martedì 23 marzo 2010

La Letteratura del primo Novecento di Massimo Capuozzo

La rivoluzione lirica del primo Novecento[1]
La grande rottura rispetto alla tradizione romantica e classicista si era prodotta in Francia e in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, e a cavallo dei due secoli nella nostra letteratura. Pertanto le esperienze poetiche del primo Novecento ap­paiono sotto il segno della continuità e dello svi­luppo, e configurano con maggior evidenza la fi­sionomia di una poesia novecentesca, moderna con caratteri propri e definibili che cerchiamo di riassumere e schematiz­zare.
La poesia del Novecento è un’esperienza che si allontana dal re­sto dei sistema letterario, si sviluppa in una sfera a sé stante ed ha una circolazione limitata.
La lirica moderna accentua ancora, se è possibile, il carattere di soggettivismo. Il poeta compone senza potersi rapportare a un pubblico, né reale, né fittizio.
Il linguaggio, la parola, prevalgono su tutti gli altri elementi della poesia. Il poeta, che non si sente più in grado di esprimere attraverso il linguaggio la sua visione del mondo, si propone di cercare la parola che ha in sé, autonomamente, la capacità di significare, alludere, evocare. Egli fa come da filtro tra le parole e le cose, le mette in relazione e lascia che da questa re­lazione scaturisca un significato.
1. L’«oscurità» è un dato strutturale. Un carattere che appare su­bito evidente nella poesia moderna è la difficoltà di com­prensione che essa presenta. L’oscurità può derivare da una concentrazione dei significati o può essere il risultato della scomparsa del contenuto, quando le suggestioni del suono, le sequenze ritmiche finiscono per sostituire i significati. Ma an­che senza considerare queste estreme esperienze delle avan­guardie, il lettore della poesia moderna si trova di fronte a una poesia nella quale non riesce a isolare un contenuto preciso, alla quale non può accostarsi attraverso lo strumento della parafrasi. Egli deve pertanto accettare l’indetermina­tezza come elemento costitutivo del messaggio poetico.
2. A differenza di quanto accade per la prosa, si possono indi­care per la poesia alcuni momenti fondamentali e alcune ten­denze generali, con la precisazione tuttavia che nel no­stro Novecento ci sono poeti di grande statura la cui voce si differenzia con caratteri originali.
3. A partire dai primi decenni del Novecento la nuova poesia italiana si forma con lo sguardo rivolto alle esperienze stra­niere; le opere di Baudelaire, Mallarmè, Rirnbaud, Valéry di­ventano i punti di riferimento costanti; si può dire insomma che i poeti d’inizio secolo recuperarono i ritardi accumulati dalla nostra letteratura nel corso del secolo precedente.
4. D’Annunzio e Pascoli ebbero una funzione di cerniera tra Ottocento e Novecento ed esercitarono un’importante influenza. Non va nemmeno trascurato l’esempio dei crepusco­lari sia per le scelte tematiche sia per l’intonazione intimistica e sommessa che portarono nella nostra poesia.
5. Una proposta decisamente caratterizzata fu quella dell’avanguardia futurista. Le dichiarazioni programmatiche e teoriche contenute nei manifesti della letteratura futurista, mentre negavano di fatto la possibilità di una narrazione proponendo ad esempio l’abolizione della sintassi, della punteg­giatura, dell’aggettivo, potevano trovare una più efficace rea­lizzazione nel linguaggio poetico. In effetti alcune parole d’ordine dell’avanguardia futurista si ponevano nel solco segnato dalla ricerca della poesia moderna come la proposta del verso libero, della immaginazione senza fili, delle parole in libertà. I crepuscolari oppongono coscientemente ai miti dannunziani la pro­saica, dimessa vita giornaliera e pro­vinciale e tuttavia a questo mondo non riescono ad aderire del tutto: sono troppo letterati e raffinati per non sentirlo di pessimo gusto, dai confini del decadentismo non riescono ad uscire. I futuristi con vi­rulenza iconoclasta predicano la di­struzione dei musei e della tradizione, il ripudio dei formalistici compiaci­menti dannunziani ed esaltano la macchina, la velocità, la violenza e la guerra «sola igiene del mondo». Oltre che l’elemento irrazionalistica, che da qualche decennio è la costante di tanta produzione artistica europea, c’è nel loro caso dell’altro: la collusione con le tendenze naziona­listiche già virulente nel paese, la su­blimazione letteraria di quella ferrea legge di violenza che l’industrialismo portava nei rapporti tra le classi.
6. Fuori da queste due scuole operano poeti che in vario modo partecipano delle inquietudini del tempo e tentano, con differenti risultati, nuove strade. Nella poesia che con più evidenza si coglie già il nuovo: Clemente Rebora e soprattutto, Dino Campana, certamente la voce poetica più originale e più alta di questo periodo, senza i cui Canti orfici non si capirebbero Ungaretti e tutto l’ermetismo.
7. La data della prima raccolta di poesie di Ungaretti Il Porto Sepolto, 1916, ha un valore rilevante nella storia della poesia italiana del Novecento, poiché in questa raccolta si rende concreta il problema centrale della lirica del primo Novecento. Si trattava di accoglie­re l’eredità simbolista, passata attraverso i modelli francesi, e le novità delle sperimentazioni delle avanguardie, e per la stret­ta relazione con una «novità» di contenuto.
Ungaretti sa far com­piere questo passo in avanti alla nostra lirica; ciò che, infatti, va fortemente rilevato, perché costituisce la vera svolta di Porto Sepolto, è l’impiego degli strumenti retorici di natura metrica, sti­listica e sintattica, messi a punto in un arco di esperienze poetiche che vanno da Baudelaire a Pascoli, ai crepuscolari e ai futuristi, per rifondare la parola poetica nella pienezza della sua funzione. Nei versi di Porto Sepolto non vuole più esserci traccia di parodia, sperimentalismo, trasgressione, cioè di quello stimolo di natura so­prattutto polemica e culturale che esprimevano un bisogno di novità, ma anche una «crisi» della poesia. Ungaretti, che pure ha rifatto questa stessa strada, sembra aderire più profondamente alle ragioni fondamentali che hanno determinato la svolta della poe­sia moderna e cerca uno strumento espressivo non incrostato dalla tradizione per ridare profondità, sacralità alla parola. Ri­cerca la parola poetica autentica, «pura», creatrice, capace di ri­velare un frammento del mistero della vita, legandolo a un’e­sperienza circostanziata, colta come un’improvvisa e momenta­nea illuminazione.
Le novità di carattere formale di questa poesia appaiono subito evidenti:
1. La disgregazione della metrica che, andando al di là dell’adozione del verso libero, da un risalto maggiore alla percezio­ne del verso come frammento (nella poesia di Ungaretti si trova­no versi composti di una sola parola), usando l’a capo, lo spazio bianco della pagina come pausa, come silenzio;
2. La disarticolazio­ne sintattica che elimina i nessi logici, la punteggiatura;
3. La co­struzione per analogie, il carattere di frammento, di illuminazio­ne improvvisa di immagine momentanea che racchiudono in un’estrema sintesi il contenuto.
Quello che rimane in una poe­sia di questo tipo è necessariamente enfatizzato, bloccato, fissato in una sorta di isolamento che funziona da moltiplicatore delle possibilità della parola di comunicare dei significati, per farla apparire come rivelazione, mistero. Non si deve tuttavia pensare che questa ricerca di un’intensità di significato, che ca­ratterizza anche le poesie della seconda raccolta Allegria di Nau­fragi (pubblicata nel 1931, e comprensiva delle poesie di Porto Se­polto), sia un recupero sia supera e annulla la crisi di fine secolo.
Il poeta non ha un messaggio esplicito, ha una parola che nasce in lui dalla pienezza di un sentimento morale e dalla ricerca di da­re ad esso un’espressione forte, ed egli la offre nella sua essen­zialità e nudità come illuminazione e frammento, non come discorso.
Nelle raccolte successive Sentimento del tempo (1933), La Terra Promessa (1950), Un grido e Paesaggi (1952) Ungaretti ritorna a un linguaggio più tradizionale, ricupera il verso, la strofa che ospita un andamento sintattico più complesso, propone la ri­cerca di una lingua alta ed elegante.
· Il fenomeno più rilevante nel panorama della lirica italia­na degli anni Trenta e Quaranta è l’affermarsi di modi di concepire e fare poesia che furono riassunti nel nome di ermetismo, una tendenza che ha in sé i caratteri della modernità ed eredita sicuramente molte delle tensioni primonovecentesche verso una poesia pura, espressione di una ricerca di nuovo linguaggio, ma anche di nuovi contenuti.
Il poeta ermetico esprime un’ansia di testimonianza di verità che trova un’espressione indeterminata nel simbolo e nell’analogia, nella tendenza a enfatizzare la parola.
Il termine ermetico cominciò a circo­lare per indicare testi letterari che apparivano chiusi, nel sen­so che la loro comprensione era ostacolata non solo dalla com­plessità dell’argomento, ma dalla volontà dell’autore che ricercava l’oscurità. Il termine fu poi adottato dalla critica per indicare un gruppo di poeti che condividevano alcune idee-gui­da del fare letterario.
1. L’idea della poesia come va­lore che sta al di fuori e al di sopra della storia e del tempo e che quindi può parlare di un Uomo inteso nella sua essenza spiritua­le e non calato in una determinata situazione storica o persona­le
2. La poesia è proposta come testimonianza della verità anch’essa assoluta, che non si deve cioè misurare e con­frontare con gli eventi e con la storia.
3. A quest’idea si associa la ricerca di uno stile alto, l’unico capace di esprimere convenientemente l’ansia di verità e di assoluto.
Ciò non impedisce ai poeti ermetici di porsi compiutamente entro l’alveo della poesia moderna; in particolare essi fanno propria l’esperienza ungarettiana di una parola essenziale, il valore espressivo fondamentale dell’analogia e del simbolo. Per la loro concezione della letteratura come espressione pura e incontami­nata, sottratta da ogni influsso storico e politico, rimasero estra­nei a un coinvolgimento nella politica culturale del regime fasci­sta e sposarono la linea dell’astensione dalla partecipazione alla vita politica e al dibattito ideologico.
Poiché l’ermetismo non fu propriamente una scuola poetica, non tutti i critici concordano sui nomi da far rientrare in questo «contenitore»; tuttavia si può affermare che poeti come Mario Luzi, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Salvatore Quasimodo furono tra i maggiori protagonisti della stagione dell’ermetismo, anche se poi approdarono ad esperienze diverse: in particolare Quasimodo (1901-1968), che aveva pubblicato con successo le raccolte Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932); dopo il 1945, quando l’ermetismo entra­va in crisi, coniugò il suo impegno di poeta a quello politico e ci­vile, come testimonia la raccolta Giorno dopo giorno (1947).
· Una vena lirica che ricerca la modernità del linguaggio non attraverso la rottura, ma tramite un rapporto nuovo con la classicità, è una linea che si può qualificare con Camillo Sbarbaro e che continua anche in poe­ti della generazione successiva come, ad esempio, in Giorgio Caproni e Sandro Penna.
· Del tutto diverso il cammino poetico di Saba (1883-1957) che ebbe parole di dura critica verso l’ermetismo, la poesia-frammento, la ricerca dell’oscurità. La sua esperienza, resa difficile da una personalità complessa e tormentata, è racchiusa nel Canzoniere, la raccolta delle sue poesie che ci raccontano, con il loro linguaggio per immagini e l’intonazione narrativa, il rap­porto del giovane poeta con Trieste, le difficoltà dell’adolescen­za, l’incontro con la moglie Lina, la nascita della figlia Linuccia, i disagi psicologici, la seconda guerra mondiale, fino all’autoritratto del poeta da vecchio. Mentre tutte le esperienze novecentesche avevano come comune denominatore una sfiducia nella possibilità di trasmettere significati attraverso le parole usuali, organizzate in «discorso», Saba continuò ad avere fede nella parola che comunica, la parola quotidiana o quella della tradizione, immessa in una sequenza narrativa lineare. Ciò non deve far pensare a un poeta passivamente legato alla tradizione, perché Saba è sicuramente «novecentesco» e non soltanto per le temati­che della sua poesia, che manifestano un modo tutto moderno di rapportarsi con la realtà, ma in particolare per la mancanza as­soluta di ogni atteggiamento aulico. L’essere poeta per Saba ha il senso di trasformare in arte una realtà quotidiana, di cose e di sentimenti, che non ammette più l’intonazione alta, elevata e di­stante dal discorso, a volte serio e drammatico a volte gioioso, di un uomo che parla ad altri uomini e ne cerca la comprensione.
Giuseppe Ungaretti[2]: esemplarità della parabola lirica del primo Novecento
Veglia
1. I versi di questa poesia descrivono una notte passata dal poeta al fronte accanto al corpo di un compagno ucciso, con il viso sfigurato dal dolore, le mani irrigidite nella morte.
2. La reazione del poeta è una ribellione disperata al destino di morte, un prorompente sentimento di attaccamento alla vita: non solo alla propria vita personale, ma a quella che è un bene comune, un diritto fondamentale di tutti gli uomini.
3. "Con le labbra ritratte in modo da mostrare i denti in una sorta di smorfia feroce",
4. "Il gonfiore e il colore violaceo delle mani, provocati dalla morte", sono immagini sconvolgenti, penetrate profondamente nell'animo del poeta


Un'intera nottatabuttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Cima Quattro il 23 dicembre 1915


IN MEMORIA.
Locvizza il 30 settembre 1916.
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Coranogustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposanel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io soloso ancora
che visse

Sono una creatura
1. La lirica è formata da tre strofe di varia lunghezza di versi liberi. Varia il numero dei versi nelle strofe e varia anche la misura dei versi, che sono senari, quinari, quaternari e ternari. La lirica è costruita secondo una struttura, che, nella sua rigorosa semplicità, rivela un attento dosaggio degli effetti, in modo da ottenere il massimo risultato espressivo con il minimo dispendio di parole poetiche. Due sono i procedimenti adottati dal poeta: il primo è quello dell’accumulazione ascendente, che tende, attraverso una serie di immagini in successione, a culminare in un vertice emotivo (climax) costituito da totalmente disanimata. Il secondo procedimento consiste nell’uso della figura retorica dell’anafora: ancora una volta si raggiunge il vertice emotivo (climax) attraverso quattro versi costituiti da aggettivi di spessore semantico crescente (fredda, dura, prosciugata, refrattaria) introdotti dall’avverbio così, ripetuto all’inizio di ognuno dei quattro versi e anche del penultimo verso della strofe, seguìto dall’avverbio totalmente, così perentorio, il quale, a sua volta, introduce l’ultimo verso della strofe, che è formato da una sola parola: l’aggettivo disanimata. L’altra anafora è costituita da Come questa pietra: serve a mettere in rapporto di comparazione le prime due strofe (comparativo di uguaglianza).
2. La terzina finale costituisce un aforisma, come in "Veglia".
3. Ancora una volta i punti sono sostituiti dagli spazi bianchi e la cadenza del ritmo sostituisce le virgole, segnando le pause per una lettura espressiva.
4. L’esperienza del dolore e della morte si traduce, in questa lirica, in una identificazione con la natura aspra , scabra e arida del paesaggio carsico, nel quale la roccia è porosa e l’acqua che cade dal cielo sparisce e sprofonda nel terreno permeabile. Pare che il fante-poeta stia descrivendo una metamorfosi. Da un punto di vista formale è un processo panico, ma a nessuno può sfuggire l’abissale differenza tra l’"impietramento" ungarettiano e il panismo vitalistico dannunziano di poesie come "La pioggia nel pineto". Il fante-poeta, infatti, attraverso la metamorfosi, non conquista una condizione esistenziale sovrumana, bensì si riduce a oggetto inanimato: siamo di fronte alla degradazione dell’uomo ad oggetto per trovare una via di scampo alla sofferenza. Simile a quell’acqua che subito scompare, quasi risucchiata dalla roccia, è il pianto del poeta, un pianto senza lacrime, un dolore interiore che prosciuga l’anima. La pace di questa "morte" si sconta con le sofferenze della vita del soldato, caratterizzata da quel dolore freddo, duro, aspro, totalmente privo di possibilità di consolazione.
5. "Soltanto la poesia – l’ho imparato terribilmente, lo so – la poesia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio si accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione e che l’uomo è molto meno regolato dalla propria opera che non sia alla mercè dell’elemento". (Giuseppe Ungaretti)

Come[3] questa pietra
del S.Michele[4]
così fredda
così dura
così prosciugata[5]
così refrattaria[6]
così totalmente
disanimata[7]

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte[8]
si sconta
vivendo

San Martino del Carso
1. L’immagine di un paese distrutto dalla guerra, San Martino del Carso, è per il poeta l’equivalente delle distruzioni che sono celate nel suo cuore, causate dalla dolorosa perdita di tanti amici cari. Ancora una volta il poeta trova nelle immagini esterne una corrispondenza con quanto egli prova nei confronti dell’uomo, annullato dalla guerra. La lirica, di un’estrema essenzialità è tutta costruita su un gioco di rispondenze e di contrapposizioni sentimentali, ma anche verbali: di San Martino resta qualche brandello di muro, dei morti cari allo scrittore non resta nulla; San Martino è un paese straziato, più straziato è il cuore del poeta. Così, eliminando ogni descrizione e ogni effusione sentimentale, l’Ungaretti riesce a rendere con il minimo di parole la sua pena e quella di tutto un paese, e dà vita a una lirica tutta nuova.
2. La lirica è costituita da quattro strofe. Le prime due strofe sono legate da un’anafora ("di queste case … di tanti") e dalle iterazioni ("non è rimasto … non è rimasto; tanti … tanto"). La metafora "brandello di muro" riconduce all’immagine di corpi mutilati, straziati, ridotti a brandelli. La terza strofa si apre con un ma che ribalta l’affermazione precedente. Come le prime due, le ultime due strofe sono legate da un parallelismo ("ma nel cuore … è il mio cuore") e dall’analogia (cuore = paese). Anche se nulla è rimasto dei compagni morti, "nessuna croce manca": non è svanito il ricorso di nessuno di quei morti. Le croci suggeriscono l’immagine di un cimitero, ma richiamano, naturalmente, anche al sacrificio e alla morte del Cristo.
3. L’immagine finale del cuore straziato richiama quella iniziale del brandello di muro, racchiudendo il componimento in un cerchio di dolore.
4. San Martino del carso descrive una sorte di "morte della vita": il luogo più vivo del corpo di un uomo, il cuore, sede delle emozioni, è assimilato ad un cimitero, a un regno di morte.Così il poeta stabilisce un'analogia tra sé e l'aridità delle rocce carsiche, qui egli confronta il proprio cuore con un paese distrutto, anzi, per opposizione, il cuore ospita le croci che invece mancano nel paese reale, distrutto dai bombardamenti.

San Martino del Carso
Di queste caseNon è rimasto Che qualcheBrandello di muro
Di tantiChe mi corrispondevanoNon è rimastoNeppure tanto
Ma nel cuoreNessuna croce manca
E’ il mio cuoreIl paese più straziato

I fiumi
1. La lirica è formata da versi liberi riuniti in strofe di varia lunghezza. E’ inconsuetamente lunga rispetto agli altri testi de “Il Porto Sepolto”. La lunghezza è in stretto rapporto con un impianto, in un certo senso, narrativo.
2. Tematica duplice ne I fiumi, una celebre poesia che compare nella raccolta L’Allegria (1931) in cui Giuseppe Ungaretti rievoca, con i propri ricordi personali, i fiumi che li hanno attraversati.
3. Il poeta definisce questa lirica come propria “carta d’identità”, contenente i suoi “segni”, quelli che gli permettono di riconoscersi ( i “segni” sono i fiumi lungo i quali è vissuto) . Lui in guerra , in un momento di pausa , nel paesaggio del Carso e precisamente nelle acque dell’Isonzo prende coscienza che “i segni” che serviranno a riconoscerlo saranno i fiumi. Grazie ai fiumi sa in modo preciso di essere un lucchese , che è un uomo sorto sui limiti del deserto lungo il Nilo, che se non ci fosse stata Parigi non avrebbe avuto l’effettiva maturazione umana e culturale.

Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato[9]
Abbandonato[10] in questa dolina[11]
Che ha il languore[12]Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso
In un’urna[13] d’acqua
E come una reliquia[14]
Ho riposato

L’Isonzo[15] scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua[16]

Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino[17]
Mi sono chinato a ricevereIl sole

Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo[18]

Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia[19]

Ma quelle occulte
Mani[20]
Che m’intridono[21]
Mi regalano
La raraFelicità[22]

Ho ripassato[23]
Le epoche
Della mia vita

Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio[24]
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.

Questo è il Nilo[25]
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza[26]
Nelle distese pianure[27]

Questa è la Senna[28]
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto[29]

Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo[30]

Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare[31]
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre

Soldati
1. Anche se la poesia è breve, Ungaretti riesce ad esprimere la condizione di soldato. Egli paragona infatti il soldato ad una foglia d'albero in autunno: basta un colpo di vento per far morire la foglia, così come basta un colpo di fucile a far cadere il soldato.
2. La poesia, scritta in tempo di guerra, vuole esprimere l'incertezza e la precarietà della vita dei soldati al fronte, che possono morire da un momento all'altro, come le foglie, in autunno, possono staccarsi improvvisamente dai rami.
3. Il poeta usa la forma impersonale (si sta) in quanto si riferisce a tutti i soldati. L'uso della forma impersonale contribuisce a creare un'atmosfera di universalità, di indefinito e, nello stesso tempo, di immobilità e di fatalità.
4. Il come introduce il paragone con le foglie. E ciò che unisce la vita dei soldati alle foglie è proprio l'incertezza, l'instabilità, la precarietà.
5. Come d'autunno basta un soffio di vento per far cadere le foglie, così in guerra basta una pallottola, che non si sa da dove arriva né quando per porre termine alla vita di un uomo. Con la preposizione semplice di (d'autunno) si rimane sempre nell'atmosfera di indefinito. Sugli alberi è, nella poesia, l'elemento meno importante.
6. Le foglie costituiscono l'elemento di paragone. Molto importante in questa poesia è il titolo, perché ci dice di chi si sta parlando.
7. È da notare l'ordine delle parole, che è diverso in prosa da quello in poesia. In poesia, dunque, l'ordine delle parole è diverso da quello tipico della prosa e non è casuale, ma voluto dal poeta e ciò per evidenziare il messaggio e per creare il ritmo particolare della lirica.
8. La poesia è stata dedicata ai soldati che andavano in guerra e di cui il destino è già scritto.
9. Ma forse non si riferisce solo a loro, bensì a tutti. Siamo tutti come delle foglie, non conosciamo il nostro futuro. Abbiamo una solo certezza...la morte.
10. Il non senso, il buio, il terrore, è dovuto a questa profonda e reale incertezza che l'uomo ha da sempre. Solo un grande come Ungaretti poteva racchiudere il pensiero di molti in poco meno di un verso.

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie

La madre
1. La lirica, datata 1930, appartiene alla raccolta "Sentimento del tempo".
2. Essa segna un ritorno del poeta alla tradizione, attraverso il recupero della versificazione tradizionale, di una sintassi più complessa e della punteggiatura.
3. Nel componimento, composto di due quartine, una terzina e due distici, il poeta affronta il tema della propria morte, esprimendo il desiderio che la propria madre, defunta, supplichi Dio per la salvezza del figlio. L’uso dell’indicativo nei versi di Ungaretti ci rende nota la certezza che l’autore ha della compassione della propria genitrice. Ella sarà incrollabile nella propria fede davanti al Signore, mentre implora il perdono per i peccati del figlio; alzerà tremante le vecchie braccia, ripetendo il gesto di abbandono alla volontà divina già compiuto in punto di morte. Nelle ultime due strofe(distici), si descrive la riconciliazione della madre con il figlio, perdonato e quindi avente portato a termine il processo di catarsi dal peccato: solo a quel punto la madre lo accoglierà, felice di aver portato la propria creatura vicina alla gloria di Dio.

E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua di fronte all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.
NOTE
[1] La Letteratura del primo Novecento - Il primo quindicennio del Novecen­to è dominato da Giovanni Giolitti che orienta la vita politica italiana verso forme diverse da quelle reazionarie degli ultimi anni del secolo prece­dente. Giolitti tenta di integrare nello stato liberale le nascenti forze operaie, di realizzare una conciliazio­ne tra le forze socialiste e il liberalismo avanzato. Ma questo disegno s’infrange di fronte alla particolare situazione italiana.
Dal notevole sviluppo indu­striale deriva una sorta di «illusione ottica»: i vagheggiamenti dello stato for­te, le esaltazioni nazionalistiche che assumono ben più virulenta consistenza: sul Leonardo, sul Regno, nelle serate futuriste folti gruppi di intellettuali esaltano l’avventura, il rischio, la missione africana dell’Italia. Si tratta di un comples­so di forze opposte a Giolitti che egli nei primi tempi sottovalutò, ma alle quali fu poi costretto a fare notevoli conces­sioni.
Giolitti con abile politica pendolare riesce a tenersi in equilibrio fra le opposte forze:
· infligge un note­vole colpo agli interessi bancari,
· fa concessioni agli interessi industriali e nazionalistici con l’im­presa di Libia,
· promulga le leggi di tu­tela del lavoro e con la riforma elet­torale realizza fondamentali aspirazioni socialiste,
· col patto Gentiloni stabilisce accor­di, per le elezioni a suffragio univer­sale, con le forze conservatrici e cle­ricali.
In questa situazione van­no viste le manifestazioni letterarie di questo periodo che hanno una caratteristica comune di inquieta ricerca, di velleitarismo e di ambigua disponibilità.
· D’Annunzio mantiene ancora un ruolo di primo piano: ol­tre che come poeta-vate egli si presenta come maestro di comportamento, di vita inimitabile: sulle sue pagine generazioni di piccoli borghesi sognano amori d’eccezione e vagheggiano il bel gesto.
· In un complesso rapporto di opposizione-filiazione con D’Annunzio si collocano i giovani intellettuali in­quieti e disponibili che bramano fare il processo alla generazione che li ha preceduti e danno vita alle riviste fiorentine.
· La Voce è la rivista più notevole in quanto dapprima si batte per un rin­novamento della letteratura coin­cidente con un rinnovamento della so­cietà italiana, ma, dopo, mu­terà indirizzo e proprio sulle sue pa­gine sarà teorizzata una concezione quanto mai aristocratica e rarefatta della poesia.
· Contro le mitologie decadentistiche co­mincia la sua polemica Croce che elabora un sistema filosofico di laica razionalità e teorizza una con­cezione del fatto artistico che si di­mostrerà sempre più restia ad acco­gliere il processo iniziato negli ultimi decenni dell’Ottocento.
· Sotto il denominatore comune dell’opposizione ai moduli dannunziani vanno visti i crepuscolari e i futuri­sti.
La prima guerra mondiale segna una cesura nella prima metà del secolo. A guerra conclusa si presentano nella società italiana problemi di partico­lare gravità:
· il rifiuto da parte delle potenze alleate delle richieste ita­liane crea subito il mito della «vittoria mutilata»;
· le masse proletarie esigono quanto durante la guer­ra era stato loro promesso: riforme sociali e distribuzione di terre;
· gli ex ufficiali, di estrazione piccolo-borghese, difficil­mente si rassegnano alla grigia rou­tine quotidiana.
Alle elezioni del 1919. La neoformazione fascista non ottiene seggi, ma alle elezioni del ‘21 questa formazione manda alla Camera 30 deputati. Dal vago sinistrismo iniziale il fascismo passa ad un miscuglio di posizioni nel quale confluiscono
· disprezzo per la democrazia e per il socialismo,
· esal­tazione e pratica della violenza,
· mitologia nazionalistica.
Il partito socialista aumenta il mito del pericolo rosso, fornendo un’arma propagandistica al fascismo, e non è capace di proporre un’alternativa al vecchio stato liberale; la vec­chia classe liberale mette allo scoper­to la sua vocazione autoritaria e pensa ad un uso strumentale del fasci­smo in funzione antisocialista. Con la collusione de­gli interessi agrari e industriali, con la complicità degli organi dello stato liberale e della monarchia, il fascismo trionfa.
Soppressa nel ‘25 ogni manifestazio­ne di vita democratica, Mussolini con la creazione dell’Accademia d’Italia, dell’Istituto fascista di cultura, con le scuole di mistica fascista cerca di legare al regime anche la cultura. In realtà, anche se in Italia mancarono in questo campo esempi di coraggiosa opposizione e fuoruscitismo, egli ottenne solo conformistiche adesioni e la migliore produzione letteraria di quegli anni ignorò le mitologie e le parole d’or­dine ufficiali. Ben diversa consisten­za ebbe invece l’opposizione politica contro la quale l’apposito Tribunale speciale non cessò di erogare se­coli di prigione e di domicilio coatto.
La parabola del fascismo intanto si sviluppa con logica coerente con le sue premesse: seguono infatti l’avventura imperialistica della guerra d’Abissinia, la tragica farsa dei volontari in Spagna, l’intervento nella seconda guerra mondiale a rimorchio del militarismo nazista.
Il dibattito letterario del primo do­poguerra è inizialmente caratterizzato da un richiamo all’ordine ed alla tradizione: La Ron­da teorizza la lezione dei classici, l’estrema pulizia formale, la prosa d’arte rigorosamente calibrata. È una visione piuttosto an­gusta dei compiti del letterato che si limi­ta ad una sapienza calligrafica senza troppa preoccupazione per i complessi pro­blemi derivanti dal rapporto tra letteratura e vita nazionale.
Contro tale posizione Gramsci su L’Ordine nuovo e Gobetti su La Rivoluzione liberale, teorizzano una diversa concezione dell’attività letteraria, vista da loro in stretto rapporto con le questioni più vive della società italiana. Su Il Baretti Gobetti si batte per una sprovincializzazione della no­stra letteratura, per un’apertura verso una dimensione europea.
In Europa infatti gli anni tra il ‘20 e il ‘30 sono ricchi di fermenti e di realizzazioni: Solaria divulga la conoscenza de­gli autori stranieri e con Pirandello e Svevo la letteratura italiana conquista una dimensione europea.
Intanto il fascismo, pesa sulla cultura italiana: gli uomini di lettere più consapevoli del gruppo di Solaria trovano risibili sia i richiami autarchici alla tra­dizione e l’esaltazione di una lette­ratura strapaesana fatti dalla cultura ufficiale, sia le mitologie fasci­ste, scelgono una forma d’arte che non si compromette col regime, lo ignora e da questo nasce il vagheggiamento memoriale, la trasfigurazione del dato reale in una dimensione arcana e simbolica, l’impegno per realizzare pa­gine di assorta levità diventano le caratteristiche di fondo della produzio­ne in prosa; il rifugio nel proprio io, la solitudine esistenziale, l’ascetica ri­cerca della parola essenziale e dei rapporti analogici, sulla scia di prece­denti teorizzazioni, diventano le caratteristiche della poesia nuova che in Ungaretti e in Montale trova i suoi mae­stri. Al di fuori di questo filone, Saba, ripudiando ogni ricercatezza espressiva, canta con profon­da umanità tutti gli aspetti del quo­tidiano e trova chiari accenti di opposizione al regime.
Un altro aspetto della letteratura d’opposizione è poi da considerare l’interesse suscitato negli anni ‘30, per i narratori americani dalle cui pagine si ricavava il mito di un’America giovane, sanguigna e libera. Furono questi i testi di più larga diffusione tra il pubblico: la poesia invece, diventa sempre più una produzione per iniziati.
In complesso la letteratura del ventennio, resta estranea alle mitologie fasciste e prosegue nella sua ricerca formale. Il fascismo, malgrado la creazione dell’Accademia d’Italia non riesce ad ottenere i suoi scopi.
L’arte per l’arte, l’impressionismo - Tra il 1914 e il 1916, una rivista come «La Voce» pubblicata a Firenze, accentua il suo carattere letterario: i vociani privilegiano una critica autobiografica e il frammentismo lirico, cercano di espungere qualsiasi intrusione etica sociale o politica e di promuovere una poetica fondata sul culto della parola e dello stile. A tale indirizzo fanno riferimento alcuni dei maggiori poeti del secolo.
Tra il 1919 e il 1923 il gruppo degli scrittori de «La Ronda» concordano con il programma di Cardarelli che enunciava la volontà di restaurare la tradizione classica della letteratura italiana impersonata in Petrarca, Manzoni e Leopardi, esigeva per lo scrittore piena autonomia da ogni compromissione politica e sociale, considerando l’atto letterario come supremo esercizio di stile. Sul piano letterario mostra il rifiuto di ogni forma irrazionalista, dalla poesia simbolista di Pascoli alle mitografie di D’Annunzio, alle teorie iconoclaste dei futuristi. Ciò accanto al recupero di una concezione dell’arte intesa come diletto, mestiere raffinato di letterati che si professano estranei a ogni finalizzazione dei contenuti. I rondisti sono teorici di una scrittura d’arte, senza impegni etici né politici, esercizio disinteressato.
Tra il 1926 e il 1936, intorno alla rivista fiorentina «Solaria», si raccolgono alcuni tra i migliori scrittori del periodo e che ebbero grossa influenza nel dopoguerra. Tra loro Eugenio Montale, e Carlo Emilio Gadda. La rivista era stata fondata e diretta a Firenze da A. Carocci. Una rivista eclettica, oscillante tra il rigore formale de «La Ronda» e il moralismo del gobettiano «Baretti». In contrasto con l’autarchia culturale predicata dal fascismo, vi fu una grossa apertura verso le esperienze europee: si recensirono tempestivamente i libri di P. Valéry, E. Hemingway, A. Gide, A. Malraux; si stamparono traduzioni di T.S. Eliot, J. Joyce, R.M. Rilke. Si cercò di valorizzare autori del Novecento italiano dedicando numeri unici a Saba, Svevo, Tozzi. Dal 1930 ci fu una maggiore attenzione verso i giovani scrittori, come Vittorini. Gli interventi di N. Chiaromonte, U. Morra e G. Noventa sulla responsabilità storica del letterato allarmarono la censura che sequestrò alcuni numeri della rivista, tra cui quello del marzo-aprile 1934 contenente “Il garofano rosso” di Vittorini.
Di tutti gli autori che si mossero variamente in questi anni, gli unici riletti dalle generazioni successive di lettori, furono Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli.
[2] Giuseppe Ungaretti (1888-1970) – Nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1888, e qui trascorre la prima giovinezza, stabilendosi successivamente prima a Parigi, dove frequenta, tra gli altri, Apollinaire, Breton, Braque, Picasso, Palazzeschi e Savinio, poi a Milano e a Roma. Nel 1936 è a San Paolo in Brasile, per insegnarvi letteratura italiana all’università. A San Paolo è colpito da un duro lutto per la morte del figlio all’età di soli nove anni. Nel 1942 ritorna in Italia: insegna all’università di Roma e intensifica la sua ormai lunga carriera letteraria. Insignito di vari premi, nel 1962 è anche eletto presidente della Comunità europea degli scrittori. La prima opera di Ungaretti, Allegria di naufragi, risale al 1919, ed è profondamente segnata dalla prima guerra mondiale, esperienza vissuta in prima persona da Ungaretti; nel 1933 pubblica Sentimento del tempo e nel 1942 dà alle stampe la prima raccolta completa dei suoi versi, sotto il titolo Vita di un uomo, arricchita poi in varie riprese. Altre opere sono Il dolore (1947), La terra promessa (1950) e Il taccuino del vecchio (1960). Ungaretti muore a Milano, in età avanzata, nel 1970. Per approfondire vedi il buon articolo di Carmen Alfano esemplare poetica della lirica ungarettiana.
[3] Come…come: i due come stabiliscono un rapporto di somiglianza tra il paesaggio arido del San Michele e il pianto del fante-poeta che non si vede, perché è un pianto interiore, prosciugato ancora prima di sgorgare sotto forma di lacrime.
[4] San Michele: altura del Carso, a sud ovest di Gorizia, oggetto di ripetuti attacchi italiani e conquistata definitivamente il 6 agosto 1916, nel corso della sesta battaglia dell’Isonzo.
[5] Prosciugata: arida, priva di umidità come gli occhi del soldato Giuseppe.
[6] Refrattaria: che respinge ogni forma di vita, come il dolore del poeta che rifugge da ogni conforto.
[7] Disanimata: senza palpito di vita.
[8] La morte si sconta vivendo: la pace che ci aspetta con la morte deve essere pagata con le sofferenze della vita.
[9] Mi tengo … mutilato: sto vicino a questo albero schiantato dalle bombe. Mutilato suggerisce anche un’implicita analogia tra l’albero, che le bombe hanno ridotto a un troncone, e gli uomini mutilati dalle ferite ricevute in guerra.
[10] Abbandonato: può essere riferito sia al poeta sia all’albero; l’ambiguità è certo voluta da Ungaretti, in quanto arricchisce la carica semantica del verso. Il senso è: lasciato (Ungaretti o l’albero) in questa dolina, che ha la tristezza malinconica di un circo equestre vuoto.
[11] Dolina: grande buca a forma di cratere, tipica della zona carsica, dovuta all’erosione delle acque nei terreni calcarei.
[12] Languore: abbandono, malinconia, desolazione.
[13] Urna: è una parola derivata dal latino, che fa parte del linguaggio aulico. Letteralmente è un contenitore, un vaso. Ungaretti, probabilmente, vista la connotazione di sacralità, che riaffiora anche nella scelta della parola reliquia nel verso successivo, pensa alle urne cinerarie, usate fin dall’antichità per conservare le ceneri dei defunti. Come l’urna avvolge le ceneri, così l’acqua dell’Isonzo avvolge il corpo del fante-poeta, regalandogli un senso di pace.
[14] Reliquia: ciò che resta di qualcuno o di qualcosa dopo la sua scomparsa e, in particolare, ciò che resta del corpo, delle vesti, degli oggetti appartenuti a un santo o a un beato, fatto oggetto di culto da parte della Chiesa.
[15] Isonzo: il fiume che scorre lungo l’altopiano del Carso, bagnando Gorizia e Monfalcone.
[16] Come … acqua: camminando leggero sul fondo accidentato e sassoso del fiume; l’immagine dell’acrobata si riferisce alla difficoltà di stare in equilibrio sui sassi.
[17] Come un beduino: come un nomade arabo che vive nelle steppe e nei deserti, Ungaretti si piega quasi imitando l’atto della preghiera islamica. Il poeta stesso scrive: “La preghiera islamica è accompagnata da molti inchini come se l’orante accogliesse un ospite”. Il paragone nasce dal recupero memoriale dell’infanzia e dell’adolescenza trascorse in Egitto e anticipa la successiva evocazione del fiume Nilo.
[18] Mi … universo: il fante-poeta, facendo quel “bagno purificatore” nell’Isonzo, si è sentito in armonia con l’universo intero, riconoscendosi come una piccola parte, un filo (docile fibra) dell’universo
[19] In armonia: il tormento del fante-poeta è costituito dal non sentirsi in armonia con l’universo, cioè estraneo al mondo che lo circonda. E’ evidente l’allusione all’abbrutimento della guerra, che annebbia lo spirito.
[20] Occulte mani: le mani nascoste e misteriose della natura, che penetrano nell’intimo del poeta. Ungaretti scrive: “Sono le mani eterne che foggiano assidue il destino di ogni essere vivente”.
[21] M’intridono: impregnano il fante-poeta di una linfa o di un liquido vitale; il riferimento specifico è all’acqua del fiume. Le mani sono le mani dell’Isonzo.
[22] La rara felicità: la felicità di sentirsi in armonia con la natura.
[23] Ripassato: passato in rassegna, ricordato. Le acque dell’Isonzo hanno ricordato a Ungaretti i momenti della sua vita legati ad altri fiumi.
[24] Serchio: è il fiume della Toscana che scorre vicino a Lucca, nella zona dalla quale era originaria la famiglia Ungaretti. Al Serchio hanno attinto, si sono cioè metaforicamente abbeverati, i suoi predecessori.
[25] Nilo: è il fiume dell’Egitto, dove Ungaretti è nato ed ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza.
[26] Ardere d’inconsapevolezza: il piccolo Giuseppe si sentiva bruciare dal desiderio di fare esperienze, sentiva, dentro di lui, una vita assolutamente spontanea e naturale, cioè le sue passioni non erano ancora frenate da una matura autocoscienza
[27] Estese pianure: la casa di Ungaretti era in periferia, ai margini del deserto, che iniziava proprio lì, manifestandosi in tutta la sua estensione.
[28] Senna: fiume francese, che scorre nella città di Parigi.
[29] In quel … conosciuto: nelle acque torbide (caratteristica reale) della Senna, Ungaretti si è rimescolato, con allusione alle tumultuose e anche contrastanti esperienze esistenziali e culturali della vita parigina. Scrive il poeta: “E’ Parigi che incomincia a darmi, prima di quella più compiuta che mi darà la guerra, più chiara conoscenza di me stesso, che era stata impotente a concedere a Mohammed Sceab che vi era venuto con me e che non ebbe in grazia di incominciare a conoscersi senza morirne”. La Senna rappresenta la maturazione anche dolorosa di Giuseppe e il sacrificio dell’amicizia più cara: Mohammed si suicida proprio a Parigi, che sembrava offrire tante opportunità da cogliere. La conoscenza è dunque innanzitutto sofferenza per il giovane Ungaretti.
[30] Contati nell’Isonzo: che l’Isonzo gli fa ricordare.
[31] Nostalgia … traspare: è questa la nostalgia del passato evocata da ognuno dei tre fiumi, ora che la notte avvolge il fante-poeta e lo protegge con le sue tenebre, come la corolla che avvolge il cuore del fiore. La corolla della notte è fatta di tenebre, ma queste tenebre, grazie all’esperienza memoriale, hanno riconciliato il fante-poeta con la vita.
La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia La Letteratura del primo Novecento di massimo Capuozzo salotto culturale stabia

Nessun commento:

Posta un commento

Archivio blog