venerdì 5 marzo 2010

Tra le due guerre di Massimo Capuozzo

Tra le due guerre
Al termine della prima guerra mondiale l'Italia — pur vittoriosa — dovette affrontare una situazione molto grave dal punto di vista economico-sociale, di fronte a cui la vecchia classe dirigente liberale si rivelò inadeguata, mentre si affermavano due partiti di massa, il partito socialista e il partito popolare italiano che organizzava i cattolici sulla base dell'aconfessionalità e delle tradizionali rivendicazioni cattoliche. Nel paese, inoltre, andavano prendendo piede, soprattutto presso gli strati di piccola borghesia, gli ideali nazionalistici, esasperati dall'andamento delle trattative di pace nelle quali l'Italia, in parte per l'intransigenza dei suoi alleati e in parte per la condotta poco efficiente dei suoi rappresentanti, aveva dovuto rinunciare alle aspirazioni egemoniche sull'Adriatico e su Fiume, senza d'altronde impostare una politica di amicizia con il nuovo Stato iugoslavo. Nacque di qui il mito della “vittoria mutilata”, che doveva trovare ampia diffusione soprattutto negli ambienti nazionalistici e combattentistici; in tali zone dell'opinione pubblica reclutò i suoi seguaci il movimento dei Fasci italiani di combattimento, che Mussolini fondò a Milano, con un programma ultrademocratico e nazionalista nello stesso tempo.
Nel giugno 1919 al governo Orlando, provato dalle difficoltà economiche, dalle agitazioni sociali e dall'andamento delle trattative di pace a Parigi, conclusesi con la firma del trattato di Versailles, succedette il ministero Nitti; lo statista meridionale, che formò un governo di centro con larga partecipazione di elementi giolittiani, dovette affrontare la grave situazione provocata dai tumulti per il carovita e dalla crisi derivante dal colpo di mano su Fiume attuato da D'Annunzio (settembre 1919) per risolvere con la forza il problema dell'annessione della città. Dopo le elezioni del 16 novembre 1919, fatte per la prima volta con la proporzionale, e che videro il trionfo di socialisti (156 seggi) e popolari (100 seggi), il governo Nitti, attaccato sia da destra sia da sinistra, sopravvisse per sette difficili mesi, contemperando l'uso della forza con una politica di concessioni sul piano della legislazione sociale. Il 9 giugno 1920 il governo Nitti cadde però sulla questione del prezzo politico del pane, e nuovo presidente divenne Giolitti, ormai settantottenne. Giolitti riuscì a conseguire buoni risultati in politica estera col trattato di Rapallo (12 novembre 1920), che risolveva i rapporti con la Iugoslavia, attribuendo Zara all'Italia e facendo di Fiume una città libera; di conseguenza D'Annunzio fu fatto sgomberare con la forza. In politica interna Giolitti avviò un'azione di democratizzazione costituzionale e fiscale; nel settembre 1920, di fronte all'occupazione delle fabbriche, Giolitti rifiutò di intervenire con la forza, confidando nel prevalere dei riformisti all'interno del movimento socialista; e in effetti ciò avvenne, soprattutto per la pressione della CGL, cosicché fu accettata dalla Confederazione e dal partito socialista la proposta del “controllo operaio” presentata dal governo, nonostante l'ostilità dei gruppi comunisti (“Ordine nuovo” di Torino). Con questo episodio, che fu una sconfitta per il movimento operaio perché il controllo operaio in realtà non fu mai attuato, il movimento socialista entrò in una fase di ripiegamento, a seguito della quale passarono alla controffensiva le forze conservatrici e reazionarie (inverno 1920), che trovarono nel fascismo il loro strumento e che fecero anche leva sul senso di insicurezza che le agitazioni socialiste ed estremiste avevano creato in alcuni strati della popolazione, dando l'impressione che l'intero paese potesse precipitare nel caos. Per tutto il 1921 la violenza fascista (squadrismo, spedizioni punitive, ecc.) imperversò in Italia contro le organizzazioni socialiste, specie nella Val Padana, spesso con la connivenza delle autorità; nel partito socialista maturava intanto una crisi che portò nel gennaio 1921 alla scissione della minoranza aderente ai ventun punti della terza Internazionale e alla fondazione del partito comunista d'Italia (congresso di Livorno). Nel maggio 1921, mirando ad approfittare delle condizioni di difficoltà create alle forze di sinistra dallo squadrismo, Giolitti indisse nuove elezioni, che imperniò sulla formazione di un blocco nazionale governativo che includeva liberali, democratici, nazionalisti e fascisti. La campagna elettorale si svolse in un'atmosfera irrequieta e tesa, ma i risultati delle urne diedero ugualmente un buon successo ai socialisti (123 seggi, più 15 ai comunisti) e ai popolari (che passarono a 108 deputati). La nuova camera risultò quindi analoga alla precedente, con la sola rilevante novità della presenza di 25 deputati fascisti eletti in liste diverse (ufficialmente il partito fascista ottenne 2 seggi). A Giolitti, la cui posizione si era andata indebolendo e che si dimise alla fine di giugno, succedettero i ministeri Bonomi (luglio 1921 - febbraio 1922) e Facta (febbraio- ottobre 1922), sotto i quali il movimento fascista (costituitosi in partito il 9 novembre 1921 nel congresso di Roma) andò sempre più rafforzandosi. L'ultimo tentativo delle opposizioni di sinistra di arrestare la marcia del fascismo, lo sciopero generale proclamato alla mezzanotte del 31 luglio 1922 dall'Alleanza del lavoro, ebbe scarso seguito, anche per l'immediata mobilitazione delle squadre fasciste. La strada era ormai aperta davanti a Mussolini per la conquista del potere; nel congresso nazionale fascista riunitosi a Napoli il 24 ottobre il “duce” annunziò infatti la “marcia su Roma”, che fu effettuata il 28 dello stesso mese. Dopo il rifiuto di Vittorio Emanuele III di firmare lo stato d'assedio e le conseguenti dimissioni di Facta, Mussolini ebbe dal re l'incarico di formare il governo, che fu insediato il 31. Il primo governo Mussolini fu un governo di coalizione, cui parteciparono esponenti liberali e popolari e che fu appoggiato dall'esterno anche da Giolitti, poiché la vecchia classe dirigente pensava ancora che fosse possibile arrivare a una “normalizzazione” e costituzionalizzazione del fascismo; ma gli avvenimenti dimostrarono presto che questa era un'illusione. Tra il novembre 1922 e il giugno 1924, mentre continuavano le violenze contro gli oppositori socialisti, comunisti e popolari, il fascismo esautorò di ogni potere gli altri partiti e creò suoi organi, come il Gran consiglio e la Milizia (gennaio 1923), che assicurò a Mussolini uno strumento del tutto indipendente dalla normale organizzazione militare dello Stato. Dopo il congresso del partito popolare di Torino (12-13 aprile 1923) Mussolini eliminò i rappresentanti di quel partito dal governo, mentre favorì la secessione degli elementi filofascisti (riunione del 24 aprile della “destra nazionale” del partito popolare, con un programma di appoggio incondizionato a Mussolini). Il 25 gennaio 1924 un decreto reale sciolse la camera, dopo che i due rami del parlamento avevano approvato la legge elettorale maggioritaria Acerbo, che fu applicata nelle elezioni del 6 aprile, svoltesi in un clima di violenze e di soprusi; le liste “nazionali” governative ebbero il 64,9% dei voti (374 deputati, di cui 275 ufficialmente fascisti); le opposizioni e i gruppi indipendenti ottennero tuttavia circa 2 milioni e mezzo di voti (su 7.200.000). Le illegalità che avevano caratterizzato la campagna elettorale furono denunciate, alla riapertura della camera, dal deputato socialista unitario Giacomo Matteotti (30 maggio); il suo discorso esasperò i fascisti, e un gruppo di questi, al comando di A. Dumini, organizzò il rapimento (10 giugno) e l'uccisione dell'oppositore. L'omicidio provocò una fortissima reazione nel paese, che isolò moralmente il fascismo; ma le opposizioni (dai liberali ai socialisti) che si raccolsero nel cosiddetto Aventino, rifiutando di partecipare oltre alle sedute della camera, mancarono di decisione nel prendere l'iniziativa, attendendo dal re la revoca dell'incarico a Mussolini, mentre Vittorio Emanuele III si rifugiava invece dietro il paravento delle forme costituzionali dichiarando di aspettare per agire un voto di sfiducia della camera verso il governo. In queste condizioni, Mussolini riuscì a rimontare la corrente e a superare la crisi, affermando nel discorso del 3 gennaio 1925 di assumersi la responsabilità “politica, morale, storica” di quanto era accaduto e denunciando l'Aventino come organizzazione sediziosa e repubblicana. Nei due anni successivi il fascismo procedette sempre più risolutamente nella strada dell'organizzazione della dittatura e dell'instaurazione del “regime” totalitario. I margini delle libertà politiche si fecero sempre più ristretti; l'attività del parlamento, dei partiti, delle associazioni sindacali venne sempre più limitata e soffocata; con una legge del 24 dicembre 1925 Mussolini, che cumulò in sé le funzioni di capo del governo e di primo ministro, venne investito della piena autorità esecutiva, che esercitava a nome del re senza ingerenza del parlamento, il quale venne privato dell'iniziativa delle leggi; altre leggi (4 febbraio e 3 settembre 1926) sostituirono agli amministratori comunali di nomina elettiva amministratori di nomina governativa (podestà e consulte comunali). La legge del 3 aprile 1926 sulla disciplina dei contratti collettivi di lavoro compì l'inquadramento dei sindacati nello Stato, stabilendo un'organizzazione giuridica pubblica del mercato del lavoro, dopo che nell'ottobre 1925 i dirigenti della Confederazione dell'industria e quelli delle corporazioni nazionali avevano approvato un accordo (il cosiddetto “patto di palazzo Vidoni”) per il quale i due organismi si riconoscevano reciprocamente come gli unici rappresentanti degli imprenditori e dei lavoratori. Subito dopo l'attentato Zamboni contro Mussolini (31 ottobre 1926), che fece seguito a una congiura organizzata nel novembre 1925 da T. Zaniboni con l'appoggio del generale Capello e di altri, vennero infine sciolti tutti i partiti (tranne quello fascista), fu abolita la residua libertà di stampa, fu ripristinata la pena di morte e fu istituito il “tribunale speciale per la difesa dello Stato”, che doveva giudicare in udienze segrete e con la procedura del tempo di guerra i reati contro lo Stato. Con la legge elettorale approvata dalla camera il 16 marzo 1928, restando il senato di nomina regia, fu istituita per la camera la “lista unica”, i cui candidati erano scelti dal Gran consiglio tra quelli proposti dalle confederazioni nazionali dei sindacati. Mentre cessavano la loro esistenza nel paese la CGL e la cattolica CIL (Confederazione italiana del lavoro), il regime portava avanti una sua politica sindacale, che ebbe il manifesto programmatico nella Carta del lavoro, emanata il 21 aprile 1927, la quale preconizzava l'istituzione delle corporazioni, la cui creazione si fece però attendere sino al 1934.
Un elemento assai importante nella politica del fascismo fu l'avvenuta conciliazione dello Stato con la Chiesa (patti lateranensi dell'11 febbraio 1929), che servì a Mussolini anche per rafforzare il prestigio del fascismo e quello suo personale e per utilizzare l'appoggio della Chiesa come strumento di espansione nazionale. I rapporti così stabiliti riuscirono a superare anche la crisi prodottasi nel 1931 tra fascismo e Vaticano a causa della volontà del regime di riservare unicamente alle sue organizzazioni l'educazione della gioventù; lo scontro si chiuse infatti con un compromesso che limitava fortemente l'attività sindacale e sportiva dell'Azione cattolica, nella quale erano confluiti numerosi elementi già appartenenti al partito popolare. Molti dirigenti antifascisti avevano intanto preso, soprattutto dalla fine del 1926, la via dell'esilio (Salvemini, Sturzo, Turati, Treves, Sforza, Saragat, Nenni, ecc.), e qui avevano ridato vita agli antichi partiti, organizzando nel 1927 la Concentrazione antifascista (di cui fecero parte i due partiti socialisti [il massimalista e l'unitario], il partito repubblicano, la Lega italiana dei diritti dell'uomo e la ricostituita CGL). Ma la linea politica di questi oppositori del fascismo, che attendevano la caduta del regime essenzialmente da una crisi interna, venne rifiutata, qualche anno più tardi, dai più giovani esponenti dell'antifascismo, tra i quali si distinse Carlo Rosselli, promotore del movimento di “Giustizia e Libertà”, che si proponeva un'iniziativa più audace e incisiva non solo all'estero, ma anche in Italia. Su questa linea si era del resto già messo il partito comunista, che andò accentuando, specie dal 1930, la sua azione all'interno del paese e che nel 1934, mentre cessava di esistere la Concentrazione, si collegava con il PSI con il primo patto di unità d'azione (17 agosto). Nel 1936, infine, di fronte alla guerra di Spagna, gli antifascisti italiani si impegnarono nella difesa della repubblica, testimoniando così, anche sul piano internazionale, l'opposizione a ogni forma di fascismo e alla politica estera espansionistica che andava ormai allineando l'Italia con la Germania hitleriana.
La politica estera del fascismo, che fu sempre legata in modo determinante alle scelte personali di Mussolini, fu caratterizzata da quella dinamica irrequietezza che contraddistinse il “duce” come diplomatico. Questo settore dell'azione del regime si ispirò sostanzialmente all'esigenza della revisione dei trattati di pace, affermata pubblicamente da Mussolini già nel gennaio 1922, oscillando tra un revisionismo pacifico nei mezzi e moderato nei fini e un altro violento nei mezzi e radicale nelle finalità. Altre costanti della politica estera di Mussolini furono il tentativo di impedire una stretta intesa tra Inghilterra e Francia (il che spiega l'alternarsi di freddezza e di cordialità con l'una o l'altra delle due potenze), l'ambizione di fare del Mediterraneo un campo esclusivo degli interessi di potenza italiani, e l'opposizione alla formazione di un sistema equilibrato di Stati nell'area danubiano-balcanica, per poter così assicurare una funzione di mediazione e di arbitrato all'Italia (di qui l'ostilità verso la Piccola intesa). Al di là delle formulazioni più o meno clamorose, questa politica si svolse inizialmente (dopo l'incidente di Corfù del 1923 che, sebbene risoltosi in modo non troppo favorevole, servì sul piano interno come prova del dinamismo che il fascismo intendeva imprimere alla sua politica internazionale) in modo abbastanza cauto, operando nell'ambito della Società delle Nazioni. Fu soprattutto dal 1930 che il governo fascista accentuò la sua azione, raggiungendo nel marzo 1931 un accordo con la Francia sulla questione degli armamenti navali, facendosi promotore nel 1933 del patto a quattro tra Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia (preparato nel marzo, ma affossato nel luglio perché la Francia si rifiutò di ratificarlo), stipulando nel marzo 1934 un accordo con l'Austria e l'Ungheria (mirante indirettamente a garantire l'indipendenza austriaca, minacciata dalla Germania nazista), e organizzando nell'aprile 1935 la conferenza di Stresa (presa di posizione anglo-franco-italiana a favore dell'indipendenza dell'Austria e contro il riarmo della Germania). Ma in questo momento Mussolini pensava già all'Etiopia come campo di espansione coloniale. Dopo l'incidente di Ual Ual e l'inizio dell'attacco italiano all'Etiopia (2 ottobre 1935), Stato membro della Società delle Nazioni, l'Inghilterra — seguita con qualche riluttanza dalla Francia — si schierò contro Mussolini, facendosi promotrice di sanzioni economiche. Dopo la rapida vittoria in Etiopia (maggio 1936) e la proclamazione di un effimero Impero, la cui corona fu offerta a Vittorio Emanuele III, poté così delinearsi e prendere sempre più consistenza un avvicinamento italo-germanico che fu fissato negli accordi di Berlino del 23 ottobre 1936 (l'Asse Roma-Berlino, come lo definì Mussolini nel discorso di Milano del 1º novembre 1936); l'intesa fra i due Stati totalitari fece poi le sue prove con l'intervento, in aiuto di Franco, nella guerra civile di Spagna (1936-1939), consolidandosi definitivamente con la stipulazione del Patto d'acciaio (22 maggio 1939).


Intervista ad Eugenio Montale
[...] Gli avvenimenti esterni sono sempre più o meno preveduti dall’artista; ma nel momento in cui essi avvengono cessano, in qualche modo, di essere interessanti. Fra questi avvenimenti che oso dire esterni c’è stato, e preminente per un italiano della mia generazione, il fascismo. Io non sono stato fascista e non ho cantato il fascismo; ma neppure ho scritto poesie in cui quella pseudo rivoluzione apparisse osteggiata. Certo, sarebbe stato impossibile pubblicare poesie ostili al regime d’allora; ma il fatto è che non mi sarei provato neppure il rischio fosse stato minimo o nullo. Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto al di al di fuori di questi fenomeni [...]
Dopo questa premessa posso dirvi, in risposta alla vostra domanda, che io gli avvenimenti che fra le due guerre mondiali hanno straziato l’umanità li ho vissuti standomene seduto e osservandoli. Non avevo altro da fare. [...] In definitiva, fascismo e guerra dettero al mio isolamento quell’alibi di cui esso aveva forse bisogno. La mia poesia di quel tempo non poteva che farsi più chiusa, più concentrata (non dico più oscura). Dopo la liberazione ho scritto poesie di ispirazione più immediata che per certi lati sembrano un ritorno all’impressionismo degli Ossi di seppia, ma attraverso il filtro di un più cauto controllo stilistico. Non vi mancano accenni a cose e fatti d’oggi. In ogni modo sarebbe impossibile pensarle scritte dieci anni fa. E perciò, a parte il loro valore, che non posso giudicare, debbo concludere che mi sento perfettamente a posto col cosiddetto “spirito del nostro tempo”.
(Intervista radiofonica a Eugenio Montale,
raccolta in E. Montale, Sulla poesia,
a cura di G. Zarnpa, Milano, Mondadori, 1976)


Antonio Gramsci[1]
Socialismo e cultura
Questi quattro brani possono dare un’idea dell’interesse che, pur nel vivo della battaglia politica, Gramsci dedicava ai pro­blemi della cultura, collegandoli alla realtà della società italiana. Su questo argomento si sarebbe incentrata, negli anni del carcere, la sua meditazione.

a) Definizione e utilizzazione della cultura
Tratto da un articolo intitolato ‘Socialismo e cultura’ questo bra­no fornisce ancora oggi parecchi spunti di riflessione sia per la definizione del concetto di cultura sia per l’imposta­zione di un problema perennemente ricorrente nella poli­tica culturale dei partiti della classe operaia: quale atteggiamento adot­tare nei confronti della cultura borghese?

[...] Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici, di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà cesellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi, in ogni occasione, rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cul­tura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere supe­riore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. [...] Lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riu­scito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e supe­riori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di più di quanto gli altri valgano nella loro. Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce.
La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria perso­nalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avve­nire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica e propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che, solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo bru­tale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convenirli da occasione di vassal­laggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorìo di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni. L’ultimo esempio, il più vicino a noi e perciò meno diverso dal nostro, è quello della Rivoluzione francese. Il periodo anteriore culturale, detto dell’illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ra­gione teoretica, non fu affatto, o almeno non fu completamente quello sfarfallo di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti con pari imperturbabilità, che credevano di essere uomini del loro tempo solo dopo aver letto la Grande enciclopedia di D’Alembert e Diderot, non fu insom­ma solo un fenomeno di intellettualismo pedantesco ed arido, simile a quello che vediamo dinanzi ai nostri occhi, e che trova la sua maggiore esplicazione nelle Università popolari di infimo ordine. Fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l’Europa come una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese, sensibile in ogni sua parte ai dolori e alle disgrazie comuni e che era la preparazione mi­gliore per la rivolta sanguinosa poi verificatasi nella Francia. [...] Lo stesso fenomeno si ripete oggi per il socialismo. È attra­verso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Cri­tica vuol dire appunto quella coscienza dell’io che Novalis dava come fine alla cultura. Io che si oppone agli altri, che si diffe­renzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susse­guirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attra­verso se stessi.
Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarre da questo sapere.
[da il grido del popolo, 29 gennaio 1916]

b) La scuola di cultura
Il brano prende spunto dalla sperimentazione, fatta a Torino, di corsi di cultura e di propaganda socialista per i quali Granisci si era parti­colarmente battuto, in quanto lotta politica e consapevolezza culturale erano, per lui, inscindibilmente unite (dovete istruirvi, istruirvi e an­cora istruirvi perché ci sarà bisogno di tutta la vostra intelligenza: un suo incitamento sempre attuale).

Il primo corso della scuola di cultura e propaganda socialista ha avuto principio la settimana scorsa, con la prima lezione di teoria e la prima esercitazione pratica, e in modo che non ha mancato di riempirci di soddisfazione. Dal principio ci riteniamo autoriz­zati a nutrire le migliori speranze per l’esito. Perché negare che alcuni di noi dubitavano? Dubitavamo che, trovandoci appena una o due volte la settimana, stanchi ognuno del proprio lavoro, ci fosse impossibile trovare in tutti quella freschezza senza la quale le menti non possono comunicare, gli animi non posso­no aderire, e la scuola non può compiersi, come serie di atti educativi vissuti e sentiti in comune. Forse ci rendeva scettici l’esperienza delle scuole borghesi, la tediosa esperienza di allievi, l’esperienza dura di insegnanti: l’ambiente freddo, opaco ad ogni luce, resistente ad ogni sforzo di unificazione ideale, quei giova­ni uniti in quelle aule non dal desiderio di migliorarsi e di capire, ma dallo scopo, forse non detto, eppure chiaro e unico in tutti, di farsi avanti, di conquistarsi un «titolo», di collocare la pro­pria vanità e la propria pigrizia, di ingannar oggi se stessi e gli altri domani.
E abbiamo visto intorno a noi, affollati, stretti l’uno all’altro nei banchi scomodi e nello spazio angusto, questi allievi insoliti, per la maggior parte non più giovani, fuori quindi dell’età in cui l’apprendere è cosa semplice e naturale, tutti poi affaticati da una gior­nata di officina o di ufficio, seguire con l’attenzione più intensa il corso della lezione, sforzarsi di segnarlo sulla carta, far sentire in modo concreto che tra chi parla e chi ascolta si è stabilita una corrente vivace di intelligenza e di simpatia. Ciò non sarebbe pos­sibile se in questi operai il desiderio di apprendere non sorgesse da una concezione del mondo che la vita stessa ha loro insegnato e ch’essi sentono il bisogno di chiarire, per possederla completamente, per poterla pienamente attuare. È una unità che pree­siste e che l’insegnamento vuole rinsaldare, è una vivente unità che nelle scuole borghesi invano si cerca di creare. La nostra scuola è viva perché voi, operai, portate in essa la miglior parte di voi, quella che la fatica della officina non può fiaccare: la volontà di rendervi migliori. Tutta la superiorità della vostra classe in questo torbido e tempestoso momento, noi la vediamo espressa in questo desiderio che anima una parte sempre più grande di voi, desiderio di acquistar conoscenza, di diventare capaci, padroni del vostro pensiero e dell’azione vostra, artefici diretti della storia della vostra classe. [...]
[da l’ordine Nuovo, 20-XII-1919]

c) Studi « difficili »
Il brano pone un problema che centrale delle meditazioni di Gramsci - il rapporto fra intellettuali e lavoratori, il ruolo del­l’intellettuale nella società italiana del passato e del futuro - e si amplierà nelle pagine da lui dedicate al concetto di ‘nazional-popolare’.

[...] Sì, è vero, abbiamo pubblicato articoli «lunghi», studi «dif­ficili», e continueremo a farlo, ogni qualvolta ciò sarà richiesto dall’importanza e dalla gravita degli argomenti, ciò è nella linea del nostro programma: non vogliamo nascondere nessuna difficol­tà, crediamo bene che la classe lavoratrice acquisti fin d’ora co­scienza dell’estensione e della serietà dei compiti che le incomberanno domani, crediamo onesto trattare i lavoratori come uo­mini cui si parla apertamente, crudamente, delle cose che li ri­guardano. Purtroppo gli operai e i contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati dappertutto, in fabbrica e sul campo, dal pugno di ferro del pa­drone che li stringe alla nuca, nella vita politica dalla parola roboante e melliflua dei demagoghi incantatori. Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono ancora conside­rati dai più come una massa di negri che si può facilmente accontentare con della paccottiglia, con delle perle false e con dei fondi di bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le altre merci di valore. Non v’è nulla di più inumano e antisocialista di questa concezione. Se vi è nel mondo qualcosa che ha un valore per sé, tutti sono degni e capaci di goderne. Non vi sono né due verità, né due diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi più di una chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta «popolare», una sinfonia di Beethoven più di una canzone di Piedigrotta. E non vi è nessun motivo per cui, rivolgendosi a operai e contadini, trattando i proble­mi che li riguardano così da vicino come quelli dell’organizzazio­ne della loro comunità, si debba usare un tono minore, diverso da quello che a siffatti problemi si conviene. Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo, e il più grande passo in avanti sarà già fatto.
[da l’ordine Nuovo, 27-XII-1919]


d) La creazione di una nuova civiltà
Il brano affronta un problema in quegli anni assai vivo in Russia e che Gramsci sentiva particolarmente. Vale la pena notare il suo rifiuto di una visione de­terministica e la particolare accezione che dà al concetto di distruzione della presente forma di civiltà. È strano che nei futuristi egli vedesse i pionieri rivoluzionari e marxisti di quest’opera. Giudizio che due anni dopo avrebbe radical­mente modificato.

[...] La classe operaia rivoluzionaria aveva e ha la coscienza di do­ver fondare un nuovo Stato, di dover elaborare col suo tenace e pa­ziente lavoro una nuova struttura economica, di dover fondare «una nuova civiltà». È relativamente facile delineare, già fin d’og­gi, la configurazione del nuovo Stato e della nuova struttura economica. Si è persuasi che in questo campo, assolutamente pratico, per un certo periodo di tempo non si potrà far altro che esercitare un potere ferreo sull’organizzazione esistente, sull’organizzazione costruita dalla borghesia: da questa persuasione nasce lo stimolo alla lotta per la conquista del potere e nasce la formula con cui Lenin ha caratterizzato lo Stato operaio: «Lo Stato operaio non può essere, per un certo tempo, altro che uno Stato borghese senza la borghesia».
Il campo della lotta per la creazione di una nuova civiltà è invece assolutamente misterioso, assolutamente caratterizzato dall’imprevedibile e dall’impensato. Una fabbrica, passata dal potere capita­lista al potere operaio, continuerà a produrre le stesse cose mate­riali che oggi produce. Ma in qual modo e in quali forme nasce­ranno le opere di poesia, del dramma, del romanzo, della musica, della pittura, del costume, del linguaggio? Non è una fabbrica materiale quella che produce queste opere: essa non può essere riorganizzata da un potere operaio secondo un piano, non può esserne fissata la produzione per la soddisfazione di bisogni imme­diati controllabili e fissabili dalla statistica. In questo campo nulla è prevedibile che non sia questa ipotesi generale: esisterà una cultura (una civiltà) proletaria, totalmente diversa da quella bor­ghese; anche in questo campo verranno spezzate le distinzioni di classe, verrà spezzato il carrierismo borghese; esisterà una poesia, un romanzo, un teatro, un costume, una lingua, una pittura, una musica caratteristici della civiltà proletaria, fioritura e ornamento dell’organizzazione sociale proletaria. Cosa resta a fare? Niente altro che distruggere la presente forma di civiltà. In questo cam­po «distruggere» non ha lo stesso significato che nel campo eco­nomico: distruggere non significa privare l’umanità di prodotti materiali necessari alla sua sussistenza e al suo sviluppo; significa non aver paura delle novità e delle audacie, non aver paura dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone, se la gioventù fa tanto di naso alla senilità acca­demica e rimbambita. [...]
[da l’ordine Nuovo, 5-1-1921]

Giuseppe Prezzolini
Una «società degli Apoti»...

Tratto da una lettera indirizzata a Piero Gobetti e pubblicata su rivoluzione liberale, questo brano di Prezzolinj è una sintomatica testimonianza della parabola di tanta cul­tura italiana. Il Fascismo, nel quale sono confluiti velleità rivoluzio­narie, antiparlamentarismo, sogni imperialistici espliciti già nelle rivi­ste fiorentine, è alle soglie del potere: la cultura italiana non riesce ad esprimere una chiara linea operativa, derivata dalla consapevolezza di ciò che stava realmente accadendo nella società italiana: la ronda ignora la dimensione civile del letterato e punta esclusivamente sull’orticello letterario, Prezzolini per l’uomo di cul­tura non vede altra scelta che quella d’un superiore distacco, al di sopra della mischia. E propone la costi­tuzione di un gruppo di élite, la società di «coloro che non bevono» (apoto, dal greco apoteo = non bevo) tutto ciò che gli altri, il volgo, le folle sono disposti a mandar giù, a ingollare.
È il vecchio mito della cultura al di sopra delle parti, discutibile teoricamente sempre, esiziale per la vita di un paese in certi momenti storici.
Sembra si possa sostenere poi che nella sua larga attività e nella disinvoltura con la quale assumeva contrastanti posizioni, Prezzolini in realtà aveva sempre manifestato questa tendenza a guardare dall’al­to, ad avere eccessiva fiducia nei lumi che una minoranza di intel­lettuali poteva fornire, ad enfatizzare moralisticamente l’importanza del regno dello spirito. Sembra cioè che l’atteggiamento dell’apoto Prezzolini più o meno lo abbia avuto anche prima.

Nei momenti più gravi delle contese, mi pareva si dovesse acco­gliere, bene o male, l’appello di una parte e gettarsi nella mischia, pesando sulla palma della mano, per così dire, e non con la bilan­cia; pesando così all’ingrosso quel che ci poteva esser di buono e di cattivo senza troppi calcoli e scegliere; e fatta una volta la scelta, non ci pensare più sopra. Ma tutte le volte che questi dubbi mi hanno riempito lo spirito, ne sono uscito sempre sgombro e coll’orizzonte pulito. Il nostro compito, la nostra utilità, per il momento presente ed anche, nota bene, per le contese stesse, che ora dividono e operano, per il travaglio stesso nel quale si io prepara il mondo di domani, non può essere che quello al quale ci siamo messi, e cioè di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi futuri. A ognuno il suo lavoro. Vi è già tanta gente che parteggia! Non è niente di male per la società se un piccolo gruppo si apparta, per guardare e giudicare; e non pretende reggere o guidare, se non nel proprio dominio, che è dello spirito.
È fin troppo facile difendere la necessità di un lavoro di questo genere. Il momento che si traversa è talmente credulo, fanatico, partigiano, che un fermento di critica, un elemento di pensiero, un nucleo di gente che guardi sopra agli interessi, non può che fare del bene. Non vediamo tanti dei migliori accecati? Oggi tutto è accettato dalle folle: il documento falso, la leggenda grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza esame, a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale[2]. E quanti dei capi hanno per aperto programma la schiavitù dello spirito come rimedio agli stanchi, come rifugio ai disperati, come sana-tutto ai politici, come calmante agli esasperati. Noi potremmo chiamarci la Congregazione degli Apoti, di «coloro che non le bevono» tanto non solo l’abitudine ma la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque. [...]
A fare diversamente non mi pare (mi scusino i nostri compagni, e non la prendano per una offesa personale) che siamo capaci. La vita della politica attiva, alla quale il momento tragico ci chiamerebbe, ci costringerebbe per forza all’abbandono di quelle cau­tele dello spirito, di quelle abitudini di pulizia e di elevazione, di quelle regole di onestà intellettuale, che la generale grossolanità, violenza e mala fede rendono più che mai necessario mantenere. La vita politica non si fa se non accettando le condizioni che si trovano nel paese e nel tempo in cui vive; magari con l’intento di modificarle, di elevarle, di plasmarle poi; ma intanto bisogna ac­cettarle ed operare su esse e con esse. Io non posso, non voglio qui citare i tipici, caratteristici esempi delle persone che meglio riescono in questa attività in Italia, e dico in tutti i partiti, da tutte le cattedre, su ogni giornale, su ogni piazza. Da questo lato fascisti e comunisti, liberali e socialisti, popolari e democratici, appartengono ad un solo massimo comune denominatore, quello della media italianità attuale. I loro gesti e le loro gesta, le loro idee e le loro complicità, i loro silenzi e le loro grida, i loro programmi aperti e quelli taciti, i loro sistemi di lotta, non variano molto; e quello che gli uni fanno, gli altri magari lo rimprove­rano, ma lo farebbero se ne avessero la possibilità e segretamente lo invidiano, e se lo propongono per un’altra volta[3]. Io credo, caro Gobetti, che la nostra separazione non sia inutile e vana, e appunto quando il dubbio mi avrebbe spinto, mal volen­tieri, ma per dovere, a prendere parte, sempre mi sono risposto che la separazione non era senza resultato, anzi, aveva più effetto di quello che avrebbe la mia partecipazione diretta e personale al tumulto delle forze in gioco. Quel tumulto ci inghiottirebbe, senza adoprarci; fuori del tumulto noi possiamo aiutare le forze sane e dell’avvenire. Questa è la mia convinzione.
[da rivoluzione liberale, Anno I (1922), n. 28]

Piero Gobetti [4]
...o una «compagnia della morte»?
Ecco ora uno stralcio della risposta data da Piero Gobetti con l’ar­ticolo difendere la rivoluzione alla proposta avanzata da Prezzolini. È una pagina di lucida e disperata tensione morale: allo scettico di­simpegno vagheggiato da Prezzolini il giovane Gobetti oppone l’im­prescindibile necessità della lotta: ad una società degli apoti una com­pagnia della morte.
Tre sono i punti di forza di questa pagina:
a) la denunzia di quanto di romanticismo ingenuo, di illuministica fidu­cia nella élite ci fosse stata nella voce;
b) la teorizzazione di un atteggiamento alternativo fatto di realismo, di pessimismo magari, ma di pessimismo attivo;
c) la definizione del ruolo dell’intellettuale che non è l’ispirato profeta della rivoluzione, ma un compagno di strada che con la sua opera se­conda e difende l’ascesa delle classi proletarie.

Mio caro[5] Monti, mio caro Prezzolini, la Rivoluzione Liberale è felicissima di discutere con voi di «Congregazione degli Apoti» e di «Scuola libera». Ma quando dal problema particolare vo­stro, dall’idea concreta in cui esprimete una vostra esperienza, venite a teorizzare un programma e a porvi l’astrattissima domanda Che fare? allora dovete permettere che io vi interrompa anche a costo di parlare rudemente.
Noi non siamo dei disoccupati: noi sappiamo benissimo che fare. Sappiamo risolvere senza incertezze nel nostro spirito pra­tica e teoria. Non abbiamo fatto la guerra, ma l’abbiamo respirata nascendo, ne abbiamo imparato un realismo spregiudicato che liquida per sempre i romanticismi[6] dei precursori, di voi che siete ancora i nostri compagni, i nostri fratelli maggiori, ma terri­bilmente malati della vostra stessa precocità. Noi amiamo troppo La Voce vera, per non saperci distinguere e per non saper rinnegare i sogni ingenui della Voce, che furono belli e fecondi, non per sé, ma come illusioni suscitatrici di risultati, e che oggi sono inutili, e segno di un’inquietudine malsana. Non già che si sia diventati saggi e composti, o che abbiamo rinunciato a fabbricare nuovi mondi, ma sappiamo di doverli costruire con disperata rassegnazione, con un entusiasmo piuttosto cinico che espansivo, quasi con freddezza perché ci giudichiamo inesorabilmente la­vorando, e conosciamo benissimo i nostri errori prima di com­pierli e li facciamo deliberatamente, di proposito, sapendone la fatale necessità. Costituendoci ogni istante l’oggetto nuovo della nuova fede: abbiamo imparato l’ineluttabilità e insieme l’inutilità della fede. Disprezziamo i facili ottimismi e i facili scetticismi: ci sappiamo distaccare da noi stessi e interessarci all’autobiografia come a un problema[7]. L’azione diventa dunque una necessità di armonia: noi abbiamo una sola sicurezza: la responsabilità, e un solo fanatismo: la coerenza. Preferiamo Cattaneo a Gioberti; Marx a Mazzini. Siamo estranei allo spirito del Vangelo; Cristo non ci ha insegnato nulla: se non il sacrificio; ma noi vogliamo un sacrificio più disinteressato (dite pure, se vi pare, più inutile) senza speranze. Ci sentiamo più vicini alla disperazione del Vecchio Testamento; la sicurezza di esser condannati, la crudeltà ine­sorabile del peccato originale, volendo usare forme mitiche di espressione, è la sola che ci possa dare l’entusiasmo dell’azione, con la responsabilità, con il disinteresse. La nostra volontà è se­rena, la nostra moralità necessaria perché non abbiamo più bisogno di Messia[8]. Tutto è crudelmente uguale, ma perché la tra­gedia sia perfetta bisogna pure che ci sia chi si sacrifica, chi inse­gue, con arido amore, il suo ideale etico. Voi capite che qui al posto del dilettantismo e dell’ingenuità incantata e del propagandismo noi abbiamo messo il pessimismo dell’organicità; non siamo più degli eroi, fosse pure con la malizia ottimistica di Don Chisciotte.
Quando ci si incomincia a chiedere: che fare? bisogna proprio con­vincersi che si è in quella posizione di disoccupati, astratta, fram­mentaria, immorale, umanistica, che definisce l’intellettuale in Italia e presto o tardi bisognerà andarsi a ritrovare in qualche garibaldinismo, o legionarismo, o fascismo. [...]
Ecco il punto: bisogna smetterla con le inquietudini e le conclu­sioni ed enunciare delle premesse, invece che dei programmi. Sia­mo rivoluzionari in quanto creiamo le condizioni obiettive che, incontrandosi con l’ascesa delle classi proletarie, indicataci dalla storia, genereranno la civiltà nuova, il nuovo Stato: ma non per­ché ci mettiamo a bandire la rivoluzione, a darne il segno in un articolo di giornale o in un discorso alle masse: anzi la nostra posizione è cosi delicata e curiosa che noi ci guardiamo bene dal parlare alle masse, temendo che per esse le nostre parole diven­tino una rivelazione illuministica dall’alto che ne interrompa il salire autonomo[9].
Potremo formare la Congregazione degli Apoti? È una proposta che non sappiamo respingere, ma nemmeno accettare senza diffidenza. Bisognerebbe prima che Prezzolini ci dicesse bene che cosa vuole: noi non abbiamo nessuna smania di costituirci in or­dine chiuso anzi vogliamo essere più aperti che mai e l’inventario si farà tra cent’anni; i frutti li raccoglieranno gli altri e saranno diversi per fortuna da quelli che oggi speriamo. L’ordine chiuso[10] per noi sarebbe una posizione di difesa: la po­tremo assumere, ma in un caso specifico, in una necessità con­creta. Per esempio, di fronte al fascismo[11]. Mentre assistiamo alle più vigliacche dedizioni degli intellettuali ai fasci noi non ci siamo mai sentiti tanto ferocemente nemici di questa intellettualità delinquente, di questa classe bastarda, bollata così definitiva­mente da Marx e da Sorel e in Russia dai bolscevichi. Sapremo mostrare come ci distinguiamo da questi parassiti anche a costo di ricorrere a una tattica anarchica di insurrezionismo armato, se pure il fascismo non si risolverà allegramente in una palingenesi ottimistica di democrazia e di riformismo. Di fronte a un fasci­smo che con l’abolizione della libertà di voto e di stampa volesse soffocare i germi della nostra azione formeremo bene, non la Congregazione degli Apoti, ma la compagnia della morte. Non per fare la rivoluzione, ma per difendere la rivoluzione[12].

[da rivoluzione liberale, Anno I (1922), n. 31]

Elogio della ghigliottina
Dopo la marcia su Roma, Gobetti intensifica ancora di più la sua opposizione.
La denunzia della vera natura e dell’itinerario obbligato del fascismo è chiara: «legato alle aristocrazie industriali Mussolini anche in perfetta buona fede potrà dire di no a dieci, ma finirà per concedere a venti i favori della protezione dello Stato».
È altrettanto chiara la strada da seguire con disperata intransigenza: «non pos­siamo star neutrali, non possiamo rimanere in benevola attesa, nean­che un istante... Abbiamo sempre saputo di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione. Oggi dobbiamo continuare il nostro lavoro senza più pen­sare a scadenze, senza speranze. Non ci hanno esiliati. Ma restiamo esuli in patria... Prepariamo i quadri, prepariamo le correnti ideali... Per noi il problema è tutto qui: di riuscire ad essere i nuovi illumini­sti di un nuovo ‘89 ».
È questa la tensione etico-politica da cui nasce l’articolo, riprodotto quasi per intero. Mentre tanta parte, magari rispet­tabile, della cultura italiana, si illudeva sul ruolo del fascismo, questo giovane ventunenne individuava in esso l’autobiografia della nazione, la oggettivazione di mali vecchi (la faci­loneria, gli entusiasmi infantilistici, il dannunzianesimo) e chiedeva la radicalizzazione della lotta, le persecuzioni personali, perché «nel sacri­ficio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso». Sono pagine la cui altezza può trovare degno riscontro soltanto in quelle della nostra più luminosa letteratura risorgimentale (A. Gianni).

Il nostro antifascismo non è l’adesione a un’ideologia, ma qual­cosa di più ampio, così connaturale con noi che potremmo dirlo fisiologicamente innato. Non so come i gentiliani[13] potranno in­tendere questa che ci pare addirittura una questione di istinto. Se il nuovo si può riportare utilmente a schemi e ad approssimazioni antichi, il nostro vorrebbe essere un pessimismo sul serio, un pessimismo da Vecchio Testamento senza palingenesi, non il pessimismo vile e letterario dei cristiani che si potrebbe definire la delusione di un ottimista. Amici miei, la lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diffidare delle conversioni, e credere più alla storia che al progresso[14], concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi. C’è un solo valore incrol­labile al mondo: l’intransigenza e noi ne saremmo per un certo senso i disperati sacerdoti. [...]
Il fascismo in Italia è una catastrofe, è un’indicazione di infan­zia decisiva, perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo. Si può ragionare del Ministero Mussolini come di un fatto d’ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi[15]; che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco. Confessiamo di aver sperato che la lotta tra fascisti e social-comunisti dovesse continuare senza posa: e pensammo nel set­tembre del 1920 e pubblicammo nel febbraio scorso la Rivoluzione Liberale con un senso di gioia, per salutare auguralmente una lotta politica che attraverso tante corruzioni, corrotta essa stessa, pur nasceva. In Italia, c’era della gente che si faceva ammazzare per un’idea, per un interesse, per una malattia di retorica! Ma già scorgevamo i segni della stanchezza, i sospiri alla pace. È difficile capire che la vita è tragica, che il suicidio è più una pratica quotidiana che una misura di eccezione. In Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie. Lo sapevamo: e se non lo avessimo saputo ce lo avrebbe insegnato Giolitti[16]. Mus­solini non è dunque nulla di nuovo: ma con Mussolini ci si offre la prova sperimentale dell’unanimità, ci si attesta l’inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie. Abbiamo astu­zie sufficienti per prevedere che tra sei mesi molti si saranno stancati del duce: ma certe ore di ebbrezza valgono per confes­sione e la palingenesi fascista ci ha attestato inesorabilmente l’impudenza della nostra impotenza. A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio. [...]
Né Mussolini né Vittorio Emanuele Savoia hanno virtù di pa­droni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi. È doloroso per chi lavora da anni dover pensare con nostalgia all’illuminismo libertario e alle congiure. Eppure, siamo sinceri sino in fondo, io ho atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali per­ché dalle nostre sofferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacri­ficio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso. [...]
C’è stato in noi, nel nostro opporsi cieco, qualcosa di donchisciot­tesco. Ma nessuno ha riso perché ci si sentiva una disperata reli­giosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo. E bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può valorizzare il regime; si può cercare di ottenerne tutti i frutti: chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa, veder chiaro.
[da rivoluzione liberale, Anno I (1922), n. 34


L’ascesa del Fascismo
Rievocando nel suo romanzo un momento della storia passata - le lotte dei braccianti del Molise troncate dal Fascismo, al servizio della reazione agraria – Jovine, ne Le terre del Sacramento[17] si impegna nella rappresentazione di una realtà storica che riguardava il passato, ma aveva chiare implicazioni e permetteva illuminanti raffronti con la storia presente. Il romanzo, quindi, si gioca su questa duplice dimensione, di storia e di cronaca, di ricognizione del recente passato che illumina però la realtà del meridione dell’immediato dopoguerra.
L’arrivo delle camice nere è rappresentato nei brani ‘La violenza di quattro mocciosi’,’Una bastonatura delle camicie nere’
Il Fascismo si affermò molto fortemente nelle grandi città, come a Napoli. Nel romanzo viene citato anche l’evento chiave del Fascismo, ossia la marcia su Roma avvenuta il 28 ottobre 1922. Jovine attraverso le pagine del suo romanzo ci racconta i preparativi al grande evento. È emblematico, in tal senso, il brano ‘I fascisti sul treno per Roma’.
Jovine rappresenta, con esemplare sobrietà, questo groviglio di atteggiamenti: nell’atteggiamento di Arduino c’è la logica elementare del cafone, senza neppure derisione per la superstizione rassegnata di Immacolata Marano. Lo scrittore sa che anche queste sono componenti essenziali di quella realtà scelta come oggetto di rappresentazione.
Raramente il neorealismo italiano è riuscito ad avere questo equilibrio e questa misura.
L’aspetto rilevante della svolta fascista fu l’avvio di una violenza sistematica i cui obiettivi primari erano i sindacati, le camere del lavoro, le leghe contadine, oltre, naturalmente, alle sedi e all’esistenza stessa dei partiti che al Fascismo si opponevano, e che erano in primo luogo i partiti della sinistra.

a) La violenza di quattro mocciosi
Le camicie nere, composte per la maggior parte dagli stessi giovani del paese, intervengono per reprimere associazioni di altro genere politico.
Clelia, udì un vociare confuso di persone ed accorse alla finestra da cui vide un gruppo di operai in assemblea.
Ad un tratto, dal vicolo delle Cese, si affaccia un gruppo di camicie nere che scagliano sassi sul raduno dei socialisti in piazza. L’assemblea si sciolse e fortunatamente non ci fu una zuffa, ma solo tanta rabbia da parte dei socialisti che continuavano ad imprecare contro quel branco di mocciosi.
Questo episodio, però, è solo l’inizio di una serie di violenze che il Fascismo attuerà nei confronti di chi ne ostacola l’espansione.

Clelia non riusciva a capire che cosa stesse succedendo, ma dopo qualche attimo, prima che facesse in tempo a ritirarsi, vide apparire Enrico nel quadro della porta.
Viso acceso, testa bassa e tesa come d’un toro che si prepari a battere furiosamente un invisibile ostacolo. Enrico la vide; si arrestò un momento, poi riprese a camminare facendo con la mano un incomprensibile gesto che poteva essere di disperazione e di minaccia insieme. La casa rimase per qualche ora silenziosa. Enrico era uscito; Laura rimaneva chiusa in camera e nessuno avrebbe osato, senza essere chiamato, di picchiare al suo uscio. Nella camera dei ragazzi ci fu, a un tratto, il pianto stizzoso di Masino. Il bambino uscì dalla stanza frignando e stropicciandosi gli occhi. Sua madre gli corse dietro per tentare di trattenerlo. Diceva:
- Che gli hanno fatto, cuore di mamma sua, che gli hanno fatto.
Ma il bimbo si sottrasse all’abbraccio tempestando di pugni il petto della madre. Riuscì a liberarsi e si mise a correre attraverso il corridoio, verso l’appartamento della zia. Clelia lo seguì fino alla biblioteca; il bambino arrivato all’uscio dell’appartamento picchiò due colpi con i piedi. L’uscio si schiuse e il bambino entrò.
Più tardi Clelia udì, dall’interno, il riso di Laura e quello del bimbo.
Verso sera Enrico rientrò più eccitato che mai. Non appena fu giunto alla sommità della scala, dalla piazzetta antistante al palazzo Cannavale, si udì un vociare confuso e grida di evviva.
Clelia accorse, andò a una finestra, la dischiuse per guardare. Alle incerte luci delle lampade vide un gruppo di operai che urlavano e battevano le mani. All’improvviso, dal vicolo delle Cese che sboccava sulla piazzetta, vide affacciarsi un gruppo di giovani in camicia nera che fecero piovere sull’assembramento una gragnuola di sassi. Il gruppo di operai ebbe un attimo di perplessità, poi si divise. Ripararono nei vani delle porte. Ma dal vicolo delle Sponte, che era a sud della piazza, partirono altri sassi e altre grida. Dal vano di un portone uscì Pasquale Ficetra zoppicando; aveva in mano un trincetto. Disse: - Sono quattro mocciosi figli di puttana. Venite con me. Se non usciamo da quella parte, ci fregano, - e incominciò ad arrancare per la salita verso il vicolo delle Cese, seguito dai compagni che avevano messo mano al coltello.
I ragazzi, quando li videro avanzare decisi, incuranti delle sassate, si misero a correre verso il centro della città.
Il tumulto si era appena calmato quando arrivò Barberi.
- Non temo nessuno. Non mi fanno paura. Non mi fa paura questa banda di cretini e di violenti.
- Non ti capiscono, non possono capirti, - rispose Barberi con accento d’intensa sincerità.
- Il mondo è fatto di bestie, Barberi. Ero stato alla Società Operaia a parlare della libertà dell’individuo. Ho detto: «Ogni uomo è un dio che comincia. Chiunque si azzarda a negare questa intrinseca divinità dell’uomo vuole instaurare una tirannide. Si divinizzano alcuni uomini, o un uomo solo, sottraendo una parte di dignità ai propri simili. Da questa sottrazione nascono tutte le idolatrie». Pareva che avessero capito, ma poi si è alzato uno e ha detto che era il momento di organizzarsi per la lotta -. Si arrestò un momento e poi aggiunse con irruenza: - Capisci, vogliono organizzarsi. In fondo non aspirano che a diventare mani polo, truppa.
- Succedono delle cose, - disse timidamente Barberi, - delle cose tragiche. Ci sono dei morti, ogni tanto, per le strade. Non qui, naturalmente. Ma anche qui c’è la fame; l’inverno è duro.
- Io ho dato ordine di non riscuotere le pigioni di Terra Vecchia.
- Certo, l’ho sempre pensato. Tu fai quello che puoi, ma può bastare, questo?
- Non basta. Ma la miseria è una giustificazione sufficiente per rinnegare l’umanità che è in noi? Immagina una società progredita, che bandisca il verbo dell’eguaglianza e della libertà ma non si preoccupi degli individui da rendere uguali.
Una unione egualitaria di bruti non potrà creare che una società brutale.
Enrico parlava e camminava rapido, concitato, agitando le braccia.
Barberi piccolo, squallido, seduto sull’orlo d’una poltrona si tormentava con le magre dita i baffi grigi. Ma, mentre il suo amico continuava a eruttare un fiume di parole, si alzò in piedi di scatto e disse:
- Vento, vento; nuvole. Tu proponi il volo a chi ti chiede d’insegnargli a camminare. Tutto il mondo è pieno di nuvole e di vento -. Aveva preso a furia il cappello e si preparava ad andarsene continuando tra sé un confuso veemente discorso. Enrico si era arrestato di netto e lo guardava con dolorosa sorpresa.

b) Le bastonature delle camicie nere
In questo brano, l’avvocato ha appena sciolto la sua consueta riunione dei socialisti e sta tornando a casa con il suo caro amico Berberi. I due vengono accerchiati da un numeroso gruppo di camicie nere che si avvinghiano sull’avvocato e lo malmenano. La violenza continua per interminabili minuti, fino all’intervento dei carabinieri che fa dileguare gli aggressori. I due vengono caricati su una barella e portati in infermeria dove saranno successivamente curati, ma i segni della lite resteranno indelebili sull’avvocato Cannavale che, da quell’episodio, resterà in uno stato di perenne infermità mentale.

C’erano, in luoghi lontani, tribunali segreti che emettevano giudizi sommari e irrevocabili. I giudicati non rivedevano mai la luce del sole. Ma dappertutto sorgevano squadre di giovani purissimi che avevano già dato il loro sangue per la bandiera tricolore, che lo avrebbero dato ancora perché risorgessero i morti. E non solo i morti recenti, ma anche quelli seppelliti duemila anni prima; gli eroi che avevano dettato le leggi al mondo e avevano portato il nome di Roma ai quattro angoli dell’universo.
Gli studenti liceali di Galena, alcuni delle Università, accompagnati da barbieri disoccupati, da qualche ufficiale in congedo, senza impiego, percorrevano la città, a branchi, per scovare i nemici di quella grandezza. Tutti avevano una incontenibile voglia di rompere, di fracassare, di aprire le porte chiuse delle donne, abbandonare le aule, diventare tripudianti, feroci, felici.
Giancarlo Pistalli, l’arcangelo fidanzato con la signorina Già Jannaccone, la domenica parlava in piazza e affermava che incominciava a essere tardi per partecipare alla grande riscossa. Galena dormiva, Galena si doveva svegliare e tutti trovavano che Galena doveva svegliarsi.
Don Benedetto Ciampitti partecipava assiduamente alle riunioni. A un tratto, tra la folla si udiva la sua potente voce cavernosa, che lanciava un grido, un motto, e suscitava una tempesta di fischi o di applausi. Dopo la riunione don Benedetto si trascinava dietro, fino a casa, un codazzo di giovani, li faceva entrare in una grande stanza a terreno, poi si faceva all’imboccatura della scalinata e chiamava a gran voce Leopoldo. Leopoldo accorreva, seguito da Maria Rosa e portava vino, salame, pane per quell’improvviso festino alla valorosa gioventù di Galena.
Don Benedetto mangiava, beveva con i ragazzi, si divertiva a scoprire i loro furtarelli, a costringere qualcuno dei più discreti e timidi a bere smodatamente. Poi montava su una seggiola e faceva un discorso. Di solito, la sua orazione era scritta: venti o trenta fogli coperti da una grande scrittura pesante, lunga, con i tagli delle consonanti che sembravano vigorosi colpi di pennello. Leggeva, gesticolava, volgeva gli occhi al cielo, recitava con voce piangente i brani più patetici, rideva per quelli che gli parevano umoristici. I ragazzi mangiavano, bevevano, berciavano, gli battevano le mani. Qualche volta improvvisava riprendendo i temi dell’oratore ascoltato in piazza e diceva:
- Sono convinto che si farà una rivoluzione definitiva, quella che metterà fine a tutte le rivoluzioni. Il mondo ha bisogno di silenzio e di immobilità. Che cos’è il paradiso, signori miei? Inerzia e contemplazione. Qual è il dovere del buon cristiano? Tendere al paradiso; dunque procurarsi l’immobilità. Battetevi perché il mondo si fermi e inaugurerete il paradiso in terra. Io mi domando ancora: che cos’è il paradiso? Gerarchia. Senza gerarchie non c’è felicità. Battetevi per le gerarchie.
Finito il suo discorso ordinava a Leopoldo che lo ascoltava, con un sorriso malvagio sulla bocca sdentata, di portar via tutto.
Di fronte alle proteste degli studenti il viso di don Benedetto si faceva tetro. Pareva che sulla faccia gioviale fosse all’improvviso calata una grande tristezza. Guardava il suo uditorio e si allontanava rinculando a piccoli passi. Faceva malinconici gesti di addio con la mano tesa, come se stesse imbarcandosi per un lontanissimo viaggio.
Ma un giorno, quando Giancarlo Pistalli gli chiese in affitto dei locali terreni al vicolo dei Fornaciari, mostrò di comprendere pienamente le ragioni che inducevano l’avvocato a organizzare il fascio a Galena. Disse che le idee espresse dal capo del movimento corrispondevano alle sue, e si rifiutò di accettare un compenso per la cessione dei locali.
Dopo l’inaugurazione della sezione dei fasci di combattimento, le riunioni, i tumulti divennero più frequenti a Galena. Incominciarono ad arrivare anche oratori forestieri. Gli avvenimenti lontani della grande lotta che insanguinava il paese furono narrati con particolari che non apparivano sui giornali. Le notizie si dilatavano, giganteggiavano; venivano deformate da’ una fantasia corale che si alimentava delle sue stesse favole. Pareva che a sud verso i paesi e le città della Piana ci fosse una cintura di ferro e di fuoco, che falangi sempre più folte di giovani cercavano di contenere perché non rimontasse fino a Galena. Gli oratori parlavano anche di nemici interni, di serpi nascosti nel seno che minavano segretamente la vita della città, che facevano parte della grande congiura; quella che da anni tentava di far precipitare nell’abisso la patria.
Il linguaggio degli oratori era sibillino, contraddittorio. Alcuni parlavano di sfruttatori del popolo, forse alludendo agli amministratori della città, altri di anarchia sanguinaria che preparava colpi proditori per offuscare l’antica fama di civilissima e fedele città che Galena si era conquistata nei secoli.
Un giorno, mentre si stava svolgendo una di queste riunioni, era un dolce tiepido pomeriggio di aprile, Enrico Cannavale spuntò da un vicolo sulla piazza della Fraterna accompagnato da Raimondo Barberi. Udirono il vociare, i battimani, gli evviva, le grida guerriere.
- Che succede? - chiese Enrico a Barberi.
- I soliti eroi, - rispose Raimondo. E aggiunse: - Forse faremmo bene a evitarli.
Esitò un istante, e disse:
- Io non sopporto certe scene.
Enrico non gli rispose. Continuò a camminare chiuso nei suoi pensieri.
Il professore si arrestò un attimo, si diede un’assestatina al bavero della giacca e riprese il cammino con ostentata fierezza. Qui si udì all’improvviso, tra l’adunata dei fascisti, un raddoppiarsi rabbioso delle grida. Ci fu un disordinato movimento al centro del gruppo. Poi, sulla scia di un manipolo di gente che tentava di farsi largo, tutti operarono un rapido movimento di convergenza verso Enrico e il professor Barberi. Una voce gridò:
- Eccoli!
Il coro rispose:
- Purga!
Barberi continuava a camminare volgendo inquieto gli occhi a destra e a sinistra come se cercasse una via di scampo. Ma quando si accorse che erano circondati da una turba di giovani urlanti, che brandivano minacciosamente i loro manganelli, si fermò di scatto e si volse a guardare il suo amico. Enrico si era ridestato dal suo torpore; aveva le pupille brillanti e i pomelli accesi; le vene del collo gli erano diventate turgide come se stessero per esplodere. Chiuse i pugni e li tese, con atto furente, sulla folla che gli stava dintorno.
- Via di qui, farabutti.
Ma un colpo di bastone gli cadde sulla testa violentissimo. Enrico diede un urlo e si portò le mani alla nuca. Poi cadde, di schianto, a terra. Barberi, udendo il grido dell’amico, fece un balzo fulmineo, abbracciò stretto l’uomo che gli era più vicino e gli affondò crudelmente i denti nella mano che reggeva il manganello. Se ne impadronì, resistette ai primi colpi che gli caddero sulle spalle, si volse di scatto e avventò botte all’impazzata a destra e a sinistra. Gli erano caduti gli occhiali, aveva perduto il cappello, la folta zazzera grigia gli velava gli occhi miopi. Vedeva agitarsi intorno a lui corpi di uomini frenetici che tentavano di raggiungerlo con le loro percosse. Barberi schivava i colpi con un’agilità di gatto impermalito. Urlava, bestemmiava, insultava. Poi una gragnuola di pugni, di bastonate lo raggiunse sulla testa, sulle spalle e lo fece cadere tramortito accanto al suo compagno. Sui due caduti ci fu un groviglio di teste, di braccia. Ai margini dell’assembramento la gente spingeva urlando furibonda, impaziente di partecipare alla mischia. Poi, tra il parapiglia si elevarono delle grida più acute e si udirono sibili di fischietti metallici. Una voce disse:
- Via! i carabinieri!
Il groviglio si sciolse, la folla diradò ai margini. Quelli che erano al centro scantonarono a passo veloce nei vicoli. In qualche attimo la piazza fu deserta. I carabinieri si avvicinarono ai due caduti per sollevarli; alcune donne che avevano assistito alla scena dalla finestra, accorsero affannate, lacrimanti. Dopo qualche istante arrivò il dottor Bulgarella il quale disse:
- Con cautela, mi raccomando. Portateli in farmacia.
Enrico e Raimondo, privi di sensi, furono sollevati dai militi, da Dentice e due sergenti del distaccamento che erano accorsi. Una donna, guardandoli e vedendo il viso imbrattato di sangue, gli occhi chiusi dei due feriti, si fece il segno della croce e disse:
- Sono morti. Signore, aiutaci!
In farmacia l’avvocato e il professore furono adagiati su due poltrone che erano nel retrobottega. Il dottor Bulgarella si chinò prima sul petto di Enrico, poi su quello di Barberi. Disse rivolto al farmacista:
- Bende; canfora.
Enrico rientrò a casa su una barella, con la testa chiusa in un casco di bende. Clelia era nel cortile con gli occhi dilatati dallo spavento. Dietro i portatori c’era un codazzo di gente. Il presidente, che aveva udito le voci, il calpestio dei passi, aveva levato la testa dal libro, allarmato. Giorgina, chiamata da Elettra, si era mossa basendo, mugolando, portandosi le mani al cuore. Il presidente si fece all’uscio, attraversò la prima stanza, arrivò nel corridoio e vide in un angolo le bambine che singhiozzavano abbracciate. Gianfilippo gli passò accanto come un puledro impazzito. Il vecchio si diresse con il suo passo lento, leggermente stecchito, verso il luogo da cui provenivano i pianti, il calpestio, il vociare sommesso. Arrivato ai limiti del corridoio di destra il suo passo divenne ancora più esitante. Procedeva cautamente appoggiandosi al muro come se un pericolo certo lo sovrastasse via via che si avvicinava al ballatoio. Si fermò, si mise la mano sull’orecchio destro a conchiglia, concentrò tutta la sua attenzione. Poi scosse la testa come se, avendo compreso esattamente l’accaduto, fosse incerto sul partito al quale appigliarsi.
L’avvocato Colonna che il presidente non riconobbe, gli disse:
- Il vostro illuminato parere, presidente. Come si può parlare di provocazione a proposito di due onorati cittadini? È un modo di sfuggire a responsabilità precise. Ho già chiesto un’udienza al procuratore del Re.
Il presidente lo fece finire, poi gli strinse calorosamente la mano e continuò a farsi strada fra la gente che affollava l’anticamera. L’avvocato Colonna tentava di raggiungerlo, insinuando la sua pancetta assestata ed energica in mezzo alla siepe dei corpi. Il presidente se lo ritrovò alle spalle, si sentì prendere per un braccio, si volse di scatto:
- Bisogna che voi interveniate, - disse con foga l’avvocato.
- Occorre telegrafare al Ministero. Autorizzatemi. Lo farò io stesso a vostro nome.
Il presidente lo guardò fisso, e poi all’improvviso, come se si ridestasse da un sogno, disse precipitosamente:
- Ma che è stato?
- Voi non sapete nulla, nulla, - esclamò piagnucolando l’avvocato Colonna. - Non vi hanno avvertito, ed era il primo dovere. Lo hanno aggredito i soliti facinorosi.
- Ho capito, - fece il presidente e lo lasciò di nuovo.
Voltò a destra, aprì una porta ed entrò nella stanza attigua alla biblioteca. Appena entrato levò le mani in alto, e incominciò a gridare:
- Era il compagno di Titta. Era il compagno di Titta!
Camminava velocemente per la stanza, continuando a gridare quella sua frase dolente. L’avvocato Colonna lo raggiunse:
- Presidente, ci sono i carabinieri. Vogliono interrogare il ferito. Ma le sue condizioni non lo permettono.
Il presidente non lo ascoltava. Continuava a passeggiare per la stanza e a gridare confuse interiezioni verso invisibili interlocutori.
Mentre l’avvocato tentava invano di farsi ascoltare dal presidente, comparve Linda, che aveva per mano Masino.
- Avvocato, bisognerebbe avvertire la signora.
L’avvocato Colonna s’era messo le mani nei capelli e diceva:
- Ma non è stato ancora fatto, santo Dio! Io credevo che qualcuno avesse già provveduto.
- Impossibile. Soltanto io e don Enrico conosciamo il suo indirizzo.
- Ma allora pensateci voi. Pensateci voi.
La ragazza gli indicò il piccolo che gli stava cucito alle sottane e piagnucolava.
- Oggi è impossibile levarmelo dattorno.
Nelle stanze accanto il tramestio si era attenuato. I carabinieri avevano avuto l’ordine di far sgombrare. Si rifece finalmente il silenzio. Il ferito aveva ripreso i sensi e si guardava intorno spaurito.
Clelia, quando rimase sola con Enrico, gli mise una mano sulla fronte con gesto materno e lo guardava accorata, coi suoi occhi fedeli. Quando Enrico poté parlare chiese:
- Come sta Barberi?
- Non è grave. L’hanno portato a casa sua.
- Bisognerebbe mandargli del danaro.
- Ci penso io, - disse Clelia. - Adesso cerca di calmarti.
La voce di Enrico era bassa. La sua balbuzie si era accentuata. Le mani stese sulle coperte tremavano.
Laura era a Napoli da una settimana. Il telegramma di Linda la raggiunse un pomeriggio nell’atrio dell’Albergo Excelsior, mentre stava prendendo il té con il duca di Pietracatella. Laura non riceveva che raramente telegrammi o lettere da Galena; quell’inatteso messaggio le diede, immediatamente, l’impressione che fosse successo qualcosa di grave. Il duca la guardava tacendo; poi, quando vide che Laura aveva richiuso il telegramma e se l’era cacciato in tasca, disse:
- Mi posso permettere?
- Naturalmente.
- Cattive notizie?
- Sì, cattive; mio marito è stato ferito.
- Come ferito?
- In un tafferuglio. Credo con dei fascisti. Non ho precise notizie. Il telegramma è breve, parla di facinorosi. Partirò domani mattina. Intanto, se permettete, chiederò notizie con un telegramma urgente.
- Penso io, - fece premurosamente il duca. - Dammi l’indirizzo.
Laura tirò frettolosamente dalla sua borsetta un taccuino, scrisse l’indirizzo di Linda e lo consegnò al duca che si allontanò.
Tornò dopo qualche istante.
- Fatto, - disse rimettendosi a sedere.

c) I fascisti sul treno per Roma
Il brano racconta del ritorno a casa di Luca Marano, il quale, mentre si trova sul treno diretto in Molise, vedeva radunati nelle piazze gruppetti di camicie nere che attendevano il treno diretto a Napoli dove avrebbero organizzato la vera e propria marcia. Intanto per le strade di Napoli la gente si unisce alle camicie nere e sfila per le strade tumultuosamente, persino i ragazzetti, lasciate le lezioni si uniscono all’immensa folla che occupava tutta via Toledo ed il rettifilo. Ai muri c’erano dei manifesti tricolore che traducevano in termini più chiari quello che la gente urlava a squarciagola. L’ora della grande marcia era ormai imminente.
Ma nonostante questo brano sia dedicato ai preparativi della marcia su Roma, Jovine, nella parte finale si abbandona ad una descrizione impressionante del degrado napoletano. Nelle ultime tre righe, con una potenza descrittiva impressionante, l’autore ci mostra le case malconce che quasi crollano nei vicoli napoletani, mentre le persone sono per la strada a porre disperatamente le proprie speranze in un nuovo governo: “Napoli sotto l’acqua si disfaceva. La luce fredda della giornata di autunno mostrava il profilo delle case contorte, provvisorie; mura reggenti penosamente il carico dei tetti che parevano pronte a piegarsi per colmare i vicoli di macerie”.


Dopo due giorni Luca era in treno, diretto a Morutri. Era di pomeriggio avanzato; pioveva fitto: una pioggia minuta, bavosa e tiepida. L’interno della vettura di terza classe era gremito di contadini, di operai carichi di fagotti che parlavano i dialetti cantanti del sud. Gente che andava nei paesi della Piana o tornava ai suoi luoghi nelle province montuose.
Il treno si fermava a tutte le stazioni; nella penombra del crepuscolo, Luca vedeva sui piazzali delle stazionane gruppi di giovani in camicia nera che attendevano il treno che li portasse verso Napoli. Durante la mattina aveva visto le squadre percorrere le vie del centro cantando e gridando nell’aria fosca della giornata autunnale. Erano parole violente; voci che annunziavano una futura gioia o una gloria grandissima. I giovani in camicia nera che alzavano le mani nel ciclo grigio, incitavano la gente a gridare con loro, a partecipare alle loro speranze. Andavano a Roma. Il Capo, qualche giorno prima, aveva proclamato Napoli Regina del Mediterraneo, e le aveva promesso prosperità, pane, vino, gioia; il riscatto fulmineo di secoli di abiezione. Ai muri c’erano dei manifesti tricolori che traducevano in termini più chiari le ragioni delle grida; manifesti che la pioggia aveva immollati, macchiandoli con la lebbra dell’intonaco fradicio di acqua.
Tra Toledo e il Rettifilo, per qualche ora erano passati gruppi incalzanti di camicie nere, seguiti da cortei di uomini in borghese, dai ragazzi delle scuole che, lasciate le lezioni, tentavano di fare tumultuosa e imponente la gazzarra. Nei vicoli che costeggiavano Toledo, in quelli dei «quartieri», la gente era stata costretta dalla pioggia a rientrare nelle case. I venditori avevano portato nell’interno dei bassi le loro povere mercanzie, le carni cotte nelle pentole ingrommate di fuliggine, il pesce fritto nell’olio rancido, le frutta che marcivano accumulate sulle panche, coperte da un panno sudicio. Nelle stanze che si aprivano sulla strada si vedevano nello spazio brevissimo tra le materasse accumulate alle pareti, cassapanche sgangherate, giacigli pieni di paglia putrida; gli abitanti rimanevano in piedi a guardare la pioggia che scrosciava tra le immondizie della strada.
Sulle pareti l’acqua s’infiltrava insidiosamente, disegnando dei bizzarri geroglifici che coronavano le immagini colorate dei santi. Napoli sotto l’acqua si disfaceva. La luce fredda della giornata di autunno mostrava il profilo delle case contorte, provvisorie; mura reggenti penosamente il carico dei tetti che parevano pronte a piegarsi per colmare i vicoli di macerie.
La notizia della «grande marcia» non era arrivata ai «quartieri», e Luca aveva l’impressione che quelle grida festose, udite poco prima, partissero da un punto remotissimo dell’orizzonte.
Cercava palazzo Pietracatella; camminava in mezzo alla strada; era inutile rasentare i muri, l’acqua scrosciava dalle grondaie. I suoi calzoni, sempre troppo corti, si erano arricciati come colti da un brivido sulla caviglia, e lasciavano vedere le calze tramate dall’uso. Camminava rapido, concentrato in un pensiero doloroso, che andava collegandosi con tutte le impressioni tristi della strada, con quel gridare funesto che da due giorni gli rintronava negli orecchi. Luca non sapeva esattamente dove si trovasse palazzo Pietracatella, non sapeva neanche con certezza che il vecchio duca lo abitasse. Forse la ricerca era inutile. Tutto inutile sembrava a Luca quel tentativo fatto a Napoli per capire quello che stava succedendo a Galena e a Morutri. Che cosa significava: «Torna immediatamente. Sabs invia primo gruppo sfratti»? Il telegramma dello zio Filoteo glielo aveva portato la padrona con aria appenata. Il telegramma, per quello studente che non riceveva mai posta, non poteva essere che l’annunzio di una sciagura.
Luca, dopo averlo letto, sentiva che si trattava di una sciagura, ma non ne conosceva ancora i termini e l’estensione. D’Angelo non c’era, rientrava tardi quella sera. Aveva il sospetto che qualcuno riuscisse a rintracciare la sua abitazione. La furiosa rissa all’osteria della Calabrese si era conchiusa senza morti; c’erano stati, come dicevano i giornali, soltanto dei feriti leggeri e dei contusi. La polizia non avrebbe fatto probabilmente delle ricerche a fondo, ma c’erano gli squadristi. D’Angelo temeva gli squadristi ed evitava le vie del centro; aveva consigliato anche a Luca di non farsi vedere all’Università, o nei luoghi frequentati da studenti. Luca aveva tenuto conto del consiglio, aveva passato quei due giorni quasi sempre in casa, tentando di studiare; ma la sua mente vagava verso pensieri malinconici. Si veniva rifacendo la sua storia interna, a brano a brano, senza lume d’indulgenza per sé e per i suoi simili. Luca Marano, figlio di Giuseppe, non era più una vittima solitaria. Il suo destino, la sua tristezza di ventenne miserabile era simile a quella di Gesualdo, del canonico, di Ferdinando, delle migliaia di studenti che piovevano a Napoli tra ottobre e novembre, per esporre ai professori le nozioni lette nei manuali di Diritto Civile durante le desolate stagioni trascorse in villaggi come Morutri. Lunghi mesi passati a fumar cicche avvolte nelle carte di giornale, mangiando lasagnette di farina grigia condite con aglio e peperoni fritti, accanto ai camini ingrommati di fumo. Ragazzi che studiavano i manuali d’igiene e andavano a deporre i loro escrementi ai margini del villaggio, nelle cunette delle rotabili, seminando una scia di fiori fetidi agli imbocchi delle strade.
Giovani che la notte s’insinuavano come ladri, con le vene gonfie, nei tuguri di contadine disfatte dai parti e dalla miseria, e abbrancavano la preda senza una parola d’amore. Ne uscivano con le vene secche e l’anima colma di veleno.
Sorrisi, frasi dolci, grazia, eleganza; parole lette nei libri di scuola. Donne profumate, ricche di sentimenti preziosi, immaginate fervidamente, le incontravano camuffate da prostitute, nelle case di tolleranza a dieci lire. Giovani come lui, che si lasciavano intossicare l’anima senza speranza. Domani avrebbero vissuto sfruttando, derubando subdolamente i contadini dei loro villaggi che erano legati alla loro stessa sorte, dalla stessa ingiustizia. Luca capiva ormai i legami sotterranei della sua tristezza con quella degli altri. Ne ragionava la notte con Giulio D’Angelo. Facevano l’alba seduti sul suo letto nella camera fredda, tappezzata di carta di Francia che si strappava a brani, dalle pareti umide.

Giorgio Bassani[18]
Discorso di un giovane comunista
da Il giardino dei Finzi Contini
[19]
Significativo è anche il brano ‘Discorso di un giovane comunista’, tratto anch’esso dal terzo capitolo del romanzo.
È un brano che, facendo riferimento al fenomeno del Fascismo lascia conoscere le diverse idee dei personaggi.
Infatti si collega al ‘38, anno dell’emanazione delle leggi razziali e della pubblicazione del famigerato manifesto della razza, con il quale gli ebrei erano dichiarati non appartenenti alla ‘razza italiana’, cosa che ne implicava l’esclusione dalla vita pubblica e sociale.
Così anche i personaggi sono stati costretti ad abbandonare i luoghi pubblici, come il circolo di tennis e la biblioteca.
Il passo è significativo perché, facendoci penetrare nei sentimenti dei personaggi, fa capire il rimorso e l’amarezza nei confronti del regime fascista.

Parlavamo di molte cose, tra noi due (Alberto preferiva stare ad ascoltare), ma, è ovvio, soprattutto di politica.
Erano i mesi immediatamente successivi al patto di Monaco[20], e questo, appunto, il patto di Monaco e le sue conseguenze, era l’argomento che tornava più di frequente nei nostri discorsi. Che cosa avrebbe fatto, Hitler, ora che la regione dei Sudeti era stata incorporata nel Grande Reich? In quale direzione avrebbe colpito, adesso? Io, per me, non ero pessimista, e una volta tanto Malnate mi dava ragione. Secondo me, l’accordo che Francia e Gran Bretagna erano state forzate a sottoscrivere al termine della crisi del settembre scorso, non sarebbe durato a lungo. Sì: Hitler e Mussolini avevano indotto Chamberlain e Daladier ad abbandonare la Cecoslovacchia di Benes al suo destino. Ma poi? Cambiando magari Chamberlain e Daladier con uomini più giovani e più decisi (ecco il vantaggio del sistema parlamentare! — esclamavo —), tra breve Francia e Gran Bretagna sarebbero state in grado di puntare i piedi. Il tempo - sostenevo - non poteva, giocare che a loro favore.
Bastava però che il discorso cadesse sulla guerra di Spagna[21], oramai agli sgoccioli, o ci si riferisse in qualche modo all’U.R.S.S., perché l’atteggiamento di Malnate nei confronti delle democrazie occidentali, e di me, nella fattispecie, considerato ironicamente loro rappresentante e paladino, diventasse subito meno accomodante. Lo vedo ancora sporgere in avanti la grande testa bruna dalla fronte lustra di sudore, figgere gli sguardi nei miei nel solito, insopportabile tentativo di ricatto, tra morale e sentimentale, a cui ricorreva così facilmente, mentre la sua voce assumeva toni bassi, caldi, suadenti, pazienti. Chi erano stati, per favore - chiedeva -, chi erano stati i veri responsabili della rivolta franchista? Non erano state, per caso, le destre francesi e inglesi, le quali l’avevano non soltanto tollerata, all’inizio, ma poi, in seguito, addirittura appoggiata e applaudita? Allo stesso modo che il comportamento anglo-francese, corretto nella forma, in realtà ambiguo, aveva permesso a Mussolini, nel ‘35, di fare un solo boccone dell’Etiopia, anche in Ispagna era stata soprattutto la colpevole incertezza dei Baldwin, dei Halifax, e dello stesso Blum, a far pendere la bilancia della fortuna dalla parte di Franco. Inutile dar la colpa all’U.R.S.S. e alle Brigate internazionali insinuava, sempre più soave -, inutile imputare alla Russia, diventata la comoda testa di turco a portata di tutti gli imbecilli, se gli avvenimenti, laggiù, stavano ormai precipitando. Altra, la verità: soltanto la Russia aveva capito fin dall’inizio chi fossero il Duce e il Fùhrer, lei sola aveva previsto con chiarezza l’inevitabile intesa dei due, e agito per tempo di conseguenza. Le destre francesi e inglesi, al contrario, sovversive dell’ordine democratico come tutte le destre di tutti i paesi e di tutti i tempi, avevano sempre guardato all’Italia fascista e alla Germania nazista con malcelata simpatia. Ai reazionari di Francia e di Gran Bretagna, il Duce e il Fùhrer potevano sembrare tipi un po’ scomodi, certo, un tantino maleducati e eccessivi: da preferirsi sotto ogni aspetto a Stalin, però, giacché Stalin, si sa, era sempre stato il diavolo. Dopo aver aggredito e annesso Austria e Cecoslovacchia, la Germania cominciava già a premere sulla Polonia. Ora, se la Francia e la Gran Bretagna erano ridotte al punto a cui erano ridotte, cioè a stare a vedere e a subire, non c’erano storie: la responsabilità della loro attuale impotenza bisognava accollarla proprio a quei bravi, degni, decorativi galantuomini in cilindro e stiffelius - così adatti a corrispondere, almeno nel modo di vestire, alle nostalgie ottocentesche di tanti letterati decadenti —, che ancora adesso le governavano.
La polemica di Malnate si faceva tuttavia particolarmente vivace ogni qualvolta fosse chiamata in causa la storia italiana degli ultimi decenni.
Era evidente - diceva -: per me, ed anche per Alberto, in fondo, il fascismo non era stato altro che la malattia improvvisa e inspiegabile che attacca a tradimento l’organismo sano, oppure, per usare una frase cara a Benedetto Croce, «vostro comune maestro» (Alberto a questo punto scuoteva desolato il capo, negando, ma lui non gli dava retta), l’invasione degli Hyksos. Per noi due, insomma, l’Italia liberale dei Giolitti, dei Nitti, degli Orlando, e perfino quella dei Sonnino, dei Salandra e dei Facta, era stata tutta bella e tutta santa: una specie di età dell’oro, a cui, potendo, sarebbe stato opportuno tornare pari pari. E invece sbagliavamo, eccome se sbagliavamo! Il male non era sopraggiunto improvviso. Al contrario, esso veniva da molto lontano: e cioè dagli anni del primo Risorgimento, il quale infatti era stato compiuto nella pratica assenza del popolo, del popolo vero. Giolitti? Se Mussolini aveva potuto superare la crisi seguita al delitto Matteotti, nel ‘24, quando tutto attorno a lui sembrava sfaldarsi, e perfino il re tentennava, noi dovevamo ringraziare di ciò proprio il nostro Giolitti, e Benedetto Croce, anche, ambedue disposti a mandar giù qualsiasi rospo pur di impedire l’avanzata delle classi popolari. Erano stati proprio loro, i liberali dei nostri sogni, a concedere a Mussolini il tempo necessario perché riprendesse fiato. Nemmeno sei mesi dopo, il Duce li aveva ripagati del servizio sopprimendo la libertà di stampa e sciogliendo i partiti. Giovanni Giolitti si era ritirato dalla vita politica, riparando nelle sue campagne, in Piemonte; Benedetto Croce era tornato ai prediletti studi filosofici e letterari. Ma c’era stato chi, di gran lunga meno colpevole, anzi incolpevole affatto, aveva pagato molto più duramente. Amendola e Gobetti erano stati bastonati a morte; Filippo Turati si era spento in esilio, lontano da quella sua Milano dove, pochi anni prima, aveva sepolto la povera signora Anna; Antonio Gramsci aveva preso la via delle patrie galere (era morto l’anno scorso in carcere: non lo sapevamo?); gli operai e i contadini italiani, insieme coi loro capi naturali, avevano perduto ogni effettiva speranza di riscatto sociale e di dignità umana, e da quasi vent’anni, oramai, vegetavano e morivano in silenzio.
Non era facile, a me, contrappormi a queste idee, e per varie ragioni: in primo luogo, perché la cultura politica di Malnate, che il socialismo e l’antifascismo li aveva respirati in famiglia, fin dall’infanzia più tenera, soverchiava la mia; in secondo luogo, perché il ruolo al quale lui pretendeva inchiodarmi - il ruolo del letterato decadente, o «ermetico», come diceva, formatosi in politica sui libri di Benedetto Croce -, mi sembrava inadeguato, non rispondente alla mia reale personalità, e quindi, prima ancora che tra noi fosse avviata qualsiasi discussione, da rifiutarsi. In conclusione preferivo tacere, atteggiando il volto a un sorriso vagamente ironico. Subivo, e sorridevo.
Quanto ad Alberto, anche lui stava zitto: un po’ per la ragione che, al solito, non aveva nulla da obbiettare, ma principalmente per dar modo all’amico di infierire contro di me, e pago soprattutto di questo, era fin troppo chiaro. Fra tre persone, chiuse a discutere per giorni e giorni in una stanza, è quasi fatale che due finiscano col far fronte comune contro la terza. Comunque sia, pur d’andare d’accordo col Giampi, di mostrarglisi solidale, Alberto pareva pronto ad accettare tutto, da lui, compreso il fatto che lui, il Giampi, spesso lo mettesse in un solo fascio con me. Era vero: Mussolini e compari stavano accumulando contro gli ebrei italiani infamie e soprusi gravissimi - diceva per esempio Malnate —; il famigerato Manifesto della Razza, del luglio scorso, redatto da dieci cosiddetti «studiosi fascisti», non si sapeva come considerarlo, se più vergognoso o più ridicolo. Ma ammesso ciò - soggiungeva -, gli sapevamo dire noialtri quanti erano stati prima del ‘38, in Italia, gli «israeliti» antifascisti? Ben pochi, temeva, un’esigua minoranza, se anche a Ferrara, come Alberto gli aveva detto più volte, il numero di loro, iscritti al Fascio, era sempre stato elevato. Io medesimo, nel ‘36, avevo partecipato ai Littoriali della Cultura. Leggevo già, a quell’epoca, la Storia d’Europa del Croce? Oppure avevo aspettato, per averne la rivelazione, l’anno successivo, l’anno dell’Anschluss e delle prime avvisaglie dì un razzismo italiano?
Subivo e sorridevo, talora ribellandomi, ma più spesso no, ripeto, conquistato mio malgrado dalla sua franchezza e sincerità, un po’ troppo rozze e impietose, certo, un po’ troppo da goi — così mi dicevo —, ma in fondo veramente pietose perché veramente uguaglianti, fraterne. E quando Malnate, trascurando per un momento di occuparsi di me, si volgeva contro Alberto, accusando bonario lui e la sua famiglia di essere «dopo tutto» degli sporchi agrari, dei biechi latifondisti, e degli aristocratici, per giunta, nostalgici del feudalesimo medioevale, cosicché non era poi tanto ingiusto, «dopo tutto», che adesso pagassero in qualche modo il fio dei privilegi di cui avevano goduto per tanti anni (Alberto rideva fino alle lacrime, sotto le sue invettive, e intanto accennava col capo di sì, che lui, per parte sua, era prontissimo a pagare), non era senza segreto compiacimento che lo ascoltavo tuonare contro l’amico. Il bambino degli anni anteriori al ‘29, quello che, camminando a fianco della mamma lungo i vialetti del cimitero, la udiva ogni volta definire la solitaria tomba monumentale dei Finzi-Contini «un vero orrore», insorgeva d’un tratto, dal più profondo di me, ad applaudire malignamente.

Vasco Pratolini[22]
Inseguimento per le vie di Firenze
Da Cronache di poveri amanti
[23]
A un particolare e drammatico momento della lotta politica fiorentina si riconnette l’episodio qui riportato. I fascisti stanno partendo in azione punitiva contro alcuni avversari politici; ma la notizia è trapelata; e Maciste, il fabbro socialista di via del Corno, nella notte corre per la città sul suo sidecar per avvisare le vittime designate del pericolo che le sovrasta. È una vicenda piena di tensione e che ha per posta la morte.

Il sidecar è la stella cometa che annunzia il diluvio agli uomini di buona volontà. Lo guida un San Giorgio di due metri, a testa nuda, le labbra fra i denti e gli occhi fissi all’orizzonte: un centauro mitologico che indossa una giacca operaia. I rari passanti si stringono ai muri. Un vigile urbano che rincasa dal servizio, compreso della propria divisa, si pone in mezzo alla strada spalancando le braccia; il sidecar lo evita di precisione. Oltrepassata Porta la Croce, lo sterrato della periferia è cosparso di larghe pozze piovane: la carreggiata una striscia melmosa.
Nella sua corsa il sidecar supera i carri carichi di damigiane, di sacchi di fieno, guidati da cavalli sonnolenti, col barrocciaio addormentato alla base delle stanghe vestito dal fango che la moto proietta al suo passaggio. Il carrozzino corre la sua gymkana fra scosse, sobbalzi, capovolgimenti miracolosamente evitati. Ugo vi si destreggia come l’argonauta sorpreso dalla tempesta. Il tremotìo, la corsa pazza gli impediscono di connettere un pensiero.
[...] Maciste impugna le manopole con la forza e l’abilità con cui regge sulle pinze il ferro arroventatosione del suo spirito è tutta in quel suo stringersi le labbra tra i denti. Nel dramma egli trova una serenità maggiore, una lucidità che gli suggerisce immagini precise, pensieri e determinazioni conseguenti prima tappa a casa del compagno fonditore.
Adesso Maciste combatte con il suo nemico una gara di velocità. È come se sull’altro lato della strada un sidecar verniciato di nero, e un teschio al posto del fanale.
[...] Il sidecar vola col suo centauro infuriato. Il suo fragore desta i dormienti, sconvolge i pollai e le chiuse passanti ritardatari: li avvolge nella nuvola dello scappamento. Ugo si è seduto sul sellino posteriore della moto. La macchina acquisterà velocità. Anche se alle curve il pericolo di capovolgersi diventa maggiore, si tratta ora di far presto, far presto! La città è addormentata, protetta dalla luna. Gli uomini sono raccolti nel tepore della casa, che il primo freddo dell’autunno fa apprezzare. I prati della periferia intrisi delle piogge recenti, della brina, sono piattaforme viscide, acquitrini di palude. Tuttavia occorre percorrerli in diagonale per abbreviare la strada e guadagnar tempo. Attraversando il Campo di Marte, ove un reggimento ha disposto le sue tende, la sentinella lancia il chi va là, lo intima sparando in aria, lo ripete mirando al di sopra delle teste. È una moschettata, due, tre. Maciste si abbassa con la fronte sul manubrio, Ugo si rannicchia, alle sue spalle: le pallottole fischiano di lato. Il sidecar, guidato alla cieca, s’impantana in una pozzanghera vasta e profonda: ne esce di rabbia, con una sventagliata d’acqua che bagna i due compagni dalla testa ai piedi. Ma ormai sono fuori tiro: il quarto proiettile s’immerge, con uno zampillo, nel risucchio della pozzanghera. La moto ha imboccato un viale lungo e diritto: una pista, con l’asfalto bianco sotto la luna. È alle Cureno di notte delle Officine Berta è a pied’arm davanti alle garitte. Lo superano di volo.
[...]
Più avanti, più veloci: è la vita che noi portiamo! Ecco di nuovo un torrente, magro, che la luna inquadra in un orizzonte di ciminiere, di colline punteggiate di ville e di cipressi. È il Mugnone, sui suoi argini erbosi si tramano adesso burle mortali.
[...] Stanotte la Polizia è consegnata: la ronda degli ammoniti perlustrazione segnalando «n.n.» compiono l’eccidio.
Ma la città è resa esperta dalla sua storia, di cui ogni pietra, ogni campana, conservano il ricordo. Il Priore di San Lorenzo, Don Fratto, ha spalancato l’uscio della sagrestia, ha acceso una lampada sulla soglia, semmai un braccato voglia cercarvi rifugio. Nelle case del popolo si acconciano solai, si aprono cantine; si adatta, al riparo di un comignolo, un giaciglio di fortuna.
I fascisti, eccitati dal sangue e dal fuoco, si annunziano con crepitii di salve «A noi!». Se in via dei della Robbiala neutralità, nei quartieri di Rifredi e del Pignone l’arrivo del compagno fonditore ha messo in moto uomini e donne, una popolazione che veglia ora col cuore in gola su coloro che sono nascosti: ne condivide l’ansia, stando di vedetta, recitando rosari. E non tutto il popol grasso nei palazzi di via Maggio e dei Lungarni a cui il censo non ha velato la ragione: qui è un incrociarsi di telefonate che partecipano l’allarme, che offrono ospitalità.
Le strade sono deserte, i caffè notturni hanno abbassato le saracinesche: è spenta ogni luce.
Le auto degli squadristi traversano un deserto di pietre e di luna. Con gli squadristi è la Morte.
Ciascuno di essi ne reca il ritratto sul cuore: un teschio ricamato sulla camicia nera. La Morte li accompagna di casa in casa, è in ogni loro gesto e pensiero. Il suo contatto ha gelato i cuori, acceso le menti della sua idea ossessiva. La sua presenza rende i fascisti audaci e guardinghi, li sconvolge e li esalta. Li opprime. Essi ne sollecitano la complicità e insieme ne temono la potenza. Avanzano sulle auto come su vascelli corsari incalzati dalla tempesta; avvertono la sorda ostilità che li insegue, per cui ogni palazzo, ogni manifesto, ogni sporto appaiono occhiuti ed aggressivi. Dopo le prime irruzioni, che l’hanno colta di sorpresa, la città si è barricata dietro le sue pietre. Gli squadristi hanno trovato appartamenti disabitati, letti ancora caldi e disfatti. È in ciascuno di essi una follia omicida, il bisogno di uccidere per sentirsi vivi, scampati all’agguato. La Morte li ha costretti nel proprio gioco: è una partita che soltanto le luci dell’alba decideranno. Essi cantano per riconoscersi solidali, si aizzano l’un altro, gli chauffeur premono sugli acceleratori, le macchine hanno sbalzi paurosi. Ad ogni crocicchio, essi dubitano un’imboscata, sparano a raffiche sui presunti aggressori: al loro passaggio crollano vetrine, lampioni vanno in frantumi. Tirano al volo sulle saracinesche, sui chioschi, sui portoni ove è sembrato che un’ombra si muovesse. Non v’è gatto randagio, insegna pensile che non siano raggiunti dagli spari: uccisi, forati. Si sono, partendo, divisa la città in zone di operazioni.
Adesso in ogni Quartiere risuona l’eco della loro frenesia.
[...]L’incontro avvenne nella strada parallela al Mercato Coperto.
[...]La strada era breve, una traversa, una delle strade dai pochi palazzi. Il sidecar fu costretto a rallentare per entrarvi. Si trovò davanti l’automobile.
Osvaldo lanciò un grido: «Sono loro! Li conosco io!».
Maciste comprese in un attimo, la moto si impennò come un cavallo, roteò su se stessa; il carrozzino si riversò su un lato, tornò in assesparato per primo; il colpo era andato a vuoto.
Già il sidecar imboccava la strada aperta; scomparve. L’auto gli fu dietro, lo ritrovò distante, voltato l’angolo: lo inseguì. Un fuoco continuato. Gli squadristi erano in piedi che sparavano.
L’auto guadagnava rapidamente terreno. Era alle curve che il sidecar recuperava qualche metro. Osvaldo sparava ora furiosamente; urlava i nomi dei due fuggitivi, miracolosamente equilibrato sul predellino.
Il Pisano era, fra tutti, il più composto. Attendeva, per sparare, che la distanza si raccorciasse e le schiene degli uomini gli prestassero la mira.
Il sidecar cercava il dedalo delle viuzze a lato del Mercato, correva a zig-zag appena si presentava una dirittura. Ma l’auto gli era sempre più a ridosso: i proiettili fischiavano vicini.
Maciste era curvo sul manubrio. Ugo rannicchiato ai suoi fianchi. Non si gridavano parole fra di loro. Li univa un’imminenza di morte, più forte di ogni legame di vita. Maciste capi che la partita era perduta se si ostinava per i vicoli. Gli rimaneva un solo scampo: raggiungere l’ospedale, lì vicino, infilare l’androne. Sperdersi nei corridoi, nelle corsie, poteva significare la salvezza.
[...] Ma per raggiungere l’Ospedale, occorreva attraversare piazza San Lorenzo, bianca di luna: un campo aperto. Era l’ultima speranza: vi si affidò. Gridò ad Ugo: «Tieniti forte a me! ». Lanciò la moto sulla piazza.
Era il momento che il Pisano attendeva. Egli aveva la mano ferma, l’occhio sicuro. Quella schiena curva, a meno di cento metri, carica di luna, era una bersaglio mobile nel tirare al quale egli era maestro.
Il sidecar sbandò, si capovolse sulla scalinata della Chiesa, col guidatore riverso; colpito alla nuca. L’altro uomo, subito rialzatosi, fuggì: svicolò lontano. L’auto si fermò davanti al sidecar.
Osvaldo scese di un balzo, si chinò su Maciste: gli sollevò la testa per i capelli. Intravide in una nebbia la sua faccia rantolante. Egli era ebbro, allucinato: calciò sul corpo di Maciste. Come eccitati dal suo furore, gli altri lo imitarono: rivoltarono a calci il cadavere, di petto e di schiena.

Giovanni Gentile[24]
Manifesto degli intellettuali fascisti
[21 aprile 1925]

La stesura di questo manifesto fu decisa al Convegno per la cul­tura fascista di Bologna (29-30 marzo 1925) al quale parteciparono circa 250 intellettuali; fu scritto da Giovanni Gentile. «È il primo tentativo di sistemazione teorica del fascismo alla quale il Gentile continuò a lavorare negli anni successivi. Punto di arrivo di tale elaborazione sono una parte della voce fascismo sulla enciclopedia Treccani, firmata da Mussolini, l’opera origine e dottrina del fa­scismo e altre» (M. Bartolotti).
Fu pubblicato sui giornali il giorno del «natale di Roma» (solennità civile di recente, fascistica istituzione) con centinaia di firme di ade­sione: molte quelle di uomini di rilievo nella cultura italiana. Il pri­mo maggio gli intellettuali antifascisti risposero con un manifesto re­datto da Croce.
Occorre sottolineare:
a) il legame tra Risorgimento e mo­vimento fascista, tra squadrismo e... « Giovane Italia » che Gentile tenta di stabilire;
b) l’insistenza sul carattere religioso del fascismo e di conseguenza sulla sua intransigenza che legittimerebbe la violenza;
c) una componente di verbosità retori­ca e fumosa particolarmente evidente nell’ultima parte.

LE ORIGINI
Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito ita­liano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato ed interesse per tutte le altre. Le sue ori­gini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e, risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista[25] al­lora imperante. La quale della grande guerra da cui il popolo ita­liano era uscito vittorioso ma spossato, vedeva soltanto le imme­diate conseguenze materiali e lasciava disperdere se non lo nega­va apertamente il valore morale rappresentandola agl’italiani da un punto di vista grettamente individualistico ed utilitaristico co­me somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presun­tuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un di­sconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell’Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli indi­vidui ed alle categorie particolari dei cittadini ed un disfrenarsi delle passioni e degl’istinti inferiori, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico ed incosciente spi­rito di rivolta ad ogni legge e disciplina.
L’individuo contro lo Stato; espressione tipica dell’aspetto poli­tico della corruttela degli animi insofferenti di ogni superiore nor­ma di vita umana che vigorosamente regga e contenga i senti­menti ed i pensieri dei singoli. Il Fascismo pertanto alle sue ori­gini fu un movimento politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell’individuo ad un’idea in cui l’individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà ed ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tra­dizione perciò e missione.
IL FASCISMO E LO STATO
Di qui il carattere religioso del Fascismo.
Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito dal Fascismo nei quattro anni dal ‘19 al ‘22. I fa­scisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento, dove entraro­no, piccolo nucleo, con le elezioni del 1921. Lo Stato costitu­zionale era perciò, e doveva essere, antifascista, poiché era lo Stato della maggioranza, ed il Fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico ed abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore. Lo Stato che è liberale perché si ritiene estraneo alla coscienza del libero cittadino, quasi meccanico si­stema di fronte all’attività dei singoli. Non era perciò, evidentemente, lo Stato vagheggiato dai socialisti, quantunque i rappresentanti dell’ibrido socialismo democratizzante e parlamentaristico, si fossero, anche in Italia, venuti adattando a codesta conce­zione individualistica della concezione politica. Ma non era nean­che lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo a eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl’individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli italiani, dopo aver dato loro l’indipendenza e l’unità.
Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch’esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un nu­mero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del ‘31 da analogo bisogno politico e morale (era sorta la «Giovane Italia» di Giuseppe Mazzini). Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante! E cominciò ad essere, come la «Giovane Italia» mazziniana, la fede di tutti gli italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento. Fede, come ogni fede che urti contro una realtà co­stituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e riplasmare in conformità del nuovo ideale ardente ed intran­sigente.
Era la fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del sacrificio consumatosi nei campi di battaglia pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la grandezza della Patria. Fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria. Sorse così lo squadrismo. Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato.
Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l’insurrezione del 28 ottobre 1922, quando co­lonne armate di fascisti, dopo aver occupato gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma. La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l’ammirazione ed infine il plauso universale. Onde parve che ad un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entu­siastica[26] della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscien­za della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la Nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione delle sue forze finanziarie e morali.
IL GOVERNO FASCISTA
Lo squadrismo e l’illegalismo cessavano e si delineavano gli ele­menti del regime voluto dal Fascismo. Tra il 29 e il 30 ottobre ripartirono da Roma nel massimo ordine le 50.000 camicie nere che dalle province avevano marciato sulla Capitale; partirono do­po aver sfilato davanti a S. M. il Re; partirono ad un cenno del loro Duce, divenuto Capo del Governo e anima della nuova Italia auspicata dal Fascismo. [...]
Ma gli stranieri, che sono venuti in Italia, sorpassando quella cerchia di fuoco creata intorno all’Italia fascista dai tiri di in­terdizione con cui una feroce propaganda cartacea e verbale, in­terna ed esterna, di italiani e non italiani, ha cercato di isolare l’Italia fascista, calunniandola come un paese caduto in mano all’arbitrio più violento e più cinico, negatore di ogni civile li­bertà legale e garanzia di giustizia; gli stranieri che hanno po­tuto vedere coi propri occhi questa Italia, e udire coi propri orecchi i nuovi italiani e vivere la loro vita materiale e morale, hanno cominciato dall’invidiare l’ordine pubblico oggi regnante in Italia, poi si sono interessati allo spirito che si sforza ogni giorno più d’impossessarsi di questa macchina così bene ordi­nata e han cominciato a sentire che qui batte un cuore pieno di umanità, quantunque scosso da un’esasperante passione patriot­tica; giacché la Patria del Fascista è pure la Patria che vive e vibra nel petto di ogni uomo civile, quella Patria cui il senti­mento dappertutto si è riscosso nella tragedia della guerra e vi­gila, in ogni paese, e deve vigilare a guardia di interessi sacri, anche dopo la guerra; anzi per effetto della guerra, che nessuno più crede l’ultima.
Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli isti­tuti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella peren­nità delle tradizioni. Ed è scuola di subordinazione di ciò che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale, è rispetto della legge e disciplina, è libertà ma libertà da conquistare attraverso la legge, che si instaura con la rinuncia a tutto ciò che è piccolo arbitrio e velleità irragionevole e dissipatrice. È concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non di­stingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo, dove intanto no si possa continuare a vivere vilmente e miseramente, ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni, impegnando chi le pronuncia e impegnando con lui il mondo stesso di cui egli è parte viva e responsabile in ogni istante del tempo, in ogni segreto respiro della coscienza.
[...]

Benedetto Croce[27]
Il manifesto degli intellettuali antifascisti
[da il mondo, 1 maggio 1925]

Ecco, quasi per intero, il manifesto redatto da Croce, su invito di Giovanni Amendola, e pubblicato il primo maggio 1925 in contrap­posizione al manifesto degli intellettuali fascisti. Numerose furono le adesioni di uomini rappresentativi della cultura italiana, anche se in seguito ci furono parecchie defezioni.
Non è il caso di soffermarsi sul problema largamente dibattuto – l’ambiguo atteggiamento iniziale di Croce nei riguardi del Fascismo e il ruolo sostanzialmente conservatore, nella cultura e nelle implicazioni politiche, della sua opera — ma è necessario precisare che con questo manifesto, Croce superava, nei riguardi del fascismo, la posizione di attesa, a volte be­nevola, fino ad allora tenuta
[28]. Ora la posizione è ben diversa; ma in­serita sempre in un quadro di conservatorismo illuminato di cui due punti vanno sottolineati:
a) la cultura concepita come ricerca che non si contamina con la poli­tica, come attività che ripudia ogni impegno di lotta;
b) la soluzione politica proposta da Croce è una restaurazione pura e semplice degli ordinamenti e dei metodi del vecchio Stato liberale; il fascismo è solo una momentanea deviazione e quindi il problema del rapporto fra Stato liberale precedente e fascismo non si pone nemmeno.


Gl’intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno in­dirizzato un manifesto agl’intellettuali di tutte le nazioni per spie­gare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista. Nell’accingersi a tanta impresa quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile e famoso manifesto, che, agli inizi della guerra europea, fu bandito al mondo dagli intel­lettuali tedeschi: un manifesto che raccolse, allora, la riprova­zione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore.
E, veramente, gl’intellettuali, ossia i cultori della scienza e del­l’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno solo il dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica, e con le creazioni dell’arte, a innal­zare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinchè, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessaria. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso. E non è nemmeno, quello degl’intellettuali fascistici, un atto che risplenda di molto delicato sentire verso la Patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (co­me, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni.
Nella sostanza, quella scrittura, è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati ra­ziocini: come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico con la concezione sommamente storica della libera gara e dell’avvicendarsi dei partiti al potere, anche, mercé l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il progresso; - o co­me dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degl’individui al Tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale[29]. [...]
Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’abuso che vi si fa della parola «religione»; perché, a senso dei signori intellettuali fascistici, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di reli­gione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte, la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; - e ne recano a prova l’odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l’odio e il rancore che si accendono da un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere d’italiani e li ingiuria stranieri, e in quest’atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppres­sore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto per­fino ai giovani dell’Università l’antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili: è cosa che suona, a dir vero, come un’assai lugubre facezia.
In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e, d’altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all’autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti asso­lutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica, di aborrimento dalla cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdi­linquimenti mistici e di cinismo. E, se anche taluni plausibili prov­vedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantare un’originale impronta, tale da dare indizio di un nuovo sistema politico, che si denomini dal fascismo.
Per questa caotica e inafferrabile «religione» noi non ci sentia­mo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, del­l’Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia, patirono e morirono, e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversari, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda in pugno la loro bandiera[30]. La nostra fede non è un’escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e morale.
Ripetono gl’intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trista fra­se che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d’Italia di fronte ai contrasti tra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero d’italiani alla vita pubblica; e, in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la lar­gizione del suffragio universale. Perfino il favore, col quale ven­ne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fasci­stico, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici[31]. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell’inerzia e nell’in­differenza il grosso della nazione, appagandone taluni bisogni ma­teriali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei go­verni assolutistici e quietistici.
Anche oggi, né quell’asserita indifferenza e inerzia, né gli impe­dimenti che si frappongono alla libertà, c’inducono a disperare o a rassegnarci. Quel che importa, è che si sappia ciò che si vuole no e che si voglia cosa d’intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare in­tendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l’Italia doveva percor­rere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua edu­cazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.
Firmato: Antonino Anile — Giovanni Ansaldo — Giovanni Amendola — Roberto Bracco – Leonardo Bianchi – Sem Benelli – Carlo Cassola — Emilio Cecchi — Giuseppe Chiovenda — Bene­detto Croce – Cesare De Lollis – Vincenzo De Bartholomaeis – Guido De Ruggiero — Roberto De Ruggiero – Luigi Einaudi — Carlo Fadda — Guglielmo Ferrerò — Nicola Festa — Giustino Fortunato – Tommaso Gallarati Scotti — Alfredo Galletti – Pietro Giacosa – Ettore Ianni – A. C. Jemolo – Giorgio Levi della Vida – Alberto Marghieri – Rodolfo Mondolfo – Bortolo Nigrisoli — Silvio Perozzi — Enrico Presutti — Giuseppe Ricchieri — Tullio Rossi Doria — Francesco Ruffni — Luigi Sal­vatorelli — Giuseppe Santarelli — Matilde Serao — Arturo Solari – Giuseppe Tarozzi — Guido Villa – Leonida Tonello – Pietro Toldo.
NOTE
[1] Antonio Gramsci - Nato ad Ales (Cagliari) nel 1891 da famiglia piccolo-borghese. Di salute debole fin dall'infanzia, vince una borsa di studio per l'Università di Torino, laureandosi in lettere e filosofia.
Nel 1913 aderisce al Partito socialista del quale diventa, nel '17, segretario della sezione torinese.
Affascinato dal pensiero e dall'opera di Lenin, in Russia, nel 1919 promuove la formazione della corrente comunista nel Partito socialista, dalla quale, nel 1921, nasce il Partito comunista d'Italia.
Direttore del quotidiano L'Ordine nuovo, nel '22 è componente dell'Esecutivo dell'Internazionale comunista. Si sposa a Mosca; avrà due figli per i quali, dal carcere italiano, scriverà una serie di commoventi favole pubblicate con il titolo L'albero del riccio. Rientrato in Italia, è eletto deputato per il collegio Veneto e segretario generale del Partito comunista.
Nel 1926 è arrestato dalla polizia fascista nonostante l'immunità parlamentare, il re e Mussolini sciolgono la Camera dei deputati, mettendo fuori legge i comunisti. Gramsci e tutti i deputati comunisti sono processati e confinati: Gramsci nell'isola di Ustica e successivamente nel carcere di Civitavecchia e Turi. Non essendo adeguatamente curato è abbandonato al lento spegnimento fra sofferenze. Muore nel 1937, dopo 11 anni di prigione.
Negli anni della reclusione scrive 32 quaderni di studi filosofici e politici, definiti una delle opere più alte e acute del secolo; pubblicati da Einaudi, nel dopoguerra, sono noti universalmente come i Quaderni dal carcere, tradotti in tutte le lingue più importanti.
[2] Oggi... spirituale: commenterà poi Gramsci in letteratura e vita na­zionale: « E al tempo della guerra libica non era lo stesso? eppure allora Prezzolini non si limitò a proporre una società degli apoti... »
[3] fascisti... volta: il gusto di far l'apoto non può che sfociare, come qui, nel qualunquismo moralistico che accomuna tutti e tutto in una ge­nerica condanna. Giudizi del genere lasciano molto perplessi: non si può pensare che ad un'intelligenza spregiudicata ed acuta come quella di Prez­zolini sfuggissero le differenze e il significato delle forze in gioco nella società italiana. O forse si deve proprio ammettere che gran parte della cultura italiana non capì quello che stava succedendo in Italia in quegli anni?
[4] Piero Gobetti - Nato a Torino nel 1901. Studente universitario di acuta intelligenza, promotore della rivista culturale Energie Nuove. Esponente della sinistra liberale progressista, collegata con l'intellettuale meridionalista Gaetano Salvemini, estimatore di Antonio Gramsci e del giornale socialista e poi comunista Ordine Nuovo, Gobetti si avvicina al proletariato torinese, divenendo attivo antifascista.
Nel 1922 promuove la nascita della rivista Rivoluzione Liberale che diventa centro di impegno antifascista di segno liberale, collegato ad altri nuclei liberali di Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo.
Più volte arrestato nel '23-24 dalla polizia fascista, la sua rivista ripetutamente sequestrata.
Nel settembre del '25 è duramente picchiato a Torino, lasciato esanime sulla porta di casa, con gravi ferite invalidanti. Costretto a espatriare in Francia, mai più riavutosi dalle ferite, muore esule a Parigi nel febbraio del 1926.
Saggista e autore di numerosi scritti culturali e politici pubblicati in Italia e all'estero, simbolo del liberalismo progressista sensibile al riscatto delle classi lavoratrici.
[5] Mio caro: oltre che a Prezzolini, Gobetti risponde ad Augusto Monti che su rivoluzione liberale aveva affrontato problemi scolastici.
[6] romanticismi: la tendenza ad affrontare i problemi con ingenuo idea­lismo senza tener conto della concreta realtà. C'è una chiara polemica contro tanti atteggiamenti dei fratelli maggiori vociani.
[7] autobiografia... problema: siamo liberi dalle pastoie del compiacimento intimista e capaci di distacco critico anche nei nostri riguardi.
[8] Cristo... Messia: cioè: la nostra è una scelta fatta senza alcuna spe­ranza di ricompensa, lucidamente disperata, che ci porta all'azione senza romanticismi, ma tenendo ben d'occhio la realtà effettuale.
[9] Siamo... autonomo: al bando quindi ogni atteggiamento di demiurgo o di profeta: si tratta di legarsi ad un obiettivo movimento di ascesa delle classi proletarie e difenderlo.
[10] ordine chiuso: cioè una organizzazione di gruppo corporativa quasi, un arroccamento per la difesa dei valori intellettuali. Ma che fine hanno fatto in Italia i valori intellettuali? Lo dice subito dopo.
[11] posizione... fascismo: « il dito ha toccato la piaga: la diagnosi è secca, senza margine di dubbio. Nella sua tradizionale incertezza l'intellettuale ita­liano, pur facendo del moralismo assume una posizione che è immorale. Pri­ma o poi si lascerà portare dalla corrente, da qualcuna delle ricorrenti ondate sentimental-patriottiche» (A. Gianni).
[12] difendere la rivoluzione: ritorna il concetto espresso sopra.
[13] gentiliani: seguaci in filosofia e in politica di Giovanni Gentile (1875-1944), filosofo idealista che, inizialmente amico e collaboratore di Croce, ave­va aderito al fascismo e ne avrebbe dato la teorizzazione. Fu lui a redigere il manifesto degli intellettuali fascisti.
[14] bisogna... progresso: bisogna confidare sull'impegno degli uomini che giorno dopo giorno con sudore e sangue lottano, piuttosto che illudersi ge­nericamente che una legge di progresso porti avanti la società.
[15] collaborazione delle classi: un mito retorico che può servire solo a ma­scherare la mancanza d'una coscienza politica, dell'impegno di lotta.
[16] in Italia... Giolitti: cfr. quanto si è detto a proposito del disegno giolittiano di integrazione del proletariato nello stato liberale e della linea politica da lui perseguita.
[17] Le terre del Sacramento - I tratti essenziali dell’ideologia di Jovine sono presenti nel romanzo Le terre del Sacramento, pubblicato nel 1950, poco dopo la sua morte, dalla casa editrice Einaudi.
Il tema principale del romanzo è la terra attorno alla quale ruota la vita dei protagonisti: Enrico Cannavale, un avvocato dotato di qualche velleità socialista, dedito al bere, al gioco e alle donne; sua cugina Clelia, venuta a vivere da lui dopo la morte di sua madre; sua cugina Laura de Martiis, che riesce a sedurlo e a divenire sua moglie; Luca Marano, un ex seminarista figlio di contadini, studente in legge a Napoli, giovane di nobili ideali. Accanto a loro, una selva di personaggi minimi e minori, ben distinguibili: da una parte i padroni e i loro amici (avvocati, notai, nobili e nobilastri ecc.), dall’altra i contadini ed i diseredati.
La vicenda si svolge, tra il 1921 e il 1922, nei paesi di Calena e di Morutri, alla vigilia della marcia su Roma. Enrico è sommerso di debiti: tenta di gestire la grande proprietà del Sacramento, ma non ne ha né la voglia né la costanza di applicarsi per uscire da una situazione che volge al peggio, finendo per delegare tutta la gestione al proprio fattore, Felice Protto, che lo imbroglia regolarmente.
Un giorno, nella vita di Enrico entra la cugina Laura de Martiis, tornata a Calena a causa di un lutto familiare, dopo aver vissuto alcuni anni a Napoli: i due cominciano a frequentarsi e alla fine si sposano. Laura decide di occuparsi del feudo del Sacramento, per tentare di riportare ordine negli sconclusionati affari del marito e di scongiurare il tracollo finanziario che sembra imminente. Ottenuta una delega totale da parte di Enrico, Laura si dedica con grande energia ed entusiasmo all’impresa.
Ricorre così anche all’aiuto di Luca, impiegato dallo zio in piccoli servizi di notariato locale; in realtà, Luca serve a Laura principalmente come tramite con i contadini di Calena e Morutri, presso i quali il giovane gode di notevole prestigio, grazie ai suoi studi universitari, alla sua cortesia ed ai consigli legali pieni di buon senso che dispensa a chiunque glieli chieda.
I propositi di Laura sembrano onesti: il suo fine pare davvero quello di risanare la situazione finanziaria del Sacramento, tanto che non esita a profondere nell’impresa denari e proprietà personali e ad esporsi in prima persona per ottenere prestiti a Napoli. Grazie alle sue amicizie Laura ottiene credito, nonostante la proprietà sia già gravata da ipoteche: perché il denaro arrivi, occorre però che le terre comincino a fruttare quindi i contadini devono mettersi a lavoro. Qui interviene Luca: il suo compito è convincere i contadini ad anticipare lavoro in cambio della promessa di ottenere, dopo i primi raccolti degli appezzamenti di terreno in concessione.
I contadini accettano la proposta e cominciano a lavorare, fiduciosi della parola data da Luca. Per un po’ di tempo, tutto sembra procedere per il meglio, quando improvvisamente lo scenario cambia: Laura parte con il marito (convalescente dopo uno scontro con i fascisti locali) e non dà più notizie di sé. Dopo qualche tempo, Enrico torna da solo a Calena e Laura sembra sparita nel nulla. Luca si mette sulle sue tracce: va a Napoli, la cerca invano. Infine apprende che è partita per San Remo.
Intanto da Calena giungono notizie allarmanti: molti contadini hanno ricevuto ingiunzioni di sfratto, altri si sono visti moltiplicare venti, trenta volte il canone d’affitto. La situazione precipita: una società anonima di Roma risulta la legittima proprietaria delle terre ed opera con l’intenzione di cacciare i contadini dalle zone più fertili, riservando loro quelle più aride e pietrose a prezzi di affitto esorbitanti.
Luca torna a Calena ed organizza una resistenza bianca: i contadini vogliono solo lavorare e pretendono il rispetto della parola data. Così le terre del Sacramento sono occupate, ma la calata di fascisti e di carabinieri coalizzati spazza via il tentativo dei contadini. Luca e qualche altro muoiono sul campo.
Dal punto di vista strutturale il romanzo non è suddiviso in capitoli, ma presenta stacchi bianchi ad intervalli regolari, in modo tale che la storia ci appare come una serie di tasselli che compongono un puzzle.
Il narrativo è quello neorealistico anche se la sua collocazione più che avvenire nella contemporaneità descrive una vicenda che si colloca una generazione almeno prima del 1950. Pertanto esso può oggi essere definito anche di grande valenza storica. La storicità del romanzo è di livello medio infatti non compaiono personaggi appartenenti alla grande Storia, ma solo un evento e precisamente la vicenda si svolge nel contesto storico dell’avvento del Fascismo, un evento storico di portata nazionale, che nel romanzo produce degli effetti che coinvolgono e condizionano lo sviluppo della vicenda e dei personaggi che appartengono tutti alla piccola storia, ma che completano l’affresco nei minimi dettagli.
L’arco di tempo in cui si svolge la storia è abbastanza breve, infatti il romanzo inizia nell’autunno del 1921 e termina alla vigila della marcia su Roma nel 1922. Siamo agli inizi del Fascismo, quando le camicie nere cominciavano a sopprimere qualsiasi altra tendenza politica, e si spingevano ad usare la violenza senza indugiare. Due delle vittime di questa violenza furono Berberi e l’avvocato socialista Enrico Cannavale che quando “un colpo di bastone gli cadde sulla testa violentemente” “Cadde di schianto a terra”.
Il rapporto che intercorre tra il tempo della storia ed il tempo del racconto è strettissimo, in quanto il romanzo stesso si basa sull’ascesa del Fascismo e sulla sua espansione, anche in paesini del Molise così remoto come Calena o Morutri.
Nonostante il legame sia forte tra il romanzo ed il tempo, non vi sono molte date che appartengono alla grande storia, e si può classificare tale solo la marcia su Roma del 1922.
[18] Giorgio Bassani - Nacque a Bologna il 4 marzo del 1916 da una famiglia della borghesia ebraica, ma trascorse l’infanzia e la giovinezza a Ferrara, destinata a divenire il cuore pulsante del suo mondo poetico, dove si laureò in Lettere nel 1939. Durante gli anni della guerra partecipò attivamente alla Resistenza e conobbe anche l’esperienza del carcere; nel 1943 si trasferì a Roma, dove visse per tutta la vita. Dopo il ’45 che si dedicò all’attività letteraria in maniera continuativa, lavorando sia come scrittore (poesia, narrativa e saggistica) sia come operatore editoriale: è significativo ricordare che fu proprio lui ad appoggiare presso l’editore Feltrinelli la pubblicazione del Il gattopardo, romanzo segnato dalla stessa visione liricamente disillusa della storia che si incontra anche nelle opere dell’autore de Il giardino dei Finzi Contini. Bassani ha lavorato anche nel mondo della televisione, arrivando a ricoprire il ruolo di vicepresidente della Rai; ha insegnato nelle scuole ed è stato anche docente di Storia del teatro presso l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma. Ha partecipato attivamente alla vita culturale romana collaborando a varie riviste, tra cui «Botteghe Oscure», rivista di letteratura internazionale uscita tra il ’48 e il ’60. Va inoltre ricordato il suo lungo e costante impegno come presidente dell’associazione Italia Nostra, creata in difesa del patrimonio artistico e naturale del Paese. Dopo alcune raccolte di versi e la pubblicazione in un unico volume delle Cinque storie ferraresi nel 1956, Bassani raggiunse il grande successo di pubblico con Il giardino dei Finzi Contini (1962): nel 1970 il romanzo riceverà anche un’illustre trasposizione cinematografica per opera di De Sica, dalla quale però Bassani vorrà sempre prendere le distanze. Le opere successive dello scrittore, sviluppate tutte intorno al grande tema geografico-sentimentale di Ferrara, sono Dietro la porta (1964); L’Airone (1968); L’odore del fieno (1973), riunite nel 1974 in un unico volume insieme al romanzo breve Gli occhiali d’oro (1958), dal significativo titolo Il romanzo di Ferrara. Dopo un lungo periodo di malattia, segnato anche da dolorosi contrasti all’interno della sua famiglia, Bassani si spense a Roma il 13 aprile del 2000.
[19] Il giardino dei Finzi Contini - Il giardino dei Finzi Contini è un romanzo scritto da Giorgio Bassani tra il 1958-1961, il libro è diviso in quattro capitoli racchiusi tra un prologo e un epilogo.
Romanzo avvincente sia sul piano storico che su quello sentimentale, la sua componente fondamentale è la memoria attraverso la quale Bassani è riuscito a ricostruire un pezzo di storia del difficile periodo fascista.
Nel 1938 furono promulgate le leggi razziali in attuazione delle quali tutte le famiglie ebraiche e gruppi di giovani ebrei furono esclusi dalle forze armate, dalle industrie, dalle attività commerciali, dagli enti pubblici e privati.
Bassani ha scritto un romanzo con bellissima valenza storica: storica è l’inconcepibile discriminazione nei confronti degli ebrei e storica è la descrizione del rituale della cena pasquale il Kippur.
L’autore si immedesima nella realtà storica che lo ha circondato, lo riconduce al presente e si confronta nel fluire del tempo.
Nel romanzo egli descrive la triste sorte della famiglia ebraica dei Finzi Contini proprietari a Ferrara di un’enorme villa all’interno della quale è ambientato il romanzo.
L’io narrante è ospitato da questa famiglia che gli permette di poter completare gli studi usufruendo dei testi presenti nella loro biblioteca di famiglia.
Anche se la storia raccontata in questo romanzo è confinata al passato le violenze e le discriminazioni razziali e religiose continuano ancora oggi a persistere nella nostra società.
[20] Patto di Monaco - Accordo raggiunto nella capitale bavarese tra i rappresentanti di Germania (Hitler), Gran Bretagna (N. Chamberlain), Francia (E. Daladier) e Italia (Mussolini), che consentì ai tedeschi di occupare (1-10 ottobre) il territorio cecoslovacco abitato dalla forte minoranza tedescofona dei Sudeti.
La regione fin dal 1933 era oggetto di rivendicazioni territoriali dei nazionalsocialisti, miranti a riunire tutte le popolazioni di lingua e tradizioni tedesche in un unico stato.
L'esplicita minaccia di Hitler (12 settembre 1938) di procedere all'annessione violenta dei Sudeti e il montare della tensione internazionale spinsero Mussolini a farsi promotore dell'incontro di Monaco, dove non furono invitati i dirigenti cecoslovacchi, diretti interessati.
Il cedimento di britannici e francesi alle pretese naziste in nome dell'appeasement provocò in Hitler la convinzione che le potenze occidentali non avrebbero scatenato un grave conflitto di fronte ad altre espansioni del Terzo Reich, mentre presentò il duce italiano come salvatore della pace e contribuì ad avvicinare l'Urss ai tedeschi (successivo accordo dell'agosto 1939).
Il compromesso si rivelò fragile, poiché l'intera Cecoslovacchia fu poi occupata dalla Germania nel marzo 1939.
[21] La guerra civile spagnola - La guerra civile spagnola scoppia nel 1936. Alle elezioni politiche di febbraio le forze di sinistra tornano al governo, grazie al primo esperimento di Fronte popolare. Il 18 luglio però la situazione precipita: alcune guarnigioni militari insorgono contro il governo repubblicano e il generale Franco sbarca sul suolo nazionale con le truppe coloniali, dal Marocco.
È l’inizio della guerra civile, con pesanti ripercussioni anche sul piano internazionale. Sarà infatti la prova generale della seconda guerra mondiale perché il conflitto vede impegnate a sostegno delle due parti in lotta da un lato Urss, Messico e, a fasi alterne, Francia, e dall’altro Italia, Germania e Portogallo.
La Spagna è anche il teatro del primo scontro armato tra fascismo e antifascismo, con la partecipazione di molti intellettuali da ogni parte del mondo, a partire dagli Usa, e con gli italiani – le camicie nere di Mussolini da un lato, e gli antifascisti e gli anarchici dall’altro – impegnati su entrambi i fronti. La guerra si concluderà nel marzo del '39, con la vittoria di Francisco Franco e l'instaurazione di una dittatura fondata sul potere legislativo del Caudillo e sulla repressione degli oppositori, che durerà fino al 1975 e causerà la morte di 200.000 antifascisti, centinaia di migliaia condannati a pene varie, 300.000 esiliati.
[22] Vasco Pratolini - L'infanzia e la giovinezza di Vasco Pratolini, nato a Firenze nel 1918, sono state particolarmente dure e travagliate e la sua formazione è stata alquanto diversa da quella tradizionale del letterato italiano. Orfano di madre a cinque anni, vive coi nonni, modestamente, prima in via de' Magazzini poi in via del Corno (che descriverà nei suoi romanzi), fa studi irregolari e vari mestieri fino a diciotto anni: lasciato poi il lavoro si impegna in un intenso studio da autodidatta, ma negli anni fra il 1935 e il 1936, ammalatosi di tubercolosi, viene ricoverato in sanatorio. Tornato definitivamente nel 1951 a Roma, Pratolini pubblica, nel 1955, Metello, primo testo della trilogia Una storia italiana, proseguita con Lo scialo (1960, ma rielaborato notevolmente in una nuova edizione del 1976) e con Allegoria e derisione (1966): si tratta di «un grande affresco storico intriso di interessi ideologici, sociali, e morali: dalla lotta per il riscatto sociale del mondo operaio, in Metello, attraverso il quadro della società borghese durante il fascismo con Lo scialo, fino alla crisi delle ideologie nel dopoguerra consegnata alle pagine inquiete di Allegoria e derisione» (G. Luti).
La pubblicazione nel 1981 de Il mantello di Natascia - testimonianze e notazioni risalenti agli anni Trenta - ha interrotto il lungo silenzio seguito alla pubblicazione della trilogia.
Pratolini è morto a Roma nel gennaio del 1991.
[23] Cronache di poveri amanti - Via del Corno è la protagonista di Cronache di poveri amanti e le cronache che mette in scena sono quelle della Firenze negli anni che vanno dal 1920 al 1925. Sono cronache che diventano storia.
Via del Corno «è tutta udito» ed è ben diversa da Via dei Robbia, la via dei borghesi, dove le stanze sono in ordine, dove la gente non è curiosa; in Via del Corno anche quando le finestre sono chiuse, gli occhi «marinano il sonno»; in Via del Corno il teatrino di ogni famiglia diviene argomento di conversazione.
Aurora Cecchi, figlia di uno spazzino, Milena Bellini figlia di un ufficiale giudiziario, Bianca Quagliotti figlia di un dolciere ambulante, Clara Lucatelli figlia di uno sterratore. Maciste, Ugo e Mario, i «sovversivi», Osvaldo e Carlino i «camerati». La «Signora», che dalla finestra osserva le vicende dei «cornacchiai», con lo sguardo del Male, quello di una donna senza cuore, sola, che ha perso la bellezza di un tempo e ha sogni folli e perversi. Ma altri ancora sono i nomi che compaiono in questo quartiere, con case dalle finestre aperte per il caldo, case con i ventilatori, parole dette sottovoce nella lontananza dei davanzali, i due angoli della strada per molti di loro sono l'orizzonte. I dolori hanno cambiato l’espressione dei loro occhi. Alcune donne hanno dovuto crescere per forza, non portano più i capelli con le trecce lunghe, hanno un taglio alla garçonne, sono le donne con più esperienza, sono le prostitute. Elisa, «dal corpo robusto ma dall’animo corroso», si trascina dietro gli uomini con lo sguardo, ma non può permettersi di innamorarsi di Bruno solo perché lui l’ha desiderata per anni, perché Bruno ha ben chiara la differenza tra le donne da sposare e quelle con cui fare l’amore.
Osvaldo e Maciste i due antifascisti, Osvaldo e Carlino i due fascisti. Pratolini ce lo dice, ognuno di loro ha scelto la propria vocazione, il proprio destino, perché il confine tra il bene e il male è molto sottile, «Infinite sono le strade della Grazia, sterminate come quelle del Peccato».
Osvaldo, consapevole di aver tradito «teme i propri pensieri», Ugo ha paura di aver perso la stima dei propri compagni. Nessun eroe è impavido, ma diviene coraggioso perché ha consapevolezza della sua paura.
Si corre avanti, si scappa, si fugge, si fa la rivoluzione. E la rivoluzione si fa con il sidecar di Maciste, «la stella cometa che annunzia il diluvio agli uomini di buona volontà».
Dopo aver lottato e «essersi sudati la vita» il viso avrà perso lo sguardo della curiosità, a volte anche quello della speranza, ciascuno avrà la propria storia scritta e non sempre potrà ribellarsi agli eventi, ma continuerà a «correre sempre più avanti per non morire».
[24] Giovanni Gentile - Nacque a Castelvetrano nel 1875. Docente a Palermo dal 1906 al 1914; passò poi a Pisa alla cattedra di filosofia teoretica; nel 1915 partecipò attivamente al Comitato pisano di preparazione e mobilitazione civile, secondo i principi espressi ne La filosofia della guerra (1914).
Nel 1919 venne chiamato all'Università di Roma; dal 1922 al 1924 fu ministro della Pubblica Istruzione e legò al suo nome la riforma della scuola.
A conclusione di quanto aveva scritto e fatto nel decennio precedente, nel 1923 si iscrisse al partito fascista, adoperandosi per dargli un programma ideologico e culturale: primo atto di questo suo impegno fu il Manifesto degli intellettuali del fascismo (1925), a cui Croce rispose con un contromanifesto che da allora rese insanabile il contrasto fra i due filosofi.
Gentile tentò di collegare il Fascismo direttamente al Risorgimento. Dal 1920 in poi il filosofo diresse il Giornale critico della filosofia italiana e numerose collane di classici e di testi scolastici; dal 1925 al 1944 diresse l'Enciclopedia Italiana.
Negli ultimi anni del fascismo Gentile tentò di porsi al di sopra dei contrasti con un nuovo programma di unità nazionale (“Discorso agli Italiani”, 1943).
Fu ucciso dai partigiani fiorentini il 15 aprile del 1944 in quanto considerato uno dei maggiori responsabili del regime fascista.
[25] demosocialista: di ispirazione democratica e socialista, ma il termine rientra nel linguaggio spregiativo fascista.
[26] unanimità entusiastica: qui siamo di fronte ad un vero e proprio falso. Se vi fosse stata una tale unanimità, perché ricorrere allora alle leggi del 3 gennaio 1925 contro la stampa e i partiti di opposizione?
[27] Benedetto Croce - Nacque a Pescasseroli in Abruzzo il 25 febbraio 1866.
Il più grande mostro di cultura italiano non era laureato: aveva studiato in casa, figlio di ricchi possidenti di Pescasseroli.
Legato per tutta la vita a Napoli, Benedetto Croce era dotato di una enorme capacità lavorativa, durata fino alla morte, a 86 anni. Messo al riparo dalle necessità materiali da un ingente patrimonio personale, svolse come libero scrittore un'ininterrotta e intensa attività nei più svariati campi della filosofia, della storia, della letteratura e dell'erudizione.
Filosofo e mentore politico, Croce era un liberale molto moderato, diffidente verso il suffragio universale fino alla prima guerra mondiale.
Teorico dello storicismo e dell'idealismo, è conosciuto per la sua teoria delle quattro sfere dello spirito: la morale, la politica, l'estetica e l'etica; ognuna di queste ha, secondo Croce, una propria autonomia, ma tutte godono della circolarità dello spirito.
Giolittiano, senatore di nomina regia, fu ministro della Pubblica istruzione nel dopoguerra.
All'avvento del Fascismo, fino al delitto Matteotti, dimostrò grande indulgenza verso il regime. Legato da amicizia con Giovanni Gentile (che fu per molti anni, e fin dall'inizio nel 1903, collaboratore della sua rivista La critica), Croce ruppe questa amicizia quando Gentile pubblicò il Manifesto degli intellettuali fascisti. Croce promosse sulla sua rivista un contromanifesto che diventò un riferimento dell'antifascismo interno (pubblicato il 1° maggio 1925). A questa rottura, seguì da ambo le parti una polemica puntigliosa, durata molti anni. Il regime fascista, per costruirsi un alibi di fronte agli ambienti internazionali della cultura, consentì tacitamente a Croce una certa libertà di critica politica. Mussolini chiese: “Quante copie tira Critica?”. Gli risposero: “1500”. “Allora lasciatelo stare”.
Croce pensava del Fascismo che fosse una brusca interruzione, frutto di una necrosi spirituale portata dalla guerra. Croce si avvalse di questa possibilità nei libri e nelle note che pubblicava su La critica per una difesa degli ideali della libertà.
Esiliato in patria, diventò il riferimento di molti intellettuali italiani.
Nel 1944, elaborò la teoria del Fascismo come parentesi.
Nel 1943-47 fu presidente del Partito Liberale, e partecipò ai governi Badoglio e Bonomi e alla Costituente. Decisamente avverso al comunismo, si commosse leggendo le lettere di Gramsci, di cui loda il valore letterario.
Collaborò anche al Mondo di Pannunzio.
Morì a Napoli il 20 novembre 1952.
La poesia, l’arte, la bellezza erano ritenute dai Positivisti e dagli Evoluzionisti, piacere dei sensi, piacere di associazioni psichiche, piacere di abitudini.
Contro tutto questo, egli riconduce l’arte a espressione della vita dello spirito ed insiste che proprio questo aspetto va ricercato in un’opera d’arte.
La logica dei distinti consente a Croce di salvaguardare la diversità e l’autonomia dell’arte rispetto alle altre forme di vita dello spirito. L’arte è autonoma dalla filosofia, dell’economia, della scienza, dalla morale. Né è mezzo di propaganda politica o etco-religiosa. Se si trasforma in pensiero logico, l’arte viene meno.
L’arte, non è giudicabile in base a criteri di carattere scientifico, morale o pratico-utilitario. Ad esempio non si può dire che un’opera d’arte, in quanto tale, cioè prodotto artistico, sia immorale, anche quando i suoi contenuti riguardino atti di per sé riprovevoli.
L’arte è per Croce la conoscenza dell’individuale, l’espressione dell’individuale in forma fantastica e sentimentale. In essa l’uomo intuisce ed esprime le immagini della fantasia senza preoccuparsi se esse siano vere, se corrisponda loro una realtà.
Per quanto riguarda la poesia, secondo lui, il sentimento, nell’opera poetica è superato nella sua immediatezza. Il sentimento immediato non è, infatti, linguaggio, ma può tradursi solo in un insieme di suoni articolati, senza raggiungere la poesia. L’espressione poetica è, invece, la morte del sentimento immediato. In essa il sentimento si crea insieme alla forma
[28] «il fascismo non poteva e non doveva essere altro, a mio parere, che un ponte di passaggio per la restaurazio­ne di un più severo regime liberale... Bisogna dar tèmpo allo svolgersi del processo di trasformazione del fascismo » dichiarava sul giornale d'italia del 9 luglio 1924)
[29] doverosa.,, morale: attento a questo problema qui lucidamente cen­trato: è indiscutibile e doveroso che nella vita associata gli interessi e le prospettive del tutto, della comunità contino più di quelli del singolo; si tratta di scegliere forme ed istituti di vita collettiva che permettano l'ele­vamento e la maturazione, attraverso la partecipazione, del singolo. E non è sostenibile che le forme autoritarie permettano ciò.
[30] quella fede... bandiera: è la parte più commossa e, si direbbe, più accorata del « manifesto ». Croce guarda al lungo travaglio per la creazione dello Stato liberale come ad un'età eroica e agli ideali della libertà democra­tica come ad ideali perenni: sarà da questo nostalgico rimpianto del passato che scaturiranno, a distanza di qualche anno da questo scritto, la storia d'italia dal 1870 al 1915 e la storia d'europa.
[31] favore... conservatrici'. è una evidente autocritica. Nell'aggiunta del 1950 al contributo alla critica di me stesso il Croce più esplicitamente dirà: considerai il fascismo, a dire il vero poco accortamente, un episodio del dopoguerra, con alcuni tratti di reazione giovanile e patriottica, che si sa­rebbe dissipato senza far male e anzi lasciando dietro di sé qualche effetto buono. Non mi veniva lontanamente nel pensiero che l'Italia potesse farsi togliere dalle mani la libertà che le era costata tanti sforzi e tanto sangue e si teneva dalla mia generazione un acquisto per sempre. Ma l'inverosimile accadde...
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