del quale abbiamo parlato in occasione di una straordinaria vincita al lotto fatta da un cappellaio di Napoli. Abbiamo detto, in quella circostanza, che il prete aveva lasciata la città e nessuno non seppe piú nulla dei fatti suoi. Già si cominciava a dubitare che gli fosse capitato una brutta avventura, ed ecco ora un fatto curioso che conferma quei brutti sospetti.
«‑ Che? ‑ voi direte, ‑ s'è trovato il suo cadavere?
«‑ No.
«‑ Si è scoperta una congiura
«‑ No.
«‑ S'è arrestato l'assassino?
«‑ Nemmeno. Si è semplicemente trovato il suo cappello.
«Un cappello? ma che faccenda è questa! Pare una favola delle Mille ed una notte e non è che la verità».
Il giornale, dopo aver raccontato il fatto, riportandolo dal Popolo Cattolico senza citarlo, concludeva:
«Abbiamo mandato uno dei nostri reporter a Santafusca a raccogliere dei particolari, e terremo informati i nostri lettori di tutta questa bizzarra e non semplice faccenda».
A poco a poco, «u barone» aveva potuto decifrare il senso di queste parole, e in mezzo alle fiamme e al fumo della sua ubbriachezza gli apparí chiaramente il pensiero del suo pericolo. Una forza piú potente della ragione e del caso si pigliava burla di lui. Sentí un fiotto di sangue montare precipitosamente alla testa seguito da un fiotto di bile che gli fece amara la bocca. Diventando ad un tratto frenetico, lacerò rabbiosamente il foglio, se lo cacciò in bocca, lo morse, urtò e ruppe i vetri della finestra e andò a rotolare, ruggendo come una bestia feroce, sotto la tavola. Ne nacque un tremendo scompiglio. La ragazze spaventate, strillando come aquile, fuggirono di qua e di là, mentre i servi accorsi al rumore e alle chiamate, aiutavano a portar via il barone ubbriaco, duro e stecchito come un epilettico.»
Ma oltre a ciò il nobile libertino è anche un darwiniano ed acceso materialista, ma anche forte del suo privilegiato ruolo sociale, per ritenersi al di sopra della giustizia e delle leggi dello Stato.
L’assassinato invece è don Cirillo, un prete ricchissimo grazie al lotto e all’usura, pure chiacchierato perché i numeri giusti per vincere al lotto li dà alla bella moglie del cappellaio. Sono in scena, insomma, due squallidi personaggi che rappresentano il peggio della nobiltà e della chiesa, gli istinti più meschini e sfrenati.
Alle prese con un grosso problema il barone di Santafusca ha appena ricevuto la richiesta di restituire entro una settimana una cartella di 15.000 lire al canonico, amministratore del Sacro Monte delle Orfanelle, altrimenti sarebbe stato denunciato.
Trovandosi già nell'albo degli insolvibili e non in grado di ripianare il debito, il barone decide di rivolgersi a padre Cirillo, detto u prevete, un prete dedito più al denaro che alla missione religiosa, per proporgli la vendita del suo palazzo, la Villa di Santafusca.
Il barone ed il prete si incontrano e raggiungono un accordo sulla vendita della Villa per una somma di 30.000 lire, tuttavia nessuno dei due ha palesato le sue vere intenzioni. Prete Cirillo vuole truffare il barone, perché sa che la Sacra Mensa Diocesana è disposta a pagare l'edificio forse fino a 120.000 lire per collocarvi un seminario ed un collegio teologico: se l'operazione riuscirà, prete Cirillo potrà "salvare per sé il diritto di una stanza nel collegio coll'obbligo di una messa quotidiana" e nel frattempo lascerà il suo squallido bugigattolo e si libererà dei popolani napoletani, che lo assillano con la richiesta di numeri da giocare al lotto.
L'idea che ronza in capo al barone è invece molto più oscura: far "sparire" Don Cirillo al suo arrivo alla Villa, in modo da poter mettere le mani sulle enormi ricchezze del prete.
Nei giorni seguenti ‘u prevete’ porta avanti il suo progetto: risolve le questioni aperte con ‘Cruschiello’, un suo compare pignoratore, ritira molte cartelle di rendita depositate al banco, si reca al Sacro Monte per appianare con 8000 lire il debito del barone e lascia i denari della pigione e le chiavi della casa al nipote Gennariello.
Tutto sembra andare per il meglio. Prima di recarsi all'appuntamento col barone presso la Villa, la mattina del giovedì 4 aprile prete Cirillo va a sentire una messa nella chiesa dell'Ospedaletto, ove sente una pesante tristezza invadere l'anima e venir meno le forze dell'egoismo.
Un po' turbato esce da una porta segreta in un vicoletto e qui incontra Filippino, il cappellaio, che, essendo in gravi difficoltà economiche, gli offre un cappello nuovo coi nastrini di seta per poche lire, prima che gli vengano pignorati tutti gli averi. Compiuta quella che ritiene una buona azione, col suo cappello nuovo in testa e con la Summa Theologica di san Tommaso sotto braccio (il librone è in realtà la custodia dei suoi denari), padre Cirillo prende il treno che lo conduce all'appuntamento col barone.
Nella sontuosa e fatiscente villa vesuviana, la mattina del 4 aprile 1875 si consuma l’efferato delitto: il barone, con la scusa di volergli vendere la sua villa, per donarla alla chiesa, lo conduce alla sua proprietà e lì lo uccide. Nel colpirlo alla testa, il barone senza accorgersene, gli fa volare via il cappello che, poi, ha un ruolo determinante nella scoperta dell’assassino: il cappello, infatti, trovato da Don Antonio, parroco di Santafusca, è inviato a Filippino, cappellaio del paese, che riconosce in quel cappello quello di prete Cirillo e, pensando che gli fosse accaduto qualcosa, lo consegna nelle mani della giustizia. Intanto il barone tormentato da sensi di colpa ed in preda ad allucinazioni è convocato dalla polizia, dove dapprima nega e poi, come guidato da un meccanismo interno, confessa di aver ucciso il prete nella sua villa.
Il barone è un nichilista: «Il Barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura.
A vent'anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del bizzarro cospiratore, che aveva anche una testa curiosa, tutta osso, con due occhiacci di falco, insomma un terribile fascinatore.
Per qualche anno il barone, detto «u barone», lesse dei libri e prese la scienza sul serio: ma non sarebbe stato lui, se avesse per amore della scienza rinunciato alle belle donne, al giuoco, al buon vino del Vesuvio, e ai cari amici. Il libertino prese la mano sul frate e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscí «u barone» unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran bestemmiatore in faccia all'eterno. Nulla, e nello stesso tempo amabile camerata, idolo delle donne, coraggioso come un negro, e a certe lune fantastico come un bramino.
Noi qui parliamo del barone della sua prima maniera quando non aveva piú di trent'anni. Napoli allora era tutta una festa garibaldina, bianca, rossa e verde. Le donne abbracciavano i bei soldati nella via e alzavano i bambini sulle braccia, perché Garibaldi li battezzasse nel nome santo d'Italia. Innanzi al ritratto dell'eroe si accendevano i lumi e si appendevano corone di fiori, come davanti a San Gennaro e alla Madonna Santissima.
Santafusca prese una parte breve e brillante nelle ultime scaramucce di quel tempo e fu anche ferito alla fronte. Gliene rimase una cicatrice sopra il ciglio..., ma i bei tempi erano passati.
Oggi l'uomo aveva quarantacinque anni, una gran barba nera, un volto abbruciato dal sole e dai liquori, una gran voglia di godere la vita e una miseria profonda.
Non godeva píú credito né presso gli amici, né presso i parenti, ch'egli aveva disgustati colla sua vita dissipata e colla sua bestiale empietà.
Al frate, al nichilista, al libertino si aggiungeva ora un pitocco disperato, costretto a quarantacinque anni a mendicare dieci lire alla sua guardarobiera, se voleva pranzare e bere un cognac.
Al club avevano pubblicato il suo nome nell'albo degli insolvibili, e poiché non pagava piú i debiti del giuoco, tutti lo fuggivano ora come la lebbra.
Sí, il barone Carlo Coriolano di Santafusca si sentí veramente la lebbra addosso quel dí che il canonico amministratore del Sacro Monte delle Orfanelle gli mandò a dire per l'ultima volta che, se entro la settimana non restituiva una cartella di quindicimila lire, il Consiglio d'Amministrazione avrebbe denunciata la cosa al Procuratore del Re.
I Santafusca per antico diritto avevano parte nell'Amministrazione del Sacro Monte, e nella sua qualità di patrono e di consigliere «u barone» aveva più volte pescato nelle strette del bisogno in fondo alla cassa dell'istituto, dando false o poco solide garanzie. Ora i groppi erano venuti al pettine.
Il canonico diceva chiaro:
‑ Se vostra eccellenza non rende a questa pia Casa la cartella di lire quindicimila, il Consiglio sarà nella dolorosa necessità di portare il fatto davanti ai Tribunali.
Davanti ai Tribunali «u barone» non sarebbe mai andato, questo era certo. Eravamo al lunedí santo e c'eran davanti quasi quindici giorni alla fatale scadenza. In quindici giorni un uomo d'ingegno, che non ha voglia ancora di farsi saltare le cervella, deve trovare la maniera di non andare in prigione.
Quale prigione avrebbe potuto tenerlo dentro? O che non ha piú boschi la Calabria ed è proprio finita la razza dei briganti?
Non era la prima volta che un Santafusca aveva battuta la campagna e un suo avolo, don Nicolò, era stato con Fra Diavolo sei mesi su per le rupi della Maiella ai tempi dei tempi: ma con tutto ciò il barone sentiva che un uomo in quindici giorni non ha tempo neppure di diventare un brigante.
Bisognava adunque trovare qualche altro espediente piú spiccio e meno melodrammatico. Fuggire? Non era il caso di pensarci, perché quando si è poveri si viaggia male, Chiedere un prestito? A chi, se non c'era piú un cane che gli volesse dare un quattrino? Giocare, tentar la sorte? Nessuno voleva mescolare con lui un mazzo di carte, e poi, non sempre chi giuoca vince.
Non rimaneva che la sua villa di Santafusca, lontana un cinque chilometri da Napoli, che poteva fruttare ancora qualche migliaio di lire, a patto però di vendere fino all'ultimo chiodo, perché un terzo era ipotecato già al marchese di Vico Spiano, un terzo era una rovina e l'altro terzo rappresentava un rifugio, un tetto, un asilo d'un povero uomo sulla terra.»
Così, con la sua assoluta mancanza di rispetto per i valori religiosi e con la sua vita dissipata non gode più di considerazione presso i parenti né presso gli amici. Conduce una vita solitaria e tremendamente misera. Egli non riconosce nessun valore all’infuori di quanto gli appartiene. Per questo motivo non esita a mettere in atto il suo piano, anche se ciò vuol dire sopprimere una vita umana. Tuttavia, non avendo fatto i conti con la propria coscienza, si trova sommerso dai rimorsi fino ad arrivare ad una crisi di sdoppiamento di personalità.
De Marchi, attraverso il flusso di coscienza illustra i vari stati d’animo del protagonista. Questi infatti passa da momenti di lucidità a momenti di pazzia: a volte si sente colpevole di ciò che ha fatto, ma subito dopo si comporta come se non fosse accaduto nulla.
Vi sono anche riferimenti ad altri autori e ad opere letterarie. In particolare per il senso di colpa provato dal protagonista richiamano i romanzi di Fogazzaro, ma, soprattutto, "Delitto e castigo" di Fedor Dostoevskij.
In questo romanzo prevalgono elementi riflessivi: quando il barone parla con se stesso dichiarando le sue opinioni, i suoi giudizi, le sue considerazioni personali, i suoi sentimenti ... ("che stupido che sono, pensò il barone ... ) ed elementi descrittivi che descrivono in modo molto preciso e particolareggiato i luoghi, dove si svolgono gli avvenimenti e anche i personaggi.
I motivi presenti in questo romanzo sono: la vendetta, la gelosia e la pazzia che portano il barone ad ammazzare il prete, la morte, il dolore, la sofferenza e la pazzia sentimenti che tormentano continuamente il barone dopo il delitto, la paura del barone di essere scoperto, il denaro.
La vicenda è ambientata nel 1875 ed il tempo della narrazione dura un mese e mezzo, da aprile a metà giugno.
Vi sono anche alcune digressioni come quando si interrompe il racconto per descrivere un personaggio: «Chi era prete Cirillo?
Non v'era donnicciuola o pescivendola o camorrista delle Sezioni di Pendino e di Mercato che non conoscesse «u prevete», che abitava nei quartieri più poveri, in una soffitta chiusa in mezzo ai comignoli delle case, ove non mai scende l'occhio benedetto del sole, e non regna sovrano che il vizio ed il puzzo del pesce, che il popolino frigge sugli usci e nella via.
A vederlo camminare per le strade, non si sarebbe data una buccia di arancia per quel pretuzzo tutto cappello, vestito di un abito polveroso, sotto un mantello verdognolo e ragnoso che faceva da staccio al vento, con un viso tinto proprio come il pesce fritto.
Le mani erano lunghe, magre, lucide, come i fusi d'ulivo, con unghie piú forti degli uncini che tirano nel porto i barili e ì sacchi del merluzzo.
Le gambette, asciutte come gli stinchi dei santi, andavano a finire in due scarpe sconquassate, grandi come i burchielli che fanno il servizio di cabotaggio tra Napoli e Messina.
Prete Cirillo era un uomo pieno di denari, che egli aveva radunati un poco coll'usura, prestando ai pizzicagnoli, ai pescivendoli, ai galantini della Sezione, e molto colle vincite al lotto. Si diceva che «u prevete» avesse i numeri e, coll'aiuto di certi calcoli cabalistici trovati da lui su un libro vecchio, vincesse al lotto ogni volta che gli piacesse di vincere. A qualcuno aveva anche regalati dei numeri buoni, ma il negromante era geloso e non si lasciava pigliare da tutti».
Alla fine del romanzo vi sono monologhi interiori talmente confusi, da assomigliare a flussi di coscienza: "mi meraviglio che si voglia ancora trovarmi in contraddizione. È chiaro, per Dio! Prego a non farmi dire cose che non penso. Che ne so io di questa faccenda?... Vi è presente anche la memoria involontaria: "la vista di tutti quei denari richiamò alla memoria del giocatore le ultime imprese...”
In "Il cappello del prete" il narratore è esterno si mantiene estraneo ai fatti e li espone in maniera oggettiva, limitandosi a registrarli, senza mettere in evidenza le proprie opinioni; nel corso del romanzo tuttavia il narratore, da esterno che era, diventa onnisciente “il poverino non immaginava nemmeno che sarebbe caduto in bocca al lupo” oppure: “lo incalzava verso un grande avvenimento, voglio dire (ormai si capisce) tirare il prete in trappola e...”
Nel romanzo il paesaggio assume un preciso rilievo: oltre infatti, ad interpretare e ad esprimere in immagini le emozioni e i sentimenti dei personaggi, fa da sfondo agli eventi e funge da proiezione tangibile della situazione psicologica dei personaggi: "il sangue dei vecchi Santafusca ribolliva nelle sue vene, mandava un grido, saliva alla testa in un fiotto, le livide pareti si tingevano di rosso, e rosse apparivano tutte le piante del giardino." Il mondo a cui appartiene il protagonista di questo romanzo, il barone di Santafusca, ultimo e derelitto erede di quella nobiltà meridionale sarebbe stato letterariamente consacrato ne ‘Il Gattopardo’ di Tomasi di Lampedusa.
«Egli abitava da alcuni anni un quartierino di poche stanze in una casa di via Speranzella e non aveva con sé che una vecchia donna, la quale era già stata sua istitutrice nei giorni che i Santafusca contavano per qualche cosa.
Venuti i tempi della rovina, donna Maddalena si teneva attaccata a quest'ultimo rudere di una gloriosa famiglia coll'ansia di chi s'avvinghia a un duro scoglio per non affogare. Per quanto su un nudo scoglio non resti che di morire di fame, pure si preferisce soffrire un giorno di più al morir subito.
Il barone non aveva avuto il coraggio di disfarsi di questa povera donna che gli teneva la casa, e di Salvatore, l'ultimo castaldo della sua villa, vecchio di settant'anni, malato di gambe, mezzo sconquassato dall'età e dagli acciacchi.
Donna Maddalena e Salvatore erano tutto quanto rimaneva dell'antico fasto: il resto era tutto venduto o ipotecato. Né l'una, né l'altro pigliavano stipendio, ma vivevano entrambi meschinamente dei detriti della casa che si sfasciava sulla loro testa.
Donna Maddalena, colla sua devota bontà, aveva messi tutti i suoi risparmi in mano a Don Coriolano, che giocò in una notte tutto ciò che la povera istitutrice aveva messo in disparte in quarant'anni di vita semplice e di economia. Ora essa non aveva più nulla e doveva ogni giorno supplicare il suo signore e padrone perché non la lasciasse morire di fame. Erano preghiere senza rimproveri, voci rispettose e sommesse, una devozione e un amore insomma di madre tenera verso un caro figliuolo viziato. Tutto ciò che veniva da Don Coriolano era per l'umile istitutrice bello, grande, degno di lode o di perdono.
Giustizia vuole che si dica che anche il barone conservava per la vecchia maestra un sentimento che il tempo e gli stravizi non avevano mai potuto distruggere.
La voce piangente di Maddalena aveva ancora la virtù di turbare la coscienza indurita di un uomo, che ormai l'aveva chiusa a ogni altro affetto. Un'eco dolce e pietosa era rimasta nascosta nell'edificio vecchio e cadente della sua coscienza e Maddalena sapeva di non parlare mai inutilmente.
Non era egli un tristo, degno della forca, ‑ (si dimandava spesso) ‑ di rubare a quella povera creatura il suo denaro, di lasciarla morire in casa di fame e di solitudine?
Tornato a casa dal colloquio col prete, egli confrontava questa povera vittima che viveva di sospiri, col prete che aveva il pagliericcio pieno di denaro.
L'una da quarant'anni divideva il destino di una antichissima casa, cadendo anch'essa a brani a brani insieme ai muri, non lamentandosi mai se non quando la fame era più forte della pazienza, sollevando alta la bandiera dell'onore fin che c'era fiato; e l'altro, il prete, insidiava, minava fin le stesse rovine e cercava di pigliare un Santafusca per la gola.
Maddalena aveva chiusi gli occhi della sua povera mamma ‑ pensava sempre l'uomo salendo le scale di casa ‑ ed egli non poteva fare più nulla per lei. Se fosse andato in prigione, la povera donna sarebbe morta di fame sulla via.
I Santafusca avevano nelle vene sangue di re normanni, diceva la cronaca. L'ultimo dei baroni poteva ben morire in odore di brigante con una palla nella gola: ma era vergognoso che si lasciasse succhiare il sangue da un pipistrello.
Man mano che il suo pensiero girava su questo fuso, l'animo del barone si rinfocolava e pigliava coraggio».
La vicenda si snoda agilmente, alternando i toni cupi del romanzo nero con la divertita leggerezza delle ambientazioni popolaresche: un insieme armonioso e sapiente che fa di questo romanzo una delle opere più ricche ed interessanti del secondo Ottocento italiano ed il lettore, avvinto dal susseguirsi incalzante degli avvenimenti, attende con ansia e curiosità la sconvolgente conclusione della storia.
L’intreccio, fittissimo e senza inciampi, frequenti nei narratori italiani intenti ad imitare un genere romanzesco che di solito non frequentano, la tensione morale, l’abilità descrittiva, che si esplica soprattutto nelle scene ambientate nella villa dei Santafusca, una villa vesuviana carica di echi letterari e misteriosi: «Il palazzotto dei Santafusca, d'un grosso e pesante stile seicento, da molti anni abbandonato alle eriche, all'edera e alle ortiche, presentava in mezzo alla sua grande decadenza ancora qualche vestigio dell'antica suntuosità.
Un lungo viale di platani secolari menava alla casa attraverso a un parco chiuso, dove il tempo e la negligenza avevano seminato ogni sorta dì erbe e di lappoli, fin sui gradini stessi della doppia scalea, che un gonfio stile rococò portava al terrazzo della casa.
Né qui finiva l’'invasione del verde. Edere e glicini e viti silvestri si arrampicavano avviluppate anche alle pareti della casa, fin quasi al tetto, stendendo dei larghi tappeti lungo i muri, entrando fra le fessure delle persiane, stringendosi ai ferri delle finestre, ingombrando l'ingresso delle porte.
Dei vecchi mozziconi di statue, che una volta rappresentavano Giove o Mercurio, non erano, oggi che un ammasso informe di frasche o di vilucchi, in cui il sasso nero giaceva morto e sepolto e vedevi l'erba uscire fin dalle corrose ardesie del terrazzo, a far beate le lucertole.
L'interno era piú squallido.
Tutte le vecchie suppellettili, i vasi, gli stemmi, i candelabri, i quadri preziosi avevano emigrato da un pezzo, non a pagare i debiti del padrone, ma a riempire qualche buco della vecchia nave che faceva acqua da tutte le parti. Erano molti anni che il silenzio e la miseria intristivano una casa dove quarant'anni prima aveva regnato il chiasso, il fasto e l'orgoglio d'una grande famiglia dei reame.
Non parlo delle feste del principio del secolo e dei trionfi dell'altro secolo, quando i Santafusca comandavano né pìú né meno dei Borboni a Napoli.
In quei tempi i vecchi contadini avevano udito dire delle caccie rumorose e principesche del barone Nicola, che andava attorno sempre armato di pistolotto, e si raccontavano avventure tremende di rapimenti, di voluttà, di orgie, di delitti.
Che cosa era rimasto di tutta questa potenza? Nulla, anzi meno che nulla, perché «u barone» Coriolano oggi valeva meno di un tronco di statua. Non solo egli era debitore dell'aria che respirava, ma la prigione era sua creditrice.
Queste cose rivolgeva egli stesso nella mente la mattina del famoso giovedì, mentre, passeggiando in su ed in giú per la fredda e nuda galleria che dava sul terrazzo, stava aspettando il suo prete.
Di tutto l'antico fasto non rimanevano oggi che lembi di broccato sospesi ai muri, brandelli dì cornicioni dorati, le vólte dipinte, qualche buon mosaico; ma la tristezza, il deserto, la rovina erano maggiori.
Tranne un paio di cameruccie a pian terreno, dove Santafusca aveva nascosto un letto e quattro sedie per sé, piú come una tana di rifugio che per un luogo di riposo, il resto della casa era interamente vuoto. Chiuse tutte le persiane, chiuse tutte le porte, l'umido e il freddo davano a quelle vaste sale un'aria di grandi sotterranei, in cui risuonava l'eco dei passi e svolazzavano ombre misteriose.
Dove la tenebra era più fitta, per la grande quantità delle frasche, che avevano stesa una tenda sulle gelosie, i pipistrelli avevan fatto il loro sordido nido, ed «u barone» non osava accostarsi per paura di risvegliarne l'immonda tregenda.
Alla villa capitava di tempo in tempo, come un fantasma anche lui, quando era più nero e più in collera colla fortuna; ma non si fermava mai più di un giorno o due, il tempo cioè di togliere ciò che si poteva ancora scassinare della vecchia magnificenza; e se ne andava come era venuto, senza vedere nessuno, dopo aver diviso con Salvatore un pranzo alla cacciatora.
Salvatore, già avvilito da un colpo di apoplessia, vecchio di settant'anni, mezzo orbo e mezzo scemo, passava il suo tempo in quel deserto, in compagnia del suo cane nero e di alcune capre ch'egli lasciava pascolare nel parco. Viveva anche lui di qualche detrito, come un vecchio sorcio, vendendo l'erba che non mangiavano le capre, coltivando quattro frasche di insalata, e raccogliendo i fichi e le mandorle che cadevano dalle piante. Le capre ed alcune galline provvedevano al suo pranzo e alla sua cena.
Nella sua decadenza non riconosceva «u barone» che al suono imperioso della sua voce e al colore nero della barba. Allora un'antica forza svegliavasi in quel vecchio, che dormiva le sue giornate al sole, e, bene o male, Salvatore moveva le gambe e le braccia nel senso delle antiche abitudini di obbedienza e di rispetto, come un vecchio telaio guasto che conserva ancora l'ossatura del suo buon tempo».
Abilità descrittiva, che si esplica nelle marine azzurrissime ai cui margini spuntano teschi: «In una nicchia sotto l'altare dell'Addolorata, posti a giacere sopra un mucchio confuso di stinchi e di rottami umani, guardavano al di fuori attraverso una piccola grata di ferro alcuni teschi, colle occhiaie nere e profonde, in una attitudine di eccitata curiosità.
Uno di quei teschi aveva un berretto da prete polveroso e rosicchiato esso pure dal tempo, da quel gran Tempo filosofo paziente., che, come l'infinito spazio, aggiusta molte cose. Nulla di strano, ‑ pensò il barone, ‑ che il caso portasse un giorno il teschio rotto di prete Cirillo a discorrere col suo duro teschio di peccatore in fondo a una nicchia dell'ossario di Santafusca. L'ossario è una cappelletta barocca che si trova sull'angolo di due viottole campestri, colle finestre rivolte a ponente, cioè verso il mare. Molte teste di vecchi contadini morti durante il contagio dei 1630 guardano da duecentocinquant'anni la marina azzurra e il Vesuvio che fuma. La pioggia lava di tempo in tempo quelle fronti senza rughe, che si squagliano lentamente nei loro elementi, tra cui domina il fosfato di calce».
Negli improvvisi temporali: «Questi nuovi pensieri che nascevano dal terreno del fatto allagavano gli altri pensieri fatti prima a casa. Il cavallo non andava avanti. Il temporale saliva sempre più dietro la montagna. Una gran tenda funebre di nuvoloni copriva il colle e il lido, e la pioggia scendeva a righe sottili, a sbuffi, premendo ora più, ora meno, tra i giuochi dei lampi, che impaurivano la bestia.
«U barone», sollevando gli occhi all'imponente spettacolo della natura corrucciata, fino all'alta regione del tuono e del baleno, si sentì come una pagliuzza in balia degli elementi. Il sentimento della fatalità, che fabbrica ed agita uomini e cose, dissipò, come un bagliore di lampo, i romantici spettri della sua infantile superstizione. Che colpa ha il fulmine quando uccide il povero agricoltore accanto all'aratro? Uomini e fulmini siamo ciechi esecutori di forze universali... Avanti!
Il cavallo nitrì, scosse la criniera, e sua eccellenza il barone Coriolano di Santafusca entrò tra le case del villaggio col passo e coll'animo di un vincitore.
Il calpestío dei piedi ferrati sui ciottoli richiamò l'attenzione della gente. Tutti riconobbero «u barone» ed egli fu superbo che lo vedessero. Dalle botteguccie e dalle finestruole uscirono le teste, i berretti, le cuffie dei curiosi, quei che erano nelle vie s'inchinarono quasi fino a terra.
«U barone» entrò in un piccolo angiporto e fermò il cavallo per lasciar sfogare il mal tempo. La pioggia scendeva mista a grandine e rumoreggiava sui tetti, sui muri e sulle strade, ribollendo, gorgogliando negli stretti scolatoi.
- Chi di voi mi chiama il segretario? ‑ disse sua eccellenza.
Un ragazzetto corse come una lepre, e due minuti dopo Jervolino, il segretario, venne in pianelle, saltando le pozze dell'acqua, e inchinò il barone.
Questi intanto aveva chiesto ai presenti qualche notizia intorno alla morte di Salvatore e intorno al raccolto delle ulive e del vino.
I più vecchi gli rispondevano col loro linguaggio immaginoso che i tempi buoni erano morti, che la freddura aveva mangiato gli aranci, che i figliuoli non guadagnavano più gli orecchini dell'amorosa nella pesca del corallo, che «u guerno» portava via tutto colle tasse.
Sotto i berrettoni rossi di lana e sotto la vernice nera del sole e del tempo «u barone» riconobbe qualche antico compagno di fanciullezza, felice età, quando il giuoco ci rende tutti eguali. Promise tempi migliori per Santafusca e lasciò capire che avrebbe potuto un giorno o l'altro ristabilirvisi».
Nelle strade polverose:«Una volta si trovò in mezzo a questi pensieri sulla strada che menava a Santafusca a mezz'ora di distanza dalla villa. Una forza misteriosa l'aveva sospinto verso porta Capuana, a piedi, e di strada in strada, di viottolo in viottolo, s'era trovato quasi in vista del vecchio e noto campanile. Quando sì arrestò su due piedi, si vide pieno di polvere, brutto di sudore, cogli abiti in disordine, e si spaventò egli stesso della sua follia».
Infine nei ritratti di un’umanità povera, ma dignitosa.
Attorno alla vicenda si scatenano i temi del lotto e la scena della vincita di un gruppo di poveracci è forse tra le più napoletane e verisimili del milanese De Marchi, della superstizione, del soprannaturale: «Filippino, il povero cappellaio, tormentato dai creditori e dagli uscieri, scrisse diligentemente i tre numeri dati dal prete:4, 30, 90.
Poi andò nella camera della moglie malata a prendere consiglio.
Donna Chiarina, una cara creatura innamorata di Dio, vide in questo incontro con prete Cirillo un aiuto del cielo e volle che Filippino vendesse anche un suo braccialetto d'oro per avere i denari.
Quando una barca sta per affondare, si butta ogni cosa in mare e si procura di salvare almeno il legno. Se poi la barca vuole andare a picco, è la volontà di Dio.
Così pensava Filippino, un uomo secco, che pareva cotto sotto la cenere, ma non intricato nelle faccende sue.
Per tutto il venerdì e per due terzi del sabato, si osservò in casa un rigoroso digiuno per implorare la benedizione del cielo. I figliuoli vedevano girare il sole con tutti i pianeti. Donna Chiarina, che non poteva muoversi dal letto, non fece che dire rosari tutto il tempo.
Passò il venerdì, per quanto paresse eterno. Passò anche parte del sabato, e, prima delle tre, Filippino, salutata la moglie e accompagnato da' suoi quattro figliuoli, si avviò verso la strada di Santa Chiara per assistere all'estrazione dei numeri.
Molta gente era raccolta nella corte, sotto il portone e in un vicoletto vicino, ed erano specialmente operai, pescivendoli, acquaioli, donne vecchie e giovani, tutta povera gente che attacca al lunedì la speranza a una funicella e vive tutta la settimana, toccandovi sopra il pane asciutto.
La speranza è niente, ma dà un buon sapore alla roba.
Donna Chiarina, accese due candele innanzi a una immagine miracolosa di Nostra Signora di Loreto, seguitava a pregare con tanto fervore, che avrebbe potuto sfondare le porte del paradiso.
- Zitti, zitti, eccoli... son qua... ‑ Chi? ‑ L'autorità, il ragazzo, le guardie. ‑ Oggi vinceranno i numeri del terremoto. ‑ C'è il fatto dell'inglese che si è impiccato all'albergo – È il 18 il numero di quest'oggi, vedrete, Nunziatella...
Questi erano i discorsi che faceva quella gente, agglomerata e tormentata dal desiderio e dalla curiosità.
Molte speranze si accendono e bruciano il cuore come un carbone vivo; vengono gli ultimi dubbi, gli ultimi scoraggiamenti; si ciarla, si ride per stordirsi.
Zitto, il ragazzetto cogli occhi bendati, col braccio ignudo, dall'alto d'un palco tuffa la mano nell'urna, estrae un rotolino di carta, che passa al signor delegato, vien scritto su un libro, viene esposto in una tabella, e il banditore grida: ‑ Quattro!
‑ Papà, papà, il Quattro, ‑ gridano i ragazzi in mezzo al susurro che tien dietro al primo numero.
‑ Non vuol dir nulla, ragazzi. Tutti possono pigliare un numero come si piglia un pesce morto colle mani. È il terno che ci vuole.
Così dice Filippino, a cui quel primo numero ha fatto battere terribilmente il cuore.
Succede un nuovo istante di silenzio. Il ragazzino tuffa ancora la mano nell'urna, tira il numero, questo vien scritto, esposto, e il banditore grida: ‑ Trenta!
‑ Papà, papà, papà... ‑ strillano i quattro ragazzi come quattro aquilotti.
Filippino, colla voce e coll'anima sconcertata, mentre nella folla cresce il susurro, sentendo che sta per perdere la testa, chiama i pensieri a partito e sgridando i figliuoli dice:
‑ Tacete, allocchi. Che vogliono dire due numeri? si può avere il capo e la coda del pesce e non avere il pesce. La fortuna è come l'onda del mare grosso che vi spinge a terra, ma non vi lascia mai sbarcare e qualche volta vi ammazza sullo scoglio. Vedi tu bene, Angiolillo, che sia proprio il Trenta?
Filippino sollevò il più piccolo de' suoi figliuoli, perché leggesse i numeri al di sopra delle teste, il padre aveva la nebbia negli occhi.
- È il trenta, lo conosco bene ‑ gridò il bimbo.
- Ebbene, fate conto che non sia venuto niente. Noi dobbiamo vincere il terno secco, o non è che un pugno di mosche.
‑ Dicono che «u governo» levi dall'urna i numeri pericolosi ‑ disse un grosso fabbro a una bella ragazzona del Mercato.
- Il lotto è una trappola ‑ rispose costei.
- Come l'amore, speranza mia! ‑ disse il fabbro, che avrebbe voluto tingere la bella guancia.
Filippino procurava di stare attento a questi discorsi per distrarsi, per non soffrir troppo, per ingannare il tempo. Se ci fosse stata la sua Chiarina... ma la pia donna sognava in quel momento un nido di rondini. Egli non cessava intanto di tirare i riccioletti d'Angiolillo come se volesse spennacchiarlo.
Il ragazzo tuffa per la terza volta il braccio nell'urna. Tira il numero, che vien scritto, pubblicato, e il banditore questa volta con voce da cannone grida: NOVANTA!
Filippino seguitava a dire macchinalmente:
‑ Mosche, mosche, mosche...
Un grande uragano di voci accolse la comparsa del 90 del gran signore del lotto, di questa illustre quantità, che nella sua pontificale maestà viene in fondo alla processione degli altri numeri, ultimo della serie, simbolo dell'abbondanza.
‑ Papà, paparino, il novanta, il terno, guarda, papà...
I ragazzi hanno un bel gridare. Filippino, come se avesse ricevuto una mazzata sulla nuca, tentenna il capo, straluna gli occhi, contorce la bocca e seguita a ripetere:
‑ Mosche, mosche.
Intorno a lui si fece l'Ombra che avvolse Nostro Signore sul monte. Le gambe non lo portavano più. Sentiva i ragazzi che strillavano, che sì arrampicavano sulle gambe, ma egli non vedeva più nulla.
‑ Aiuto, aiuto!
‑ Che c'è?
‑ Gli vien male.
‑ Chi è?
‑ Un epilettico.
‑ Ha vinto un terno. È il caldo. Portatelo fuori. Fate venire una carrozzella. Largo, largo, galantuomini...
Accorrono alcune guardie municipali. Filippino è sollevato, portato fuori dalla folla e dietro si fa un codazzo di gente che interroga, che esclama, che dice la sua, commenta, attacca la frangia.
Angiolillo, svelto come un uccellino, è volato a casa a portar la notizia alla mamma.
Mezz'ora dopo, in Mercato non si parlava d'altro. Filippino il cappellaio aveva vinto un terno secco datogli dal prete Cirillo in cambio di un cappello.
Prima di sera il nome di Filippino il cappellaio e quello di prete Cirillo erano sulle bocche di tutti.
‑ La vincita è grossa. Chi dice cento, chi duecento, chi trecentomila lire. Don Nunziante ha visto la polizza e sa che Filippino ha giuocata la vita de' suoi figliuoli. Non poteva «u prevete» contentarci un po' tutti?
Il vespaio stuzzicato dalla meraviglia, dall'invidia, dalla stizza, dalla passione, suscitò una mezza rivoluzione nelle piccole strade, nelle botteguccie, presso i banchi del pesce, specialmente in Mercato dov'era la casa del prete.
Uscí fuori anche Gennariello, il ciabattino, che aveva in consegna la chiave della casa e che da due giorni non vedeva tornare lo zio. Comparve sulla sera anche don Ciccio Scuotto, il famoso «paglietta» o avvocato dei preti, che aveva ricevuta la lettera di don Cirillo. Aprí la casa, in mezzo al gran bisbiglio delle comari spettinate, che strologavano sull'accidente. Il prete mancava da casa da giovedí; Ciamminella l'aveva veduto uscire all'alba e non era piú tornato.
Gennariello, che aveva fatto un debito per giuocare i numeri dello zio prete, restò istupidito tutta la sera e non gli si poté tirar fuori una parola di bocca.
La gente lo compativa.
‑ Va, credi alla carità dei parenti, povero martire! A te ha dato i numeri falsi, perché sei figliuolo di sua sorella, e ha dato i buoni al marito di donna Chiarina.
‑ Sposa amorosa e fresca ‑ cantarellava l'acquaiolo. ‑ Chi non regala volontieri qualche cosa a una bella donnina?
‑ Son cose in cui c'entra il diavolo, Ciamminella, e non vorrei toccare un soldo di quei denari.
‑ Nemmeno io, Carmela. Chi compra la fortuna vende l'anima.
Né minore era la folla e il subbuglio davanti alla bottega di Filìppino.
Il pover'uomo, portato a casa mezzo morto, trovò la moglie mezza morta nel letto. Tutta la domenica fu un giorno di sospiri, di esclamazioni, di piccoli svenimenti, con un gran consumo di acqua di melissa e di fior di arancio. Per fortuna era festa e la bottega stette chiusa. La gente nella piazzuola, quanto fu lungo il giorno, rimase a contemplare i battenti, le gelosie, la ditta, come accade sul luogo di un grande delitto di sangue, tanto che il medico dovette entrare in casa, passando dalla porta del vicino dopo aver sfondato un tavolato di mattoni.
Don Nunziante il notaio, incaricato da Filippino, trovò il mezzo di interrogare il commendator Berti, direttore generale del Regio Lotto, sull'entità della vincita e sui modi della riscossione e venne verso l’ora del pranzo a dire che, fatti tutti i calcoli necessari, e sottratta anche la parte di trattenuta per ricchezza mobile, ecc., Filippino Mantica aveva diritto a 455.000 lire, non un mezzo milione, ma giú di lí.
I coniugi Mantica ascoltarono con un senso di tristezza questo gran numero.
Essi temevano che fosse l'effetto di una febbre, o che c'entrasse qualche malefizio. Questo stordimento, questo sonnambulismo, durò fino al lunedí, quando il medico li persuase a lasciarsi cavare quattro dita di sangue».
Ed ancora preti che compaiono come ombre minacciose, avvertimenti, segnali e, soprattutto, il nominato cappello del prete che assume valore di prova giuridica, di segno della coscienza e di oggetto fantasmatico e lugubre nel rigurgito di coscienza del barone.
Dopo l’omicidio, una prima reazione del barone: «Poi, sentendosi mancare le forze, usci (…) e venne in un prato pieno d’erbe folte e di sole, dove stavano pascolando le capre di Salvatore. Qui si fermò coi piedi sprofondati nella terra molle e cominciò a guardare stupidamente il muso delle capre, che guardavano lui stupidamente, ruminando.»
Seguono lunghe serie di meditazioni rifiutate o sotterrate nell’anima come la seguente: «Era una brutta vita… Perché non s’ammazzava? (…) Se un uomo val l’altro, perché non aveva fin da principio accoppato sé in luogo del prete? (…) – Oh! i grandi imbecilli che siamo – mormorò a mezza voce, e si mosse per uscire».
Finché, davanti al giudice, in un confronto tremendo al palazzo di giustizia napoletano, inizia la conclusione del dramma vero e proprio, sia intimo che estetico, letterario, iniziato sin dal primo post-delitto con un incessante dialogo interiore filosofico a cui il barone non sa sfuggire: « La mente non connetteva più, si spezzavano le formule logiche, e la pazzia, la furia vendicatrice della superba ragione, scendeva a rompere la testa del barone di Santafusca, come egli aveva spezzata, con una sbarra di ferro, la piccola testa di prete Cirillo. Ciò che seguì da questo momento non fu più interrogatorio nelle forme, ma la lotta estrema di una ragione contro un rimorso». Le ultime pagine sono terrificanti, per la resa realistica della scena (vi sono il giudice, i poliziotti, l’interrogato, tutti in un grigio ufficio del palazzaccio) e soprattutto per la descrizione della forza esplosiva che la verità della coscienza emette nel suo prorompere fuor dal dominio razional-istintivo del barone assassino, il quale infine non può più disgiungere da sé la figura del ”cacciatore”, personaggio prima fittizio da cui lui stesso si era veramente travestito per parlare con un presunto possessore del famoso ”cappello” (oggetto che infine costituisce la sua condanna), al fine di riprendere il cappello in mano per farlo sparire. Il ”cacciatore” insomma fuoriesce dalla cinica finzione teatral-difensiva del barone per divenire platealmente l’anima nera di Santafusca (e qui, certamente, c’è in De Marchi il tocco vistoso di Gogol’): «Gli veniva meno la forza di tener separato nettamente il cacciatore da sé, di non attribuire all’uno pensieri ed atti che appartenevano, pur troppo! soltanto all’altro. Non sapeva più discernere il fatto da’ suoi particolari, e, per la foga di conciliare il prete col suo cappello e di voler credere troppo nel cacciatore, non si accorgeva che poco a poco andava esponendo e accusando se stesso. La sua testa era una fornace. I mille fantasmi cacciati, respinti, costretti, flagellati dalla sua scienza e dalla sua logica, uscivano sbucando ora tutt’insieme dai tenebrosi spechi della coscienza (…)».
Ed avviene il crollo di un’anima da sempre scissa (allegoria, credo, della modernità) che, direi, si spacca tragicamente in due, come la sottile scienza delle dottrine positivistiche: il barone Santafusca vuole distruggere la religione annientando il cappello del prete, ossia confonde il simbolo con la fede vera e profonda del cristianesimo. Appunto in lui, fino alla crisi finale, convivono un frate, un libertino, un nichilista ed un accattone senza dignità, schiavo dei propri vizi.
La vita di noi moderni, in fondo, in un solo personaggio, che dal 1888 ci raggiunge come ritratto collettivo.
Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale stabia Emilio De Marchi e ‘Il cappello del prete’ di Ida de Rosa, Peppe Iovine, Myriam La Mura, Carmine Sicignano ed Antonio Sorrentino salotto culturale 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