Dopo il ‘biennio rosso’ (1920-21), con l’occupazione delle fabbriche e gli scioperi ad oltranza, che aveva alimentato la già diffusa paura del comunismo, si manifestò una forte esigenza di ordine, disciplina e rispetto che il Fascismo dava l’impressione di voler tutelare; bisogna anche tenere in considerazione che l’ideologia fascista affermava in origine un ideale di collaborazione tra le classi sociali mediante una rappresentanza corporativa all’interno del parlamento, opposta alla teoria comunista della lotta di classe.
Nei primi anni di regime buona parte della popolazione, escludendo ovviamente la nutrita schiera di antifascisti, nonostante i fascisti non si fossero affatto istituzionalizzati, nonostante Mussolini avesse istituito polizie segrete e squadriglie, nonostante che con le ‘leggi fascistissime’ e il simbolico omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti fossero stati eliminati diritti e libertà, appoggiava con convinzione la causa fascista, anche perché il regime aveva migliorato le condizioni lavorative degli operai, aveva intrapreso opere di bonifica ed ammodernamento con la promessa di dare nuove terre al popolo, aveva diminuito l’inflazione ed aveva anche pianificato missioni coloniali per portare l’Italia al rango delle maggiori potenze europee.
Oltre a questo non è da sottovalutare l’aspetto culturale che riguarda l’ascesa del fascismo che, a parte i citati ideali originari, non possedeva un vero e proprio substrato intellettuale: molti tra i maggiori artisti, letterati e scienziati del tempo (Marconi, Pirandello, Marinetti per citarne alcuni) appoggiarono il regime e la sua riforma scolastica fortemente voluta dal ministro-filosofo Giovanni Gentile, che portò ad una diversificazione dell’offerta formativa.
Venne pianificata una politica culturale ufficiale che era finalizzata ad orientare gli italiani in senso nazionalistico e bellicistico.
«Il Ministero della Cultura Popolare, o Min.Cul.Pop. – scrive Tony Barbato nel suo articolo MINCULPOP: informazione e cultura al servizio del fascismo – fu lo strumento di manipolazione della cultura, adottata nell’Italia fascista che, attraverso un controllo diretto sulla stampa e, dunque, su ogni forma di notizia circolante, mirava alla diffusione del messaggio fascista, all’abbattimento di ogni forma avversa al regime e, non ultimo, all’esaltazione dell’immagine dello Stato italiano, che appariva ricco di virtù e quasi totalmente privo di lacune».
Dal libro al moschetto
di Benito Mussolini[1] [1923]
Tratto da un discorso rivolto agli studenti universitari di Padova il 1° giugno 1923, questo brano testimonia in maniera esemplare la concezione strumentale della cultura e delle istituzioni scolastiche che Mussolini ha fin dagli inizi della sua azione di governo. Tutto il merito delle Università consiste, secondo lui, nell’essere state fucina di volontari, di ‘superbi plotonisti’ che attaccano le trincee nemiche, di giovani camicie nere.
Più tardi, all’epoca dei vagheggiamenti imperialistici tutto ciò troverà efficace sintesi nello slogan «libro e moschetto - fascista perfetto». Ma quale libro? Solo quello che potesse concretamente favorire ed esaltare il ricorso al moschetto. E quindi solo una cultura dominata dall’esaltazione dell’aggressività e dalla violenza, dalla polemica antidemocratica, dalle mitologie nazional-imperialistiche.
Il Governo conta sulle Università, perché sono anch’esse dei punti fermi e gloriosi nella via dei popoli.
Io non esito ad affermare che se la Germania ha potuto resistere alla suggestione del bolscevismo, ciò è dovuto soprattutto alla forte tradizione universitaria di quel popolo.
In fondo, coloro che si avvicinano di frequente alla comunione dello spirito non possono rimanere a lungo infettati da dottrine assurde ed antivitali. Un popolo come il nostro, un popolo di grande ingegno e di grande passione è necessariamente un popolo di equilibrio e di armonia. Il Governo farà tutto il possibile per le Università italiane. Il Governo comprende la loro enorme importanza storica, rispetta le loro nobilissime tradizioni, vuole portarle all’altezza delle necessità moderne.
Tutto ciò non può essere opera di un mese: non si può dare in sei mesi fondo all’universo. Noi non facciamo che liberare il terreno da tutti i detriti che la vecchia casta politica ci ha lasciato in tristissima eredità.
Come potrebbe un Governo di combattenti avere in dispregio le Università? Ciò sarebbe non solo assurdo, ma delittuoso. Dalle Università sono usciti a migliaia i volontari; sono usciti a diecine di migliaia quei superbi plotonisti che andavano all’assalto delle trincee nemiche con un disprezzo magnifico della morte: sono i compagni la cui memoria noi portiamo profondamente incisa nei nostri cuori. Voi inciderete i loro nomi sulle porte di bronzo, ma ben più imperitura della incisione sulle porte di bronzo è la loro memoria nei nostri spiriti. Non li possiamo dimenticare!
Come non dimenticheremo che dalle Università sono usciti a migliaia le giovani camicie nere: quelle che a un dato momento hanno interrotto la vicenda ingloriosa della politica italiana; che hanno preso per il collo, con dita robuste, tutti i vecchi profittatori che apparivano sempre più inadeguati con la loro paralitica decrepitudine alla impazienza esuberante delle nuove generazioni italiane.
Ebbene, finché ci saranno Università in Italia — e ce ne saranno per un pezzo — finché ci saranno dei giovani che frequenteranno queste Università e che si metteranno in contatto con la storia di ieri, preparando la storia di domani; finché ci saranno questi giovani, le porte del passato sono solidamente chiuse[2]. Io ne prendo garanzia formale. Ma aggiungo di più: che finché ci saranno questi giovani e queste Università la Nazione non può perire. La Nazione non può diventare schiava perché le Università infrangono i ceppi, non ne creano di nuovi.
Se domani sarà ancora necessario per l’interno o per oltre le frontiere suonare la grande campana della Storia, io sono sicuro che le Università si vuoteranno per tornare a ripopolare le trincee.
(da B. Mussolini, Discorsi, Bologna, Zanichelli, 1942)
Giuseppe Bottai[3]
Fascismo-azione e fascismo-cultura
Nei primi anni di regime buona parte della popolazione, escludendo ovviamente la nutrita schiera di antifascisti, nonostante i fascisti non si fossero affatto istituzionalizzati, nonostante Mussolini avesse istituito polizie segrete e squadriglie, nonostante che con le ‘leggi fascistissime’ e il simbolico omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti fossero stati eliminati diritti e libertà, appoggiava con convinzione la causa fascista, anche perché il regime aveva migliorato le condizioni lavorative degli operai, aveva intrapreso opere di bonifica ed ammodernamento con la promessa di dare nuove terre al popolo, aveva diminuito l’inflazione ed aveva anche pianificato missioni coloniali per portare l’Italia al rango delle maggiori potenze europee.
Oltre a questo non è da sottovalutare l’aspetto culturale che riguarda l’ascesa del fascismo che, a parte i citati ideali originari, non possedeva un vero e proprio substrato intellettuale: molti tra i maggiori artisti, letterati e scienziati del tempo (Marconi, Pirandello, Marinetti per citarne alcuni) appoggiarono il regime e la sua riforma scolastica fortemente voluta dal ministro-filosofo Giovanni Gentile, che portò ad una diversificazione dell’offerta formativa.
Venne pianificata una politica culturale ufficiale che era finalizzata ad orientare gli italiani in senso nazionalistico e bellicistico.
«Il Ministero della Cultura Popolare, o Min.Cul.Pop. – scrive Tony Barbato nel suo articolo MINCULPOP: informazione e cultura al servizio del fascismo – fu lo strumento di manipolazione della cultura, adottata nell’Italia fascista che, attraverso un controllo diretto sulla stampa e, dunque, su ogni forma di notizia circolante, mirava alla diffusione del messaggio fascista, all’abbattimento di ogni forma avversa al regime e, non ultimo, all’esaltazione dell’immagine dello Stato italiano, che appariva ricco di virtù e quasi totalmente privo di lacune».
Dal libro al moschetto
di Benito Mussolini[1] [1923]
Tratto da un discorso rivolto agli studenti universitari di Padova il 1° giugno 1923, questo brano testimonia in maniera esemplare la concezione strumentale della cultura e delle istituzioni scolastiche che Mussolini ha fin dagli inizi della sua azione di governo. Tutto il merito delle Università consiste, secondo lui, nell’essere state fucina di volontari, di ‘superbi plotonisti’ che attaccano le trincee nemiche, di giovani camicie nere.
Più tardi, all’epoca dei vagheggiamenti imperialistici tutto ciò troverà efficace sintesi nello slogan «libro e moschetto - fascista perfetto». Ma quale libro? Solo quello che potesse concretamente favorire ed esaltare il ricorso al moschetto. E quindi solo una cultura dominata dall’esaltazione dell’aggressività e dalla violenza, dalla polemica antidemocratica, dalle mitologie nazional-imperialistiche.
Il Governo conta sulle Università, perché sono anch’esse dei punti fermi e gloriosi nella via dei popoli.
Io non esito ad affermare che se la Germania ha potuto resistere alla suggestione del bolscevismo, ciò è dovuto soprattutto alla forte tradizione universitaria di quel popolo.
In fondo, coloro che si avvicinano di frequente alla comunione dello spirito non possono rimanere a lungo infettati da dottrine assurde ed antivitali. Un popolo come il nostro, un popolo di grande ingegno e di grande passione è necessariamente un popolo di equilibrio e di armonia. Il Governo farà tutto il possibile per le Università italiane. Il Governo comprende la loro enorme importanza storica, rispetta le loro nobilissime tradizioni, vuole portarle all’altezza delle necessità moderne.
Tutto ciò non può essere opera di un mese: non si può dare in sei mesi fondo all’universo. Noi non facciamo che liberare il terreno da tutti i detriti che la vecchia casta politica ci ha lasciato in tristissima eredità.
Come potrebbe un Governo di combattenti avere in dispregio le Università? Ciò sarebbe non solo assurdo, ma delittuoso. Dalle Università sono usciti a migliaia i volontari; sono usciti a diecine di migliaia quei superbi plotonisti che andavano all’assalto delle trincee nemiche con un disprezzo magnifico della morte: sono i compagni la cui memoria noi portiamo profondamente incisa nei nostri cuori. Voi inciderete i loro nomi sulle porte di bronzo, ma ben più imperitura della incisione sulle porte di bronzo è la loro memoria nei nostri spiriti. Non li possiamo dimenticare!
Come non dimenticheremo che dalle Università sono usciti a migliaia le giovani camicie nere: quelle che a un dato momento hanno interrotto la vicenda ingloriosa della politica italiana; che hanno preso per il collo, con dita robuste, tutti i vecchi profittatori che apparivano sempre più inadeguati con la loro paralitica decrepitudine alla impazienza esuberante delle nuove generazioni italiane.
Ebbene, finché ci saranno Università in Italia — e ce ne saranno per un pezzo — finché ci saranno dei giovani che frequenteranno queste Università e che si metteranno in contatto con la storia di ieri, preparando la storia di domani; finché ci saranno questi giovani, le porte del passato sono solidamente chiuse[2]. Io ne prendo garanzia formale. Ma aggiungo di più: che finché ci saranno questi giovani e queste Università la Nazione non può perire. La Nazione non può diventare schiava perché le Università infrangono i ceppi, non ne creano di nuovi.
Se domani sarà ancora necessario per l’interno o per oltre le frontiere suonare la grande campana della Storia, io sono sicuro che le Università si vuoteranno per tornare a ripopolare le trincee.
(da B. Mussolini, Discorsi, Bologna, Zanichelli, 1942)
Giuseppe Bottai[3]
Fascismo-azione e fascismo-cultura
[1928]
Nel brano, il problema affrontato è, come nel brano di Mussolini, ancora quello dei rapporti fra Fascismo e cultura, ma è opportuno sottolineare come le due posizioni si incontrino e, nel contempo, si differenzino. C’è in Bottai — che nell’attività politica portava una sua notevole componente culturale — il senso della complessità del rapporto fra edificazione dello Stato e funzione dell’Università: aperta critica ad un certo autoritario disprezzo per gli intellettuali, significativa interpretazione del mito della «potenza» d’Italia, prospettato come potenza di una cultura e di una civiltà nuove.
Tuttavia, in questa maggiore complessità di impostazione, in una certa «fronda», l’obiettivo di fondo resta quello della strumentalizzazione e della finalizzazione politica della cultura: ‘il principio animatore del fascismo deve essere elevato a comune denominatore di ogni ordine di studio.’
Il brano è tratto da un discorso pronunziato il 13 novembre 1928 per l’inaugurazione del Corso di legislazione corporativa presso l’Università di Pisa.
Cerchiamo di cogliere l’intima significazione dei rapporti sempre più vivi, più assidui e, mi auguro, più fecondi, che si vanno creando tra gli uomini del Fascismo e le Università Italiane. È bene che tali rapporti si creino e si ricreino di continuo. Ma occorre che non rimangano mera forma; occorre che divengano sostanza d’una nuova, più fusa compenetrazione tra il mondo della politica attuale e il mondo della cultura, che ha, o deve tornare ad avere, nell’Università il suo centro di formazione, di propulsione e d’irradiazione. [...]
Occorre risolvere l’assurda antitesi con cui, da campi opposti, come s’è visto, da quello concluso della cultura intellettualistica e dall’altro senza confini dell’ignoranza presuntuosa, si tenta di generare un pratico contrasto tra Fascismo-azione e Fascismo-cultura. Basta, a tal uopo, ripensare al breve ma denso corso della nostra Rivoluzione, per ritrovarci nelle successive fasi, un integramento non nominale, ma storico dell’un Fascismo nell’altro. Il Fascismo fu, nei suoi inizi, reazione contro uno stato di cose a tutti insopportabile, che non importa qui descrivere, tanto, nei suoi aspetti di dissoluzione statale e nazionale, esso è vivo nella nostra memoria. Una reazione non uniforme, anzi diversa, da una parte all’altra d’Italia, dal nord industriale al sud rurale, da provincia a provincia e, nella stessa provincia, da paese a paese e, nel paese medesimo, da individuo a individuo. In quell’aspra lotta di difesa, comune era il nemico, ma contro di esso ciascuno combatteva per quel ch’era alla sua coscienza più chiaro, interesse o ragione ideale. Solo quando il Fascismo marcia su Roma le singole volontà si stringono nell’unica volontà che cancella ogni particolarismo di individui, di categorie, di ceti, di regioni, per la fondazione del nuovo Stato.
La comunione delle volontà non è ancora la comunione del pensiero, della dottrina, del sistema, del metodo. Il che è un bene nei periodi dell’azione diretta. Le rivoluzioni, allorquando combattono per il loro trionfo, guadagnano d’una tal quale indeterminatezza e imprecisione d’idee, così che nel loro ondeggiante programma, ciascuno possa cogliervi o intendervi quel che più si attaglia al suo gusto o al suo interesse. Ma, quando l’azione deve riflettersi e, più che riflettersi, tradursi concretamente nelle leggi, negli istituti o addirittura, come noi stiamo facendo, nella costituzione d’un popolo, l’unità del pensiero è necessaria e, ove essa manchi, si ha l’incongruenza legislativa e giuridica, per cui una rivoluzione può affermarsi in un ordine di istituti e in altro contraddirsi e negarsi. A mantenerla, a temperarla, ad accrescerla dev’essere, io dico, volta ogni nostra cura, in questo tempo e più ancora in quelli cui andiamo incontro. [...]
Solo un pensiero unitario, solo un’ordinata cultura possono stabilire i rapporti e le connessioni necessarie a dare alla politica di una classe dirigente un respiro di politica nazionale. Una grande politica non è, in fondo, che un metodo di pensare, studiare, predisporre, e ordinare i rapporti fra i valori, ponderabili e imponderabili, che si agitano nella vita di un popolo; un’energia che, ricollegando i particolari all’universale, determina le qualità fondamentali d’un processo storico e crea, con moto unitario e unificatore, uno stile politico e il carattere d’un’epoca. In questi termini si pone, secondo me, il problema della cultura nella fase attuale del Fascismo.
Il Fascismo-cultura, in cui, come s’è visto, si integra, non si nega il Fascismo-azione, è il fondamento del Fascismo-stato. Già troppo certi demagogici e facili incitamenti all’incultura hanno devastato anime e coscienze, perché noi si debba seguitare a prestar fede a quegli empirici, che si vantano di procedere lume di naso. Io non credo alla pratica dei praticoni. Chi non sa organizzare le proprie idee non può pretendere di organizzare quelle degli altri. Nel nostro tipo di Stato, che non è un’arida costruzione burocratica (sia che si tratti della vecchia burocrazia, sia che si tratti di quelle ora nascenti nell’orbita sindacale), non basta una sorta di contabile praticità. Il nostro Stato impegna i cittadini nel loro spirito e nella loro coscienza; è sugli spiriti e sulle coscienze che occorre operare per servirlo. [...]
In questo punto preciso si innesta, secondo me, la funzione universitaria nel Fascismo: nella preparazione d’una cultura viva, creatrice d’una classe di uomini atta a dirigere, nella politica, nella scienza, nell’arte. L’Università deve adeguarsi a un compito di questa specie. Tutti i grandi aspetti d’una civiltà, dalla religione alla filosofia, dalla scienza alla letteratura, dagli istituti politici alle organizzazioni economiche, sono riducibili a un principio, unico, che tutti li informi. Il principio animatore del Fascismo deve essere elevato a comun denominatore di ogni ordine di studi. Di ogni ordine: che, se la necessità di una rivoluzione culturale è soprattutto sensibile negli studi giuridici, politici, economici e sociali, non meno urgente è anche in altri ordini di studi, dove prevalgono tuttavia indirizzi in contrasto con la formazione fascista del carattere e della mente degli italiani. Noi non chiediamo all’Università di piegarsi alle finalità particolari e agli interessi contingenti degli uomini, con apologie ed esaltazioni di falsi valori. Non chiediamo bassi servizi, ma che il divino ufficio della cultura sia compiuto con gli occhi fissi alle nuove ideali verità, sorte dal sacrifizio d’una generazione. Sempre, negli anni della rivoluzione unitaria, dettero le Università italiane alla lotta idee e combattenti. Idee e combattenti si preparino esse a dare per le lotte di domani, per quelle che l’Italia affronterà, non più per la sua libertà, ma per la sua potenza: potenza di una cultura e d’una civiltà nuove, per tutto il mondo esemplari.
(da G. Bottai, Scritti, Cappelli, 1965)
Giuseppe Bottai
Il coraggio della concordia
Da Primato[4]
Questo è l’articolo di fondo, vero e proprio manifesto programmatico, con cui Bottai presentava la sua rivista ‘Piimato’ che iniziava le pubblicazioni nel marzo 1940 e sarebbe durata fino al luglio 1943.
L’articolo chiarisce l’obiettivo di fondo che Bottai si riprometteva con la sua rivista: agganciare le forze culturali italiane, «coinvolgerle», inserirle come forze attive e incidenti nella realtà politica italiana. D’altra parte, il fatto che Bottai, sempre particolarmente interessato al rapporto e all’incontro fra Fascismo e cultura, fondasse una rivista di cultura con questi propositi proprio ora, in pieno clima di guerra, è la prova evidente che in vent’anni quell’incontro non c’era stato. L’articolo cioè è una testimonianza storica fondamentale della mancata «fascistizzazione» della cultura del ventennio.
«Chi di noi non ha figlio, fratello od amico che spenda il sangue e la gioventù nelle guerre?»
La domanda che un poeta combattente faceva più di cent’anni or sono, avrebbe ancor oggi - proprio oggi, anzi - un singolare, potente accento di verità.
L’Europa è battuta dal vento della guerra, gli eserciti si spiano e si logorano dietro le loro «linee» d’acciaio e di cemento, nulla sembra più attrarre e commuovere che non sia la preparazione o il conflitto delle armi e delle economie. Sola regione d’ordine e di pace, l’Italia, che vigila, non con la fiacchezza rassegnata dei nati neutri, ma con l’intatto vigore di chi è nato vivo e vitale.
Nonostante tutto, si potrà dunque parlare, in quest’ultimo anno decisivo per la storia europea e mondiale, di letteratura e d’arte? Si potrà lavorare, varrà la pena di lavorare per la cultura? Non sono pochi coloro che, ad accennare soltanto cedesti argomenti – ora —, crollano il capo, amari e diffidenti, quasi temendo nell’interlocutore una nuova insidia, una nuova gratuita provocazione e condanna. A ragione e a torto.
Per molto tempo infatti, la cosiddetta repubblica delle lettere e delle arti è stata considerata terra di facile conquista politica. Zelatori truccati da defensores civitatis, appellandosi a un’autorità troppo più alta dei loro meriti e possibilità, hanno sentenziato a dritta e a rovescio, seminando spesso zizzania e diffidenza invece d’ispirare fiducia e concordia.
Fosse stata almeno la memoria pari all’impeto della polemica; quanti, confusi, avrebbero dovuto meditare le parole di Chi, dal Campidoglio, ravvisò[5] nell’arte – un’arte «sottratta ad esercitazioni troppo cerebraliste e pedanti o a speculazioni mercantili »
È pur vero, del resto, che molti « intellettuali » (qui, il termine . e il concetto stranieri tornano bene) hanno, col loro contegno e con la loro opera, provocato e giustificato spesso più di un’aspra reazione. Senza cadere in ingrate generalizzazioni, vogliamo alludere a coloro che, chiusi e insensibili a quanto non toccasse direttamente i loro gelosi interessi di casta, più solleciti delle mode che degli affetti, più attenti alla fortuna che al carattere dell’uomo, non videro o non vollero vedere, non intesero o non vollero intendere ciò che la realtà all’intorno proponeva o suggeriva.
Come ispidi bronchi[6], essi spiccano ancora, qua e là, nel paesaggio vivo e tormentato che ci si apre davanti, e suscitano, a guardarli, più che un atto di ribellione, un malinconico pensiero su una forza che è stata sprecata, su un’energia che è stata tradita. Così, per colpa dei panegiristi e dei «preziosi», ugualmente, si è venuto divulgando e accreditando presso molti questo paradosso: che le guerre, i grandi rivolgimenti politici, i mutamenti nel destino dei popoli, non hanno che fare, non riguardano, non incidono – come si dice – sulla forma mentis, sull’animo dell’intellettuale, o meglio dell’uomo di studio e d’arte che ne è invece, per sua natura e definizione, l’anticipatore e l’interprete. Si è venuto formando insomma l’assurdo modello di un intellettuale tollerabile nei tempi dolci e calmi e inutile, se non addirittura nocivo, nei tempi duri e travagliati.
E il paradosso è stato così gonfiato, che molti intellettuali fra i migliori, sentendosi coinvolti in un sospetto generico e colpiti da un pericoloso «complesso d’inferiorità», si sono tratti un poco in disparte, rischiando di smarrire il concetto della loro funzione, e anzi – diciamola pure la grande parola, un’altra di quelle grandi parole che un «gusto» troppo sottile va levando dai nostri vocabolari — e anzi, della loro missione nella società nazionale.
Niente di strano dunque se, fatto il computo di quante volte la parola «guerra» prevalga, ora, sulla parola «cultura», molti troveranno sorprendente e «coraggiosa», piuttosto che normale e del tutto aderente al momento, l’uscita di Primato, di una rivista cioè che reca per sottotitolo «lettere e arti d’Italia». Ma chi ha dimenticato, o vuoi dimenticare – per ricordare soltanto una giornata della nostra storia recente — che a portare in trincea, con quell’animo e quella volontà, i combattenti del ‘15 concorsero proprio le riviste e i giornali, i libri e i quaderni letterari conservati poi gelosamente nello zaino, e dimostratisi necessari alla salute dello spirito quanto per la difesa del corpo furono le Sipe e i «novantuno»[7]?
In un’Europa squilibrata, l’Italia, forte della sua unità e compattezza politica e morale, resta, torna ad essere — come sempre nelle ore tutt’ombre e luci violente della storia, — la sola, la più valida tutrice e custode della civiltà e della cultura. Primato spirituale che spetta agli uomini migliori di mantenere, accrescere, affinare, orgogliosamente coscienti del proprio compito. Nessun’altra arma, quanto quella, saprà resistere alla ruggine del tempo e agli assalti della tecnica; nessun’altra sarà altrettanto indispensabile, il giorno che il popolo potrà raccogliere i frutti di vent’anni di lotte.
Allora, gli intellettuali non dovranno apparire impigriti e disarmati. Ma quali intellettuali? Quegli ingegni che la natura ha creato alle lettere e alle arti, confidandoli «all’esperienza delle passioni, all’inestinguibile desiderio del vero, allo studio dei sommi esemplari, all’amore della gloria, all’indipendenza della fortuna e alla sana carità della patria».
La definizione foscoliana regge alla più esigente istanza attuale: v’è, nella sua sapiente gradazione, tutto ciò che vale a rendere intera l’immagine del letterato e dell’artista del nostro tempo. Un «elemento» di meno, e la definizione – come un edificio cui sia sottratto un sostegno essenziale, — rovina: e l’artista cade, e l’uomo con lui. « Qualunque manchi di queste proprietà negli uomini letterati, niun’arte mai, niun istituto d’università o d’accademia, niuna munificenza di principe farà sì che le lettere non declinino, e che anzi non cadano nell’abbiezione». Con questo spirito, dunque, Primato chiama a raccolta le forze vive della cultura italiana; e tenta, attraverso un’azione ordinata, concorde, e, il più possibile, nobilmente «popolare», di rendere concreto ed efficace il rapporto tra arte e politica, tra arte e vita; col proposito, insomma, di operare l’unione fra alta cultura e letteratura militante, fra Università e giornale, fra gabinetto scientifico e scuola d’arte, lavorando nel nome e nell’interesse della Patria.
Questa Patria che un tempo ricorreva frequente e spontanea nelle scritture dei letterati, nelle memorie degli artisti, nelle relazioni degli scienziati, e alla quale essi dedicarono vita e speranze.
«Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra Nazione, e potrete alfine conoscervi tra di voi, e assumerete il coraggio della concordia ».
Il coraggio della concordia: risultante di quel nutrito amore all’arte e alla Patria, e mezzo indispensabile per imporre il primato spirituale degli Italiani di Mussolini.
[da primato, Anno I, n. 1, marzo 1940]
Nel brano, il problema affrontato è, come nel brano di Mussolini, ancora quello dei rapporti fra Fascismo e cultura, ma è opportuno sottolineare come le due posizioni si incontrino e, nel contempo, si differenzino. C’è in Bottai — che nell’attività politica portava una sua notevole componente culturale — il senso della complessità del rapporto fra edificazione dello Stato e funzione dell’Università: aperta critica ad un certo autoritario disprezzo per gli intellettuali, significativa interpretazione del mito della «potenza» d’Italia, prospettato come potenza di una cultura e di una civiltà nuove.
Tuttavia, in questa maggiore complessità di impostazione, in una certa «fronda», l’obiettivo di fondo resta quello della strumentalizzazione e della finalizzazione politica della cultura: ‘il principio animatore del fascismo deve essere elevato a comune denominatore di ogni ordine di studio.’
Il brano è tratto da un discorso pronunziato il 13 novembre 1928 per l’inaugurazione del Corso di legislazione corporativa presso l’Università di Pisa.
Cerchiamo di cogliere l’intima significazione dei rapporti sempre più vivi, più assidui e, mi auguro, più fecondi, che si vanno creando tra gli uomini del Fascismo e le Università Italiane. È bene che tali rapporti si creino e si ricreino di continuo. Ma occorre che non rimangano mera forma; occorre che divengano sostanza d’una nuova, più fusa compenetrazione tra il mondo della politica attuale e il mondo della cultura, che ha, o deve tornare ad avere, nell’Università il suo centro di formazione, di propulsione e d’irradiazione. [...]
Occorre risolvere l’assurda antitesi con cui, da campi opposti, come s’è visto, da quello concluso della cultura intellettualistica e dall’altro senza confini dell’ignoranza presuntuosa, si tenta di generare un pratico contrasto tra Fascismo-azione e Fascismo-cultura. Basta, a tal uopo, ripensare al breve ma denso corso della nostra Rivoluzione, per ritrovarci nelle successive fasi, un integramento non nominale, ma storico dell’un Fascismo nell’altro. Il Fascismo fu, nei suoi inizi, reazione contro uno stato di cose a tutti insopportabile, che non importa qui descrivere, tanto, nei suoi aspetti di dissoluzione statale e nazionale, esso è vivo nella nostra memoria. Una reazione non uniforme, anzi diversa, da una parte all’altra d’Italia, dal nord industriale al sud rurale, da provincia a provincia e, nella stessa provincia, da paese a paese e, nel paese medesimo, da individuo a individuo. In quell’aspra lotta di difesa, comune era il nemico, ma contro di esso ciascuno combatteva per quel ch’era alla sua coscienza più chiaro, interesse o ragione ideale. Solo quando il Fascismo marcia su Roma le singole volontà si stringono nell’unica volontà che cancella ogni particolarismo di individui, di categorie, di ceti, di regioni, per la fondazione del nuovo Stato.
La comunione delle volontà non è ancora la comunione del pensiero, della dottrina, del sistema, del metodo. Il che è un bene nei periodi dell’azione diretta. Le rivoluzioni, allorquando combattono per il loro trionfo, guadagnano d’una tal quale indeterminatezza e imprecisione d’idee, così che nel loro ondeggiante programma, ciascuno possa cogliervi o intendervi quel che più si attaglia al suo gusto o al suo interesse. Ma, quando l’azione deve riflettersi e, più che riflettersi, tradursi concretamente nelle leggi, negli istituti o addirittura, come noi stiamo facendo, nella costituzione d’un popolo, l’unità del pensiero è necessaria e, ove essa manchi, si ha l’incongruenza legislativa e giuridica, per cui una rivoluzione può affermarsi in un ordine di istituti e in altro contraddirsi e negarsi. A mantenerla, a temperarla, ad accrescerla dev’essere, io dico, volta ogni nostra cura, in questo tempo e più ancora in quelli cui andiamo incontro. [...]
Solo un pensiero unitario, solo un’ordinata cultura possono stabilire i rapporti e le connessioni necessarie a dare alla politica di una classe dirigente un respiro di politica nazionale. Una grande politica non è, in fondo, che un metodo di pensare, studiare, predisporre, e ordinare i rapporti fra i valori, ponderabili e imponderabili, che si agitano nella vita di un popolo; un’energia che, ricollegando i particolari all’universale, determina le qualità fondamentali d’un processo storico e crea, con moto unitario e unificatore, uno stile politico e il carattere d’un’epoca. In questi termini si pone, secondo me, il problema della cultura nella fase attuale del Fascismo.
Il Fascismo-cultura, in cui, come s’è visto, si integra, non si nega il Fascismo-azione, è il fondamento del Fascismo-stato. Già troppo certi demagogici e facili incitamenti all’incultura hanno devastato anime e coscienze, perché noi si debba seguitare a prestar fede a quegli empirici, che si vantano di procedere lume di naso. Io non credo alla pratica dei praticoni. Chi non sa organizzare le proprie idee non può pretendere di organizzare quelle degli altri. Nel nostro tipo di Stato, che non è un’arida costruzione burocratica (sia che si tratti della vecchia burocrazia, sia che si tratti di quelle ora nascenti nell’orbita sindacale), non basta una sorta di contabile praticità. Il nostro Stato impegna i cittadini nel loro spirito e nella loro coscienza; è sugli spiriti e sulle coscienze che occorre operare per servirlo. [...]
In questo punto preciso si innesta, secondo me, la funzione universitaria nel Fascismo: nella preparazione d’una cultura viva, creatrice d’una classe di uomini atta a dirigere, nella politica, nella scienza, nell’arte. L’Università deve adeguarsi a un compito di questa specie. Tutti i grandi aspetti d’una civiltà, dalla religione alla filosofia, dalla scienza alla letteratura, dagli istituti politici alle organizzazioni economiche, sono riducibili a un principio, unico, che tutti li informi. Il principio animatore del Fascismo deve essere elevato a comun denominatore di ogni ordine di studi. Di ogni ordine: che, se la necessità di una rivoluzione culturale è soprattutto sensibile negli studi giuridici, politici, economici e sociali, non meno urgente è anche in altri ordini di studi, dove prevalgono tuttavia indirizzi in contrasto con la formazione fascista del carattere e della mente degli italiani. Noi non chiediamo all’Università di piegarsi alle finalità particolari e agli interessi contingenti degli uomini, con apologie ed esaltazioni di falsi valori. Non chiediamo bassi servizi, ma che il divino ufficio della cultura sia compiuto con gli occhi fissi alle nuove ideali verità, sorte dal sacrifizio d’una generazione. Sempre, negli anni della rivoluzione unitaria, dettero le Università italiane alla lotta idee e combattenti. Idee e combattenti si preparino esse a dare per le lotte di domani, per quelle che l’Italia affronterà, non più per la sua libertà, ma per la sua potenza: potenza di una cultura e d’una civiltà nuove, per tutto il mondo esemplari.
(da G. Bottai, Scritti, Cappelli, 1965)
Giuseppe Bottai
Il coraggio della concordia
Da Primato[4]
Questo è l’articolo di fondo, vero e proprio manifesto programmatico, con cui Bottai presentava la sua rivista ‘Piimato’ che iniziava le pubblicazioni nel marzo 1940 e sarebbe durata fino al luglio 1943.
L’articolo chiarisce l’obiettivo di fondo che Bottai si riprometteva con la sua rivista: agganciare le forze culturali italiane, «coinvolgerle», inserirle come forze attive e incidenti nella realtà politica italiana. D’altra parte, il fatto che Bottai, sempre particolarmente interessato al rapporto e all’incontro fra Fascismo e cultura, fondasse una rivista di cultura con questi propositi proprio ora, in pieno clima di guerra, è la prova evidente che in vent’anni quell’incontro non c’era stato. L’articolo cioè è una testimonianza storica fondamentale della mancata «fascistizzazione» della cultura del ventennio.
«Chi di noi non ha figlio, fratello od amico che spenda il sangue e la gioventù nelle guerre?»
La domanda che un poeta combattente faceva più di cent’anni or sono, avrebbe ancor oggi - proprio oggi, anzi - un singolare, potente accento di verità.
L’Europa è battuta dal vento della guerra, gli eserciti si spiano e si logorano dietro le loro «linee» d’acciaio e di cemento, nulla sembra più attrarre e commuovere che non sia la preparazione o il conflitto delle armi e delle economie. Sola regione d’ordine e di pace, l’Italia, che vigila, non con la fiacchezza rassegnata dei nati neutri, ma con l’intatto vigore di chi è nato vivo e vitale.
Nonostante tutto, si potrà dunque parlare, in quest’ultimo anno decisivo per la storia europea e mondiale, di letteratura e d’arte? Si potrà lavorare, varrà la pena di lavorare per la cultura? Non sono pochi coloro che, ad accennare soltanto cedesti argomenti – ora —, crollano il capo, amari e diffidenti, quasi temendo nell’interlocutore una nuova insidia, una nuova gratuita provocazione e condanna. A ragione e a torto.
Per molto tempo infatti, la cosiddetta repubblica delle lettere e delle arti è stata considerata terra di facile conquista politica. Zelatori truccati da defensores civitatis, appellandosi a un’autorità troppo più alta dei loro meriti e possibilità, hanno sentenziato a dritta e a rovescio, seminando spesso zizzania e diffidenza invece d’ispirare fiducia e concordia.
Fosse stata almeno la memoria pari all’impeto della polemica; quanti, confusi, avrebbero dovuto meditare le parole di Chi, dal Campidoglio, ravvisò[5] nell’arte – un’arte «sottratta ad esercitazioni troppo cerebraliste e pedanti o a speculazioni mercantili »
È pur vero, del resto, che molti « intellettuali » (qui, il termine . e il concetto stranieri tornano bene) hanno, col loro contegno e con la loro opera, provocato e giustificato spesso più di un’aspra reazione. Senza cadere in ingrate generalizzazioni, vogliamo alludere a coloro che, chiusi e insensibili a quanto non toccasse direttamente i loro gelosi interessi di casta, più solleciti delle mode che degli affetti, più attenti alla fortuna che al carattere dell’uomo, non videro o non vollero vedere, non intesero o non vollero intendere ciò che la realtà all’intorno proponeva o suggeriva.
Come ispidi bronchi[6], essi spiccano ancora, qua e là, nel paesaggio vivo e tormentato che ci si apre davanti, e suscitano, a guardarli, più che un atto di ribellione, un malinconico pensiero su una forza che è stata sprecata, su un’energia che è stata tradita. Così, per colpa dei panegiristi e dei «preziosi», ugualmente, si è venuto divulgando e accreditando presso molti questo paradosso: che le guerre, i grandi rivolgimenti politici, i mutamenti nel destino dei popoli, non hanno che fare, non riguardano, non incidono – come si dice – sulla forma mentis, sull’animo dell’intellettuale, o meglio dell’uomo di studio e d’arte che ne è invece, per sua natura e definizione, l’anticipatore e l’interprete. Si è venuto formando insomma l’assurdo modello di un intellettuale tollerabile nei tempi dolci e calmi e inutile, se non addirittura nocivo, nei tempi duri e travagliati.
E il paradosso è stato così gonfiato, che molti intellettuali fra i migliori, sentendosi coinvolti in un sospetto generico e colpiti da un pericoloso «complesso d’inferiorità», si sono tratti un poco in disparte, rischiando di smarrire il concetto della loro funzione, e anzi – diciamola pure la grande parola, un’altra di quelle grandi parole che un «gusto» troppo sottile va levando dai nostri vocabolari — e anzi, della loro missione nella società nazionale.
Niente di strano dunque se, fatto il computo di quante volte la parola «guerra» prevalga, ora, sulla parola «cultura», molti troveranno sorprendente e «coraggiosa», piuttosto che normale e del tutto aderente al momento, l’uscita di Primato, di una rivista cioè che reca per sottotitolo «lettere e arti d’Italia». Ma chi ha dimenticato, o vuoi dimenticare – per ricordare soltanto una giornata della nostra storia recente — che a portare in trincea, con quell’animo e quella volontà, i combattenti del ‘15 concorsero proprio le riviste e i giornali, i libri e i quaderni letterari conservati poi gelosamente nello zaino, e dimostratisi necessari alla salute dello spirito quanto per la difesa del corpo furono le Sipe e i «novantuno»[7]?
In un’Europa squilibrata, l’Italia, forte della sua unità e compattezza politica e morale, resta, torna ad essere — come sempre nelle ore tutt’ombre e luci violente della storia, — la sola, la più valida tutrice e custode della civiltà e della cultura. Primato spirituale che spetta agli uomini migliori di mantenere, accrescere, affinare, orgogliosamente coscienti del proprio compito. Nessun’altra arma, quanto quella, saprà resistere alla ruggine del tempo e agli assalti della tecnica; nessun’altra sarà altrettanto indispensabile, il giorno che il popolo potrà raccogliere i frutti di vent’anni di lotte.
Allora, gli intellettuali non dovranno apparire impigriti e disarmati. Ma quali intellettuali? Quegli ingegni che la natura ha creato alle lettere e alle arti, confidandoli «all’esperienza delle passioni, all’inestinguibile desiderio del vero, allo studio dei sommi esemplari, all’amore della gloria, all’indipendenza della fortuna e alla sana carità della patria».
La definizione foscoliana regge alla più esigente istanza attuale: v’è, nella sua sapiente gradazione, tutto ciò che vale a rendere intera l’immagine del letterato e dell’artista del nostro tempo. Un «elemento» di meno, e la definizione – come un edificio cui sia sottratto un sostegno essenziale, — rovina: e l’artista cade, e l’uomo con lui. « Qualunque manchi di queste proprietà negli uomini letterati, niun’arte mai, niun istituto d’università o d’accademia, niuna munificenza di principe farà sì che le lettere non declinino, e che anzi non cadano nell’abbiezione». Con questo spirito, dunque, Primato chiama a raccolta le forze vive della cultura italiana; e tenta, attraverso un’azione ordinata, concorde, e, il più possibile, nobilmente «popolare», di rendere concreto ed efficace il rapporto tra arte e politica, tra arte e vita; col proposito, insomma, di operare l’unione fra alta cultura e letteratura militante, fra Università e giornale, fra gabinetto scientifico e scuola d’arte, lavorando nel nome e nell’interesse della Patria.
Questa Patria che un tempo ricorreva frequente e spontanea nelle scritture dei letterati, nelle memorie degli artisti, nelle relazioni degli scienziati, e alla quale essi dedicarono vita e speranze.
«Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra Nazione, e potrete alfine conoscervi tra di voi, e assumerete il coraggio della concordia ».
Il coraggio della concordia: risultante di quel nutrito amore all’arte e alla Patria, e mezzo indispensabile per imporre il primato spirituale degli Italiani di Mussolini.
[da primato, Anno I, n. 1, marzo 1940]
NOTE
[1] Benito Mussolini – Nato a Dovia di Predappio in provincia di Forlì il 29 luglio del 1883, figlio di Alessandro, fabbro, socialista più volte processato, e Rosa Maltoni maestra elementare, Mussolini studiò prima al collegio salesiano, poi nel collegio Carducci di Forlimpopoli.
Nel 1900 si iscrisse al partito socialista, si diplomò maestro l'anno dopo.
Nel 1902 andò in Svizzera per sottrarsi al servizio militare, rientrò in Italia nel 1904 grazie all'amnistia, fece il bersagliere a Verona. La sua attività giornalistica anticlericale lo portò a Trento a dirigere L'avvenire del lavoratore, ma fu espulso, quindi tornò a Forlì nel 1909 dove conobbe Rachele Guidi, che poi sposò nel 1915, e fu condannato, per la propaganda contro la guerra Libica, a 5 mesi di carcere.
Divenne direttore dell'Avanti! quindi si trasferì a Milano.
Con lo scoppio della Grande Guerra Mussolini cambiò radicalmente idea sui doveri dell'Italia, pensava dovesse entrare nel conflitto, ovviamente il cambiamento non fu gradito al PSI che lo espulse dal partito e ovviamente dal giornale, allora fondò il Popolo d'Italia nel novembre del 1914.
Richiamato alle armi nel 1915, due anni più tardi fu ferito in un esercitazione. Una volta guarito tornò alla direzione del giornale.
Nel dopoguerra fondò il movimento fascista (23 marzo 1919), nel 1922 dopo la marcia di Roma il Re lo incaricò di formare il nuovo governo, nel 1924 consolidò il suo potere grazie anche al risultato delle elezioni.
Mussolini, dopo l'assassinio di Matteotti che aveva denunciato irregolarità nelle elezioni, entrò in crisi, ma i partiti antifascisti non ne approfittarono, e ne uscì con un atto di forza.
Il discorso alla camera (3 gennaio 1925) e le misure adottate di seguito (le leggi fascistissime) sconvolsero la struttura liberale dello stato italiano. Nacque il culto del Duce. Concluse con la Chiesa un accordo, con i Patti Lateranensi (la Chiesa riconobbe lo stato italiano e la sua capitale che a sua volta riconosceva lo stato della Città del Vaticano, inoltre l'Italia si impegnava a pagare una forte indennità per ripagare il Papa della perdita dello Stato Pontificio, inoltre fu ideato un concordato che intaccava il carattere laico stato), la politica interna fu conservatrice.
La politica estera faceva perno sulle rivendicazioni nazionalistiche, tentò di essere al centro delle vicende internazionali, a volte con successo, come durante il tentativo di annessione tedesco dell'Austria, e quando promosse il convegno di Stresa con l'Inghilterra e la Francia dove sembrava essere nato un fronte antitedesco, ma le cose cominciarono a cambiare quando conquistò l'Etiopia, cosa che gli mise contro gli inglesi e gli fece sprecare grandi quantità di entrate dello Stato, inoltre fece combattere alcuni reparti dell'esercito a fianco di truppe dell'esercito tedesco nella rivoluzione spagnola, permise senza opporsi l'Anschluss e la persecuzione ebraica, il suo destino si legava sempre più a quello di Hitler.
Nel 1939 scoppiò la guerra e Mussolini,. nonostante i venti anni avuti a disposizione e a dispetto dei suoi stessi discorsi non aveva preparato militarmente l'Italia ad una guerra, infatti cercò di non entrare subito nel conflitto, dichiarò la non belligeranza, si decise solo quando la vittoria tedesca sembrava a portata di mano. Ma non fu così e il fallimento prima della guerra parallela (intendeva combattere contro l'Inghilterra impegnandola in fronti diversi da quelle tedeschi), poi anche di quella a fianco della Germania, oltre allo sbarco alleato effettuato in Sicilia il 10 luglio, diedero il pretesto al Gran Consiglio del Fascismo di approvare un ordine del giorno contro di lui, il 24 luglio del 1943.
Poche ore dopo il Re ne approfittò per riprendere il potere, lo fece arrestare, fu portato prima a Ponza poi alla Maddalena infine al Gran Sasso, dove fu liberato e portato in Germania dai paracadutisti tedeschi, pochi giorni dopo l'armistizio del governo italiano (8 settembre 1943).
Mussolini ritornò in nord Italia per fondare la Repubblica Sociale Italiana (o Repubblica di Salò) che cercava di far rivivere il mito fascista, ma ormai era tardi e anche la Germania dava segni di cedimento. Negli ultimi mesi di guerra lo si vide raramente in pubblico, una volta crollata la linea gotica pensò di rifugiarsi a Milano, tentando di venire a patti col Comitato di Liberazione Nazionale; temendo la cattura fuggì verso Como per poi andare in Svizzera, nonostante fosse vestito da soldato in una colonna di tedeschi in ritirata fu riconosciuto ad posto di blocco partigiano e, dopo un sommario processo, fu fucilato il 28 aprile 1945.
Il suo corpo fu esposto in piazza a Milano assieme alla compagna e ad alcuni gerarchi fascisti, poi, dopo numerose traversie, fu sepolto a Predappio.
[2] le porte... chiuse: cioè: il passato e la tradizione saranno difesi, il loro «territorio» non verrà invaso.
[3] Giuseppe Bottai - Fra i gerarchi del regime fascista, Giuseppe Bottai (1895-1959) – sul quale c'è un recente fiorire di interessi e di ricerche storiche – fu il più scaltrito culturalmente, come è dimostrato dalla sua attività e dai suoi scritti: fondò e diresse nel 1923 critica fascista, rivista di elaborazione teorica e di intervento politico volta a stimolare con vigile attenzione l'evolversi del regime; fu tra i teorici del «corporativismo» e nel 1929 Ministro delle Corporazioni; nel 1936 fu Ministro dell'Educazione Nazionale ed elaborò quella famosa riforma della scuola che portò il suo nome; nel 1940 fondò e diresse primato, rivista di lettere ed arti con la quale tentò in extremis di coinvolgere le forze culturali nelle scelte e nella ideologia del regime. Dopo il crollo del Fascismo (nella famosa seduta del Gran Consiglio del 24 luglio 1943 votò contro Mussolini) si arruolò nel 1944 nella legione straniera «per espiare» (come egli stesso disse) e combattere contro i tedeschi.
Nel dopoguerra pubblicò un volume di memorie e di chiarimenti sulla sua azione politica (venti anni e un giorno, Garzanti, 1949 e 1977).
[4] Primato - Per quanto riguarda poi la fisionomia e l'incidenza di ‘Primato’ nei suoi tre anni di vita ci si limita qui a ricordare che, pur ospitando una larga e varia schiera di collaboratori (Pavese, Gadda, Brancati, Montale, Quasimodo, Guttuso, Pintor, Alleata, Della Volpe, Luporini, Paci, Muscetta, Contini ecc.) che andavano ben oltre l'ortodossia fascista, Bottai deve inevitabilmente scontrarsi con l'ambiguità, costituzionalmente insita nel suo progetto. Da un lato l'operazione di Bottai intende favorire la libertà e la missione della cultura, la proposta anticonformistica e anti-autarchica di un inserimento europeo, dall'altro però il senso di responsabilità e il nesso tra cultura e storia ai quali l'intellettuale viene chiamato finiscono col diventare «come un coperto invito all'allineamento in previsione della vittoria immancabile...» (G. Luti). E così ‘Primato’ all'inizio «accetta l'incontro con le correnti della fronda giovanile che operano nei giornali provinciali tramite i GUF... ma nel 1941 verranno smorzandosi le punte polemiche, e le posizioni redazionali sempre più si adegueranno alla politica di partito... ».
E tuttavia ‘Primato’ non assunse mai la fisionomia di una rivista ufficiale del Fascismo e, pur con ambiguità, favorì incontri e scontri, conoscenze e rapporti, che andarono bene al di là della auspicata concordia iniziale. «Arma a doppio taglio, perciò, primato, se dal pubblico incontro doveva derivare agli intellettuali nuova consapevolezza dell'insopprimibile diritto alla libertà spettante alla vera cultura; il diritto ad un “ordine nuovo” certamente assai diverso da quello che avevano preventivato i fondatori di ‘Primato’, un ordine democratico nel quale si sarebbero inserite unicamente le giovani serpi che la rivista aveva nutrito nel suo seno accogliente».
[5] Chi... ravvisò: si tratta, ovviamente, di Mussolini.
[6] bronchi: cespugli spinosi.
[7] Sipe... « novantuno »: tipi di bombe a mano, le prime; di fucili, i secondi.
[1] Benito Mussolini – Nato a Dovia di Predappio in provincia di Forlì il 29 luglio del 1883, figlio di Alessandro, fabbro, socialista più volte processato, e Rosa Maltoni maestra elementare, Mussolini studiò prima al collegio salesiano, poi nel collegio Carducci di Forlimpopoli.
Nel 1900 si iscrisse al partito socialista, si diplomò maestro l'anno dopo.
Nel 1902 andò in Svizzera per sottrarsi al servizio militare, rientrò in Italia nel 1904 grazie all'amnistia, fece il bersagliere a Verona. La sua attività giornalistica anticlericale lo portò a Trento a dirigere L'avvenire del lavoratore, ma fu espulso, quindi tornò a Forlì nel 1909 dove conobbe Rachele Guidi, che poi sposò nel 1915, e fu condannato, per la propaganda contro la guerra Libica, a 5 mesi di carcere.
Divenne direttore dell'Avanti! quindi si trasferì a Milano.
Con lo scoppio della Grande Guerra Mussolini cambiò radicalmente idea sui doveri dell'Italia, pensava dovesse entrare nel conflitto, ovviamente il cambiamento non fu gradito al PSI che lo espulse dal partito e ovviamente dal giornale, allora fondò il Popolo d'Italia nel novembre del 1914.
Richiamato alle armi nel 1915, due anni più tardi fu ferito in un esercitazione. Una volta guarito tornò alla direzione del giornale.
Nel dopoguerra fondò il movimento fascista (23 marzo 1919), nel 1922 dopo la marcia di Roma il Re lo incaricò di formare il nuovo governo, nel 1924 consolidò il suo potere grazie anche al risultato delle elezioni.
Mussolini, dopo l'assassinio di Matteotti che aveva denunciato irregolarità nelle elezioni, entrò in crisi, ma i partiti antifascisti non ne approfittarono, e ne uscì con un atto di forza.
Il discorso alla camera (3 gennaio 1925) e le misure adottate di seguito (le leggi fascistissime) sconvolsero la struttura liberale dello stato italiano. Nacque il culto del Duce. Concluse con la Chiesa un accordo, con i Patti Lateranensi (la Chiesa riconobbe lo stato italiano e la sua capitale che a sua volta riconosceva lo stato della Città del Vaticano, inoltre l'Italia si impegnava a pagare una forte indennità per ripagare il Papa della perdita dello Stato Pontificio, inoltre fu ideato un concordato che intaccava il carattere laico stato), la politica interna fu conservatrice.
La politica estera faceva perno sulle rivendicazioni nazionalistiche, tentò di essere al centro delle vicende internazionali, a volte con successo, come durante il tentativo di annessione tedesco dell'Austria, e quando promosse il convegno di Stresa con l'Inghilterra e la Francia dove sembrava essere nato un fronte antitedesco, ma le cose cominciarono a cambiare quando conquistò l'Etiopia, cosa che gli mise contro gli inglesi e gli fece sprecare grandi quantità di entrate dello Stato, inoltre fece combattere alcuni reparti dell'esercito a fianco di truppe dell'esercito tedesco nella rivoluzione spagnola, permise senza opporsi l'Anschluss e la persecuzione ebraica, il suo destino si legava sempre più a quello di Hitler.
Nel 1939 scoppiò la guerra e Mussolini,. nonostante i venti anni avuti a disposizione e a dispetto dei suoi stessi discorsi non aveva preparato militarmente l'Italia ad una guerra, infatti cercò di non entrare subito nel conflitto, dichiarò la non belligeranza, si decise solo quando la vittoria tedesca sembrava a portata di mano. Ma non fu così e il fallimento prima della guerra parallela (intendeva combattere contro l'Inghilterra impegnandola in fronti diversi da quelle tedeschi), poi anche di quella a fianco della Germania, oltre allo sbarco alleato effettuato in Sicilia il 10 luglio, diedero il pretesto al Gran Consiglio del Fascismo di approvare un ordine del giorno contro di lui, il 24 luglio del 1943.
Poche ore dopo il Re ne approfittò per riprendere il potere, lo fece arrestare, fu portato prima a Ponza poi alla Maddalena infine al Gran Sasso, dove fu liberato e portato in Germania dai paracadutisti tedeschi, pochi giorni dopo l'armistizio del governo italiano (8 settembre 1943).
Mussolini ritornò in nord Italia per fondare la Repubblica Sociale Italiana (o Repubblica di Salò) che cercava di far rivivere il mito fascista, ma ormai era tardi e anche la Germania dava segni di cedimento. Negli ultimi mesi di guerra lo si vide raramente in pubblico, una volta crollata la linea gotica pensò di rifugiarsi a Milano, tentando di venire a patti col Comitato di Liberazione Nazionale; temendo la cattura fuggì verso Como per poi andare in Svizzera, nonostante fosse vestito da soldato in una colonna di tedeschi in ritirata fu riconosciuto ad posto di blocco partigiano e, dopo un sommario processo, fu fucilato il 28 aprile 1945.
Il suo corpo fu esposto in piazza a Milano assieme alla compagna e ad alcuni gerarchi fascisti, poi, dopo numerose traversie, fu sepolto a Predappio.
[2] le porte... chiuse: cioè: il passato e la tradizione saranno difesi, il loro «territorio» non verrà invaso.
[3] Giuseppe Bottai - Fra i gerarchi del regime fascista, Giuseppe Bottai (1895-1959) – sul quale c'è un recente fiorire di interessi e di ricerche storiche – fu il più scaltrito culturalmente, come è dimostrato dalla sua attività e dai suoi scritti: fondò e diresse nel 1923 critica fascista, rivista di elaborazione teorica e di intervento politico volta a stimolare con vigile attenzione l'evolversi del regime; fu tra i teorici del «corporativismo» e nel 1929 Ministro delle Corporazioni; nel 1936 fu Ministro dell'Educazione Nazionale ed elaborò quella famosa riforma della scuola che portò il suo nome; nel 1940 fondò e diresse primato, rivista di lettere ed arti con la quale tentò in extremis di coinvolgere le forze culturali nelle scelte e nella ideologia del regime. Dopo il crollo del Fascismo (nella famosa seduta del Gran Consiglio del 24 luglio 1943 votò contro Mussolini) si arruolò nel 1944 nella legione straniera «per espiare» (come egli stesso disse) e combattere contro i tedeschi.
Nel dopoguerra pubblicò un volume di memorie e di chiarimenti sulla sua azione politica (venti anni e un giorno, Garzanti, 1949 e 1977).
[4] Primato - Per quanto riguarda poi la fisionomia e l'incidenza di ‘Primato’ nei suoi tre anni di vita ci si limita qui a ricordare che, pur ospitando una larga e varia schiera di collaboratori (Pavese, Gadda, Brancati, Montale, Quasimodo, Guttuso, Pintor, Alleata, Della Volpe, Luporini, Paci, Muscetta, Contini ecc.) che andavano ben oltre l'ortodossia fascista, Bottai deve inevitabilmente scontrarsi con l'ambiguità, costituzionalmente insita nel suo progetto. Da un lato l'operazione di Bottai intende favorire la libertà e la missione della cultura, la proposta anticonformistica e anti-autarchica di un inserimento europeo, dall'altro però il senso di responsabilità e il nesso tra cultura e storia ai quali l'intellettuale viene chiamato finiscono col diventare «come un coperto invito all'allineamento in previsione della vittoria immancabile...» (G. Luti). E così ‘Primato’ all'inizio «accetta l'incontro con le correnti della fronda giovanile che operano nei giornali provinciali tramite i GUF... ma nel 1941 verranno smorzandosi le punte polemiche, e le posizioni redazionali sempre più si adegueranno alla politica di partito... ».
E tuttavia ‘Primato’ non assunse mai la fisionomia di una rivista ufficiale del Fascismo e, pur con ambiguità, favorì incontri e scontri, conoscenze e rapporti, che andarono bene al di là della auspicata concordia iniziale. «Arma a doppio taglio, perciò, primato, se dal pubblico incontro doveva derivare agli intellettuali nuova consapevolezza dell'insopprimibile diritto alla libertà spettante alla vera cultura; il diritto ad un “ordine nuovo” certamente assai diverso da quello che avevano preventivato i fondatori di ‘Primato’, un ordine democratico nel quale si sarebbero inserite unicamente le giovani serpi che la rivista aveva nutrito nel suo seno accogliente».
[5] Chi... ravvisò: si tratta, ovviamente, di Mussolini.
[6] bronchi: cespugli spinosi.
[7] Sipe... « novantuno »: tipi di bombe a mano, le prime; di fucili, i secondi.
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