martedì 23 marzo 2010

Joseph Conrad e L’agente segreto di Ciro Donnarumma, Mimmo di Martino, Giuseppe Esposito, Salvatore Sorrentino.

L’Agente Segreto è un romanzo politico di Joseph Conrad, pseudonimo di Józef Teodor Konrad Korzeniowski, uno scrittore che odiava la politica.
Conrad nacque nel 1857, in una cittadina polacca passata sotto il dominio della Russia, da genitori impegnati in attività clandestine e sovversive per la liberazione della loro patria dal dominio straniero. I suoi genitori morirono in seguito alle persecuzioni politiche subite: prima l'arresto e poi l'esilio. Durante l’infanzia dovette subire l’esilio in Russia insieme alla famiglia a causa dell’intemperante attività politica del padre, un rivoluzionario nazionalista, che si batteva per l’indipendenza della Polonia. La sua infanzia non fu quindi affatto serena e segnò profondamente lo scrittore, facendo maturare in lui un atteggiamento di forte antipatia verso ogni forma di sovversione politica.
A Cracovia Conrad si dedicò ad intense letture e rimase affascinato dalle narrazioni di viaggio tanto che nel 1874 decise di lasciare la Polonia per abbracciare la vita di mare: a Marsiglia si imbarcò come marinaio su navi francesi dirette alle Indie Occidentali ed in Sud America, finchè, nel 1878, non fu ingaggiato su una nave inglese che lo condusse per la prima volta in Inghilterra, la sua nuova patria.
Nel 1886, Korzeniowski divenne suddito britannico e prese il nome di Joseph Conrad prestando servizio su navi inglesi, fino ad ottenere il grado di comandante, viaggiando verso l'Australia e nel Mediterraneo, nei mari della Malesia ed in Africa assunse il comando di un battello fluviale lungo il corso del Congo, vivendo una drammatica esperienza, rielaborata nel romanzo Cuore di tenebra.
Dopo venti anni abbandonò la vita di mare per tornare in Inghilterra, dedicandosi alla letteratura. Tra il 1894 e il 1924, anno della sua morte, Conrad pubblicò i grandi romanzi, legati alle esperienze ed avventure da lui vissute lungo i mari di tutto il mondo: La follia di Almayer del 1895, Un reietto delle isole del 1896, Il negro del "Narciso" del 1897, Gioventù del 1898, Cuore di tenebra del 1899, Lord Jim del 1900; Tifone del 1902, Nostromo del 1904, L'agente segreto del 1907, Sotto gli occhi dell'Occidente del 1911, Il compagno segreto del 1910, Vittoria del 1915, La linea d'ombra del 1916.
Fino alla prima metà del Novecento, Conrad è stato considerato scrittore di storie marinaresche, sotto il segno dell' "esotismo" e del "pittoresco", ridotto sotto l'etichetta di un "Kipling dei mari del Sud" mentre oggi è stata riconosciuta "la complessa dimensione problematica della narrativa conradiana" (G.Cianci). F. Binni, che pure ha rinvenuto e sottolineato alcune limitazioni nell'opera di Conrad, riconosce che, nella sua narrativa, il desiderio di essere "popolare" si eleva spesso al di sopra della soglia della "grande letteratura".
L’imbarco sulle navi di Sua Maestà Britannica, contribuì sicuramente a far nascere in Conrad la passione di raccontare le storie di marinai, di mare, di tempeste, ma ad un certo punto della sua carriera di scrittore, Conrad decise di cambiare genere e passò alla narrazione di avventure, che non avvengono più in mare, ma sulla terraferma: se Tifone e Lord Jim sono i romanzi più famosi di Conrad, “L’agente segreto” è un romanzo che costituisce la svolta narrativa dell’autore, nel passaggio dal racconto marinaro a storie “terrestri”, spesso dai critici definite “politiche”.
Nel 1907, pubblicò L’agente segreto, la cui storia ha una struttura molto studiata, i cui personaggi sono presentati in una sequenza precisa di ambienti, uno dopo l’altro, fra il primo ed il sesto capitolo. Il metodo per connotarli è abbastanza simile: brevi frasi, che fotografano i dettagli fisici e psicologici, con uno studio, che non si ferma solo a questo, toccando quei meccanismi sottili, che legano doveri pubblici e debolezze private del singolo.
L’agente segreto é un libro insolito, uno dei migliori di Conrad, che, con grande drammaticità, spiega uno dei più tragici dilemmi del potere attraverso l’esposizione del personaggio Vladimir, all’inizio del romanzo.
Sotto l’apparenza velatamente giallistica, L’agente segreto nasconde una serie di tematiche, che vanno al di là della storia stessa; una serie di temi universali, passando anche attraverso una sequenza di considerazioni politiche e sociali, che sicuramente erano già palpabili nell’Europa, durante il periodo che precedette “la grande guerra”.
Quattordici anni dopo la pubblicazione del romanzo L’agente segreto, Joseph Conrad ne scrisse una duplice riduzione teatrale, dapprima in quattro atti nel 1921 e poi in tre atti nel 1923. Dopo la loro prima rappresentazione, però, di questi testi teatrali non esistono più tracce di allestimenti scenici, né in Inghilterra, né in Italia. Anche per quanto riguarda l’editoria, “L’agente segreto” teatrale non ha nello stesso mondo anglosassone altre edizioni a stampa dopo quelle, a tiratura molto ridotta, dei suoi esordi.
Nel 1994, Luisa Saraval tradusse per la prima volta L’agente segreto per i Classici Giunti con introduzione e note critiche di Alessandro Serpieri.
Il romanzo trae spunto da un fatto di cronaca, realmente accaduto il 15 febbraio 1894: un’esplosione in Greenwich Park, probabilmente dovuta ad un fallito attentato anarchico all’Osservatorio di Greenwich, compiuto dall’anarchico Martial Bourdin.
Benché possa essere classificato come un romanzo giallo, l’opera si trasforma in più punti in un racconto sulla psiche umana, peraltro L’agente segreto è uno dei primi romanzi moderni a trattare temi quali il terrorismo e lo spionaggio.
Da vari anni, il signor Verloc conduce una doppia vita a Londra: apparentemente, egli è un marito e gestore, come tanti altri, di un negozio nel quartiere londinese di Soho, ma in realtà è un agente segreto che opera in favore di un’ambasciata straniera con l’incarico di sorvegliare gli anarchici locali, che usano proprio il suo negozio per incontrarsi e che collabora come informatore con Scotland Yard.
In un’ambientazione che ritrae una Londra di Soho ottocentesca e squallida Conrad racconta l’ambiente degli anarchici, svelando la vita segreta di uno di questi che da spia dell’ambasciata russa si fa contemporaneamente informatore della polizia britannica.
Verloc è sposato con Winnie e con loro vivono la madre e il fratello di Winnie: il ragazzo il cui nome è Stevie ha dei gravi problemi di ritardo mentale e ha continuamente bisogno che qualcuno si occupi di lui.
I familiari non sono al corrente dell’attività segreta di Verloc e nemmeno sono al corrente delle riunioni che si svolgono nella bottega a cui prende parte una serie di estremisti anarchici.
Improvvisamente però il nuovo ambasciatore del Paese per il quale lavora, una non meglio precisata potenza dell’Est, richiede al signor Verloc di organizzare un’azione violenta in modo da alimentare nell’opinione pubblica sentimenti di ostilità nei confronti degli anarchici.
In quegli anni, infatti, siamo all’inizio del ‘900, l’Inghilterra dava asilo a tutti gli appartenenti ai movimenti estremisti, al contrario degli altri Stati europei, dove questi erano considerati criminali.
In questo contesto il protagonista Adolf Verloc, un brutto personaggio, finisce col tradire anche i suoi affetti, diventando la causa della morte del cognato e non mostrando il benché minimo amore nei confronti della moglie.
Attraverso Verloc, Conrad ritrae una tipologia di persone che doveva conoscere bene attraverso i ricordi di infanzia e soprattutto mostra il suo giudizio sulla futilità di ogni movimento rivoluzionario in un’ottica, che vede la politica solo negativamente: un esercizio inutile dove regnano le illusioni, la vanità e l’odio.
Sconcertato ed allarmato, Verloc si ritrova costretto ad eseguire gli ordini, malgrado, all’interno del suo circolo, si sia costruito la reputazione di una persona pacifica, più incline alle parole che ai fatti. Costretto ad agire nel silenzio, per non insospettire i propri compagni, l’agente segreto convince il cognato Stevie, un ritardato mentale, a portare una bomba artigianale nei pressi dell’Osservatorio di
Greenwich. La descrizione della personalità di Stevie è particolarmente riuscita, struggente nella sua rievocazione, forse, di qualche esperienza personale dell’autore.
Quello che doveva essere un semplice corriere si ritrova ad essere l’unica vittima dell’attentato: Stevie, infatti, inciampa nel parco dell’Osservatorio e salta in aria per via del suo pericoloso carico.
Divorato dal rimorso, Verloc confessa tutto a sua moglie Winnie, che in un eccesso di rabbia lo uccide: Winnie, infatti, era molto più legata al fratello, al quale ha dedicato gran parte della sua vita, che al marito, sposato più che altro per opportunità.
La donna, subito dopo l’omicidio, fugge e si imbatte nel Compagno Ossipon, da lei segretamente amato, in parte ricambiata, da tempo. Comico l’espediente d’inventarsi la dipendenza economica dalle donne per ben tre dei terribili “anarchici”, con la punizione finale del rimorso perpetuo per Ossipon, posto faccia a faccia con le sue responsabilità, da una relazione amorosa e non dalla sua passione politica.
Questi in un primo tempo si impegna a scappare insieme con lei dall’Inghilterra, ma poi l’abbandona, temendo che possa commettere altri omicidi.
Vedendosi, infine, abbandonata da tutti e senza più nessuno al mondo, Winnie si uccide, gettandosi nelle acque della Manica dalla nave, che la stava portando via dell’isola.
Il romanzo ha una tensione incredibile, così come è mirabile l’intensità della narrazione di Conrad, soprattutto i dialoghi sono un bell’esempio di tecnica narrativa. Conrad raggiunge il massimo livello nelle pagine finali, nelle quali il dramma arriva al suo completamento; è dramma il rimorso e la consapevolezza di aver creato dolore, è dramma la prospettiva della forca o della galera è dramma il fatto stesso di concepire la propria fine.

La Letteratura del primo Novecento di Massimo Capuozzo

La rivoluzione lirica del primo Novecento[1]
La grande rottura rispetto alla tradizione romantica e classicista si era prodotta in Francia e in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, e a cavallo dei due secoli nella nostra letteratura. Pertanto le esperienze poetiche del primo Novecento ap­paiono sotto il segno della continuità e dello svi­luppo, e configurano con maggior evidenza la fi­sionomia di una poesia novecentesca, moderna con caratteri propri e definibili che cerchiamo di riassumere e schematiz­zare.
La poesia del Novecento è un’esperienza che si allontana dal re­sto dei sistema letterario, si sviluppa in una sfera a sé stante ed ha una circolazione limitata.
La lirica moderna accentua ancora, se è possibile, il carattere di soggettivismo. Il poeta compone senza potersi rapportare a un pubblico, né reale, né fittizio.
Il linguaggio, la parola, prevalgono su tutti gli altri elementi della poesia. Il poeta, che non si sente più in grado di esprimere attraverso il linguaggio la sua visione del mondo, si propone di cercare la parola che ha in sé, autonomamente, la capacità di significare, alludere, evocare. Egli fa come da filtro tra le parole e le cose, le mette in relazione e lascia che da questa re­lazione scaturisca un significato.
1. L’«oscurità» è un dato strutturale. Un carattere che appare su­bito evidente nella poesia moderna è la difficoltà di com­prensione che essa presenta. L’oscurità può derivare da una concentrazione dei significati o può essere il risultato della scomparsa del contenuto, quando le suggestioni del suono, le sequenze ritmiche finiscono per sostituire i significati. Ma an­che senza considerare queste estreme esperienze delle avan­guardie, il lettore della poesia moderna si trova di fronte a una poesia nella quale non riesce a isolare un contenuto preciso, alla quale non può accostarsi attraverso lo strumento della parafrasi. Egli deve pertanto accettare l’indetermina­tezza come elemento costitutivo del messaggio poetico.
2. A differenza di quanto accade per la prosa, si possono indi­care per la poesia alcuni momenti fondamentali e alcune ten­denze generali, con la precisazione tuttavia che nel no­stro Novecento ci sono poeti di grande statura la cui voce si differenzia con caratteri originali.
3. A partire dai primi decenni del Novecento la nuova poesia italiana si forma con lo sguardo rivolto alle esperienze stra­niere; le opere di Baudelaire, Mallarmè, Rirnbaud, Valéry di­ventano i punti di riferimento costanti; si può dire insomma che i poeti d’inizio secolo recuperarono i ritardi accumulati dalla nostra letteratura nel corso del secolo precedente.
4. D’Annunzio e Pascoli ebbero una funzione di cerniera tra Ottocento e Novecento ed esercitarono un’importante influenza. Non va nemmeno trascurato l’esempio dei crepusco­lari sia per le scelte tematiche sia per l’intonazione intimistica e sommessa che portarono nella nostra poesia.
5. Una proposta decisamente caratterizzata fu quella dell’avanguardia futurista. Le dichiarazioni programmatiche e teoriche contenute nei manifesti della letteratura futurista, mentre negavano di fatto la possibilità di una narrazione proponendo ad esempio l’abolizione della sintassi, della punteg­giatura, dell’aggettivo, potevano trovare una più efficace rea­lizzazione nel linguaggio poetico. In effetti alcune parole d’ordine dell’avanguardia futurista si ponevano nel solco segnato dalla ricerca della poesia moderna come la proposta del verso libero, della immaginazione senza fili, delle parole in libertà. I crepuscolari oppongono coscientemente ai miti dannunziani la pro­saica, dimessa vita giornaliera e pro­vinciale e tuttavia a questo mondo non riescono ad aderire del tutto: sono troppo letterati e raffinati per non sentirlo di pessimo gusto, dai confini del decadentismo non riescono ad uscire. I futuristi con vi­rulenza iconoclasta predicano la di­struzione dei musei e della tradizione, il ripudio dei formalistici compiaci­menti dannunziani ed esaltano la macchina, la velocità, la violenza e la guerra «sola igiene del mondo». Oltre che l’elemento irrazionalistica, che da qualche decennio è la costante di tanta produzione artistica europea, c’è nel loro caso dell’altro: la collusione con le tendenze naziona­listiche già virulente nel paese, la su­blimazione letteraria di quella ferrea legge di violenza che l’industrialismo portava nei rapporti tra le classi.
6. Fuori da queste due scuole operano poeti che in vario modo partecipano delle inquietudini del tempo e tentano, con differenti risultati, nuove strade. Nella poesia che con più evidenza si coglie già il nuovo: Clemente Rebora e soprattutto, Dino Campana, certamente la voce poetica più originale e più alta di questo periodo, senza i cui Canti orfici non si capirebbero Ungaretti e tutto l’ermetismo.
7. La data della prima raccolta di poesie di Ungaretti Il Porto Sepolto, 1916, ha un valore rilevante nella storia della poesia italiana del Novecento, poiché in questa raccolta si rende concreta il problema centrale della lirica del primo Novecento. Si trattava di accoglie­re l’eredità simbolista, passata attraverso i modelli francesi, e le novità delle sperimentazioni delle avanguardie, e per la stret­ta relazione con una «novità» di contenuto.
Ungaretti sa far com­piere questo passo in avanti alla nostra lirica; ciò che, infatti, va fortemente rilevato, perché costituisce la vera svolta di Porto Sepolto, è l’impiego degli strumenti retorici di natura metrica, sti­listica e sintattica, messi a punto in un arco di esperienze poetiche che vanno da Baudelaire a Pascoli, ai crepuscolari e ai futuristi, per rifondare la parola poetica nella pienezza della sua funzione. Nei versi di Porto Sepolto non vuole più esserci traccia di parodia, sperimentalismo, trasgressione, cioè di quello stimolo di natura so­prattutto polemica e culturale che esprimevano un bisogno di novità, ma anche una «crisi» della poesia. Ungaretti, che pure ha rifatto questa stessa strada, sembra aderire più profondamente alle ragioni fondamentali che hanno determinato la svolta della poe­sia moderna e cerca uno strumento espressivo non incrostato dalla tradizione per ridare profondità, sacralità alla parola. Ri­cerca la parola poetica autentica, «pura», creatrice, capace di ri­velare un frammento del mistero della vita, legandolo a un’e­sperienza circostanziata, colta come un’improvvisa e momenta­nea illuminazione.
Le novità di carattere formale di questa poesia appaiono subito evidenti:
1. La disgregazione della metrica che, andando al di là dell’adozione del verso libero, da un risalto maggiore alla percezio­ne del verso come frammento (nella poesia di Ungaretti si trova­no versi composti di una sola parola), usando l’a capo, lo spazio bianco della pagina come pausa, come silenzio;
2. La disarticolazio­ne sintattica che elimina i nessi logici, la punteggiatura;
3. La co­struzione per analogie, il carattere di frammento, di illuminazio­ne improvvisa di immagine momentanea che racchiudono in un’estrema sintesi il contenuto.
Quello che rimane in una poe­sia di questo tipo è necessariamente enfatizzato, bloccato, fissato in una sorta di isolamento che funziona da moltiplicatore delle possibilità della parola di comunicare dei significati, per farla apparire come rivelazione, mistero. Non si deve tuttavia pensare che questa ricerca di un’intensità di significato, che ca­ratterizza anche le poesie della seconda raccolta Allegria di Nau­fragi (pubblicata nel 1931, e comprensiva delle poesie di Porto Se­polto), sia un recupero sia supera e annulla la crisi di fine secolo.
Il poeta non ha un messaggio esplicito, ha una parola che nasce in lui dalla pienezza di un sentimento morale e dalla ricerca di da­re ad esso un’espressione forte, ed egli la offre nella sua essen­zialità e nudità come illuminazione e frammento, non come discorso.
Nelle raccolte successive Sentimento del tempo (1933), La Terra Promessa (1950), Un grido e Paesaggi (1952) Ungaretti ritorna a un linguaggio più tradizionale, ricupera il verso, la strofa che ospita un andamento sintattico più complesso, propone la ri­cerca di una lingua alta ed elegante.
· Il fenomeno più rilevante nel panorama della lirica italia­na degli anni Trenta e Quaranta è l’affermarsi di modi di concepire e fare poesia che furono riassunti nel nome di ermetismo, una tendenza che ha in sé i caratteri della modernità ed eredita sicuramente molte delle tensioni primonovecentesche verso una poesia pura, espressione di una ricerca di nuovo linguaggio, ma anche di nuovi contenuti.
Il poeta ermetico esprime un’ansia di testimonianza di verità che trova un’espressione indeterminata nel simbolo e nell’analogia, nella tendenza a enfatizzare la parola.
Il termine ermetico cominciò a circo­lare per indicare testi letterari che apparivano chiusi, nel sen­so che la loro comprensione era ostacolata non solo dalla com­plessità dell’argomento, ma dalla volontà dell’autore che ricercava l’oscurità. Il termine fu poi adottato dalla critica per indicare un gruppo di poeti che condividevano alcune idee-gui­da del fare letterario.
1. L’idea della poesia come va­lore che sta al di fuori e al di sopra della storia e del tempo e che quindi può parlare di un Uomo inteso nella sua essenza spiritua­le e non calato in una determinata situazione storica o persona­le
2. La poesia è proposta come testimonianza della verità anch’essa assoluta, che non si deve cioè misurare e con­frontare con gli eventi e con la storia.
3. A quest’idea si associa la ricerca di uno stile alto, l’unico capace di esprimere convenientemente l’ansia di verità e di assoluto.
Ciò non impedisce ai poeti ermetici di porsi compiutamente entro l’alveo della poesia moderna; in particolare essi fanno propria l’esperienza ungarettiana di una parola essenziale, il valore espressivo fondamentale dell’analogia e del simbolo. Per la loro concezione della letteratura come espressione pura e incontami­nata, sottratta da ogni influsso storico e politico, rimasero estra­nei a un coinvolgimento nella politica culturale del regime fasci­sta e sposarono la linea dell’astensione dalla partecipazione alla vita politica e al dibattito ideologico.
Poiché l’ermetismo non fu propriamente una scuola poetica, non tutti i critici concordano sui nomi da far rientrare in questo «contenitore»; tuttavia si può affermare che poeti come Mario Luzi, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Salvatore Quasimodo furono tra i maggiori protagonisti della stagione dell’ermetismo, anche se poi approdarono ad esperienze diverse: in particolare Quasimodo (1901-1968), che aveva pubblicato con successo le raccolte Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932); dopo il 1945, quando l’ermetismo entra­va in crisi, coniugò il suo impegno di poeta a quello politico e ci­vile, come testimonia la raccolta Giorno dopo giorno (1947).
· Una vena lirica che ricerca la modernità del linguaggio non attraverso la rottura, ma tramite un rapporto nuovo con la classicità, è una linea che si può qualificare con Camillo Sbarbaro e che continua anche in poe­ti della generazione successiva come, ad esempio, in Giorgio Caproni e Sandro Penna.
· Del tutto diverso il cammino poetico di Saba (1883-1957) che ebbe parole di dura critica verso l’ermetismo, la poesia-frammento, la ricerca dell’oscurità. La sua esperienza, resa difficile da una personalità complessa e tormentata, è racchiusa nel Canzoniere, la raccolta delle sue poesie che ci raccontano, con il loro linguaggio per immagini e l’intonazione narrativa, il rap­porto del giovane poeta con Trieste, le difficoltà dell’adolescen­za, l’incontro con la moglie Lina, la nascita della figlia Linuccia, i disagi psicologici, la seconda guerra mondiale, fino all’autoritratto del poeta da vecchio. Mentre tutte le esperienze novecentesche avevano come comune denominatore una sfiducia nella possibilità di trasmettere significati attraverso le parole usuali, organizzate in «discorso», Saba continuò ad avere fede nella parola che comunica, la parola quotidiana o quella della tradizione, immessa in una sequenza narrativa lineare. Ciò non deve far pensare a un poeta passivamente legato alla tradizione, perché Saba è sicuramente «novecentesco» e non soltanto per le temati­che della sua poesia, che manifestano un modo tutto moderno di rapportarsi con la realtà, ma in particolare per la mancanza as­soluta di ogni atteggiamento aulico. L’essere poeta per Saba ha il senso di trasformare in arte una realtà quotidiana, di cose e di sentimenti, che non ammette più l’intonazione alta, elevata e di­stante dal discorso, a volte serio e drammatico a volte gioioso, di un uomo che parla ad altri uomini e ne cerca la comprensione.
Giuseppe Ungaretti[2]: esemplarità della parabola lirica del primo Novecento
Veglia
1. I versi di questa poesia descrivono una notte passata dal poeta al fronte accanto al corpo di un compagno ucciso, con il viso sfigurato dal dolore, le mani irrigidite nella morte.
2. La reazione del poeta è una ribellione disperata al destino di morte, un prorompente sentimento di attaccamento alla vita: non solo alla propria vita personale, ma a quella che è un bene comune, un diritto fondamentale di tutti gli uomini.
3. "Con le labbra ritratte in modo da mostrare i denti in una sorta di smorfia feroce",
4. "Il gonfiore e il colore violaceo delle mani, provocati dalla morte", sono immagini sconvolgenti, penetrate profondamente nell'animo del poeta


Un'intera nottatabuttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Cima Quattro il 23 dicembre 1915


IN MEMORIA.
Locvizza il 30 settembre 1916.
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Coranogustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposanel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io soloso ancora
che visse

Sono una creatura
1. La lirica è formata da tre strofe di varia lunghezza di versi liberi. Varia il numero dei versi nelle strofe e varia anche la misura dei versi, che sono senari, quinari, quaternari e ternari. La lirica è costruita secondo una struttura, che, nella sua rigorosa semplicità, rivela un attento dosaggio degli effetti, in modo da ottenere il massimo risultato espressivo con il minimo dispendio di parole poetiche. Due sono i procedimenti adottati dal poeta: il primo è quello dell’accumulazione ascendente, che tende, attraverso una serie di immagini in successione, a culminare in un vertice emotivo (climax) costituito da totalmente disanimata. Il secondo procedimento consiste nell’uso della figura retorica dell’anafora: ancora una volta si raggiunge il vertice emotivo (climax) attraverso quattro versi costituiti da aggettivi di spessore semantico crescente (fredda, dura, prosciugata, refrattaria) introdotti dall’avverbio così, ripetuto all’inizio di ognuno dei quattro versi e anche del penultimo verso della strofe, seguìto dall’avverbio totalmente, così perentorio, il quale, a sua volta, introduce l’ultimo verso della strofe, che è formato da una sola parola: l’aggettivo disanimata. L’altra anafora è costituita da Come questa pietra: serve a mettere in rapporto di comparazione le prime due strofe (comparativo di uguaglianza).
2. La terzina finale costituisce un aforisma, come in "Veglia".
3. Ancora una volta i punti sono sostituiti dagli spazi bianchi e la cadenza del ritmo sostituisce le virgole, segnando le pause per una lettura espressiva.
4. L’esperienza del dolore e della morte si traduce, in questa lirica, in una identificazione con la natura aspra , scabra e arida del paesaggio carsico, nel quale la roccia è porosa e l’acqua che cade dal cielo sparisce e sprofonda nel terreno permeabile. Pare che il fante-poeta stia descrivendo una metamorfosi. Da un punto di vista formale è un processo panico, ma a nessuno può sfuggire l’abissale differenza tra l’"impietramento" ungarettiano e il panismo vitalistico dannunziano di poesie come "La pioggia nel pineto". Il fante-poeta, infatti, attraverso la metamorfosi, non conquista una condizione esistenziale sovrumana, bensì si riduce a oggetto inanimato: siamo di fronte alla degradazione dell’uomo ad oggetto per trovare una via di scampo alla sofferenza. Simile a quell’acqua che subito scompare, quasi risucchiata dalla roccia, è il pianto del poeta, un pianto senza lacrime, un dolore interiore che prosciuga l’anima. La pace di questa "morte" si sconta con le sofferenze della vita del soldato, caratterizzata da quel dolore freddo, duro, aspro, totalmente privo di possibilità di consolazione.
5. "Soltanto la poesia – l’ho imparato terribilmente, lo so – la poesia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio si accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione e che l’uomo è molto meno regolato dalla propria opera che non sia alla mercè dell’elemento". (Giuseppe Ungaretti)

Come[3] questa pietra
del S.Michele[4]
così fredda
così dura
così prosciugata[5]
così refrattaria[6]
così totalmente
disanimata[7]

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte[8]
si sconta
vivendo

San Martino del Carso
1. L’immagine di un paese distrutto dalla guerra, San Martino del Carso, è per il poeta l’equivalente delle distruzioni che sono celate nel suo cuore, causate dalla dolorosa perdita di tanti amici cari. Ancora una volta il poeta trova nelle immagini esterne una corrispondenza con quanto egli prova nei confronti dell’uomo, annullato dalla guerra. La lirica, di un’estrema essenzialità è tutta costruita su un gioco di rispondenze e di contrapposizioni sentimentali, ma anche verbali: di San Martino resta qualche brandello di muro, dei morti cari allo scrittore non resta nulla; San Martino è un paese straziato, più straziato è il cuore del poeta. Così, eliminando ogni descrizione e ogni effusione sentimentale, l’Ungaretti riesce a rendere con il minimo di parole la sua pena e quella di tutto un paese, e dà vita a una lirica tutta nuova.
2. La lirica è costituita da quattro strofe. Le prime due strofe sono legate da un’anafora ("di queste case … di tanti") e dalle iterazioni ("non è rimasto … non è rimasto; tanti … tanto"). La metafora "brandello di muro" riconduce all’immagine di corpi mutilati, straziati, ridotti a brandelli. La terza strofa si apre con un ma che ribalta l’affermazione precedente. Come le prime due, le ultime due strofe sono legate da un parallelismo ("ma nel cuore … è il mio cuore") e dall’analogia (cuore = paese). Anche se nulla è rimasto dei compagni morti, "nessuna croce manca": non è svanito il ricorso di nessuno di quei morti. Le croci suggeriscono l’immagine di un cimitero, ma richiamano, naturalmente, anche al sacrificio e alla morte del Cristo.
3. L’immagine finale del cuore straziato richiama quella iniziale del brandello di muro, racchiudendo il componimento in un cerchio di dolore.
4. San Martino del carso descrive una sorte di "morte della vita": il luogo più vivo del corpo di un uomo, il cuore, sede delle emozioni, è assimilato ad un cimitero, a un regno di morte.Così il poeta stabilisce un'analogia tra sé e l'aridità delle rocce carsiche, qui egli confronta il proprio cuore con un paese distrutto, anzi, per opposizione, il cuore ospita le croci che invece mancano nel paese reale, distrutto dai bombardamenti.

San Martino del Carso
Di queste caseNon è rimasto Che qualcheBrandello di muro
Di tantiChe mi corrispondevanoNon è rimastoNeppure tanto
Ma nel cuoreNessuna croce manca
E’ il mio cuoreIl paese più straziato

I fiumi
1. La lirica è formata da versi liberi riuniti in strofe di varia lunghezza. E’ inconsuetamente lunga rispetto agli altri testi de “Il Porto Sepolto”. La lunghezza è in stretto rapporto con un impianto, in un certo senso, narrativo.
2. Tematica duplice ne I fiumi, una celebre poesia che compare nella raccolta L’Allegria (1931) in cui Giuseppe Ungaretti rievoca, con i propri ricordi personali, i fiumi che li hanno attraversati.
3. Il poeta definisce questa lirica come propria “carta d’identità”, contenente i suoi “segni”, quelli che gli permettono di riconoscersi ( i “segni” sono i fiumi lungo i quali è vissuto) . Lui in guerra , in un momento di pausa , nel paesaggio del Carso e precisamente nelle acque dell’Isonzo prende coscienza che “i segni” che serviranno a riconoscerlo saranno i fiumi. Grazie ai fiumi sa in modo preciso di essere un lucchese , che è un uomo sorto sui limiti del deserto lungo il Nilo, che se non ci fosse stata Parigi non avrebbe avuto l’effettiva maturazione umana e culturale.

Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato[9]
Abbandonato[10] in questa dolina[11]
Che ha il languore[12]Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso
In un’urna[13] d’acqua
E come una reliquia[14]
Ho riposato

L’Isonzo[15] scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua[16]

Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino[17]
Mi sono chinato a ricevereIl sole

Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo[18]

Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia[19]

Ma quelle occulte
Mani[20]
Che m’intridono[21]
Mi regalano
La raraFelicità[22]

Ho ripassato[23]
Le epoche
Della mia vita

Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio[24]
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.

Questo è il Nilo[25]
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza[26]
Nelle distese pianure[27]

Questa è la Senna[28]
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto[29]

Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo[30]

Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare[31]
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre

Soldati
1. Anche se la poesia è breve, Ungaretti riesce ad esprimere la condizione di soldato. Egli paragona infatti il soldato ad una foglia d'albero in autunno: basta un colpo di vento per far morire la foglia, così come basta un colpo di fucile a far cadere il soldato.
2. La poesia, scritta in tempo di guerra, vuole esprimere l'incertezza e la precarietà della vita dei soldati al fronte, che possono morire da un momento all'altro, come le foglie, in autunno, possono staccarsi improvvisamente dai rami.
3. Il poeta usa la forma impersonale (si sta) in quanto si riferisce a tutti i soldati. L'uso della forma impersonale contribuisce a creare un'atmosfera di universalità, di indefinito e, nello stesso tempo, di immobilità e di fatalità.
4. Il come introduce il paragone con le foglie. E ciò che unisce la vita dei soldati alle foglie è proprio l'incertezza, l'instabilità, la precarietà.
5. Come d'autunno basta un soffio di vento per far cadere le foglie, così in guerra basta una pallottola, che non si sa da dove arriva né quando per porre termine alla vita di un uomo. Con la preposizione semplice di (d'autunno) si rimane sempre nell'atmosfera di indefinito. Sugli alberi è, nella poesia, l'elemento meno importante.
6. Le foglie costituiscono l'elemento di paragone. Molto importante in questa poesia è il titolo, perché ci dice di chi si sta parlando.
7. È da notare l'ordine delle parole, che è diverso in prosa da quello in poesia. In poesia, dunque, l'ordine delle parole è diverso da quello tipico della prosa e non è casuale, ma voluto dal poeta e ciò per evidenziare il messaggio e per creare il ritmo particolare della lirica.
8. La poesia è stata dedicata ai soldati che andavano in guerra e di cui il destino è già scritto.
9. Ma forse non si riferisce solo a loro, bensì a tutti. Siamo tutti come delle foglie, non conosciamo il nostro futuro. Abbiamo una solo certezza...la morte.
10. Il non senso, il buio, il terrore, è dovuto a questa profonda e reale incertezza che l'uomo ha da sempre. Solo un grande come Ungaretti poteva racchiudere il pensiero di molti in poco meno di un verso.

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie

La madre
1. La lirica, datata 1930, appartiene alla raccolta "Sentimento del tempo".
2. Essa segna un ritorno del poeta alla tradizione, attraverso il recupero della versificazione tradizionale, di una sintassi più complessa e della punteggiatura.
3. Nel componimento, composto di due quartine, una terzina e due distici, il poeta affronta il tema della propria morte, esprimendo il desiderio che la propria madre, defunta, supplichi Dio per la salvezza del figlio. L’uso dell’indicativo nei versi di Ungaretti ci rende nota la certezza che l’autore ha della compassione della propria genitrice. Ella sarà incrollabile nella propria fede davanti al Signore, mentre implora il perdono per i peccati del figlio; alzerà tremante le vecchie braccia, ripetendo il gesto di abbandono alla volontà divina già compiuto in punto di morte. Nelle ultime due strofe(distici), si descrive la riconciliazione della madre con il figlio, perdonato e quindi avente portato a termine il processo di catarsi dal peccato: solo a quel punto la madre lo accoglierà, felice di aver portato la propria creatura vicina alla gloria di Dio.

E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua di fronte all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.
NOTE
[1] La Letteratura del primo Novecento - Il primo quindicennio del Novecen­to è dominato da Giovanni Giolitti che orienta la vita politica italiana verso forme diverse da quelle reazionarie degli ultimi anni del secolo prece­dente. Giolitti tenta di integrare nello stato liberale le nascenti forze operaie, di realizzare una conciliazio­ne tra le forze socialiste e il liberalismo avanzato. Ma questo disegno s’infrange di fronte alla particolare situazione italiana.
Dal notevole sviluppo indu­striale deriva una sorta di «illusione ottica»: i vagheggiamenti dello stato for­te, le esaltazioni nazionalistiche che assumono ben più virulenta consistenza: sul Leonardo, sul Regno, nelle serate futuriste folti gruppi di intellettuali esaltano l’avventura, il rischio, la missione africana dell’Italia. Si tratta di un comples­so di forze opposte a Giolitti che egli nei primi tempi sottovalutò, ma alle quali fu poi costretto a fare notevoli conces­sioni.
Giolitti con abile politica pendolare riesce a tenersi in equilibrio fra le opposte forze:
· infligge un note­vole colpo agli interessi bancari,
· fa concessioni agli interessi industriali e nazionalistici con l’im­presa di Libia,
· promulga le leggi di tu­tela del lavoro e con la riforma elet­torale realizza fondamentali aspirazioni socialiste,
· col patto Gentiloni stabilisce accor­di, per le elezioni a suffragio univer­sale, con le forze conservatrici e cle­ricali.
In questa situazione van­no viste le manifestazioni letterarie di questo periodo che hanno una caratteristica comune di inquieta ricerca, di velleitarismo e di ambigua disponibilità.
· D’Annunzio mantiene ancora un ruolo di primo piano: ol­tre che come poeta-vate egli si presenta come maestro di comportamento, di vita inimitabile: sulle sue pagine generazioni di piccoli borghesi sognano amori d’eccezione e vagheggiano il bel gesto.
· In un complesso rapporto di opposizione-filiazione con D’Annunzio si collocano i giovani intellettuali in­quieti e disponibili che bramano fare il processo alla generazione che li ha preceduti e danno vita alle riviste fiorentine.
· La Voce è la rivista più notevole in quanto dapprima si batte per un rin­novamento della letteratura coin­cidente con un rinnovamento della so­cietà italiana, ma, dopo, mu­terà indirizzo e proprio sulle sue pa­gine sarà teorizzata una concezione quanto mai aristocratica e rarefatta della poesia.
· Contro le mitologie decadentistiche co­mincia la sua polemica Croce che elabora un sistema filosofico di laica razionalità e teorizza una con­cezione del fatto artistico che si di­mostrerà sempre più restia ad acco­gliere il processo iniziato negli ultimi decenni dell’Ottocento.
· Sotto il denominatore comune dell’opposizione ai moduli dannunziani vanno visti i crepuscolari e i futuri­sti.
La prima guerra mondiale segna una cesura nella prima metà del secolo. A guerra conclusa si presentano nella società italiana problemi di partico­lare gravità:
· il rifiuto da parte delle potenze alleate delle richieste ita­liane crea subito il mito della «vittoria mutilata»;
· le masse proletarie esigono quanto durante la guer­ra era stato loro promesso: riforme sociali e distribuzione di terre;
· gli ex ufficiali, di estrazione piccolo-borghese, difficil­mente si rassegnano alla grigia rou­tine quotidiana.
Alle elezioni del 1919. La neoformazione fascista non ottiene seggi, ma alle elezioni del ‘21 questa formazione manda alla Camera 30 deputati. Dal vago sinistrismo iniziale il fascismo passa ad un miscuglio di posizioni nel quale confluiscono
· disprezzo per la democrazia e per il socialismo,
· esal­tazione e pratica della violenza,
· mitologia nazionalistica.
Il partito socialista aumenta il mito del pericolo rosso, fornendo un’arma propagandistica al fascismo, e non è capace di proporre un’alternativa al vecchio stato liberale; la vec­chia classe liberale mette allo scoper­to la sua vocazione autoritaria e pensa ad un uso strumentale del fasci­smo in funzione antisocialista. Con la collusione de­gli interessi agrari e industriali, con la complicità degli organi dello stato liberale e della monarchia, il fascismo trionfa.
Soppressa nel ‘25 ogni manifestazio­ne di vita democratica, Mussolini con la creazione dell’Accademia d’Italia, dell’Istituto fascista di cultura, con le scuole di mistica fascista cerca di legare al regime anche la cultura. In realtà, anche se in Italia mancarono in questo campo esempi di coraggiosa opposizione e fuoruscitismo, egli ottenne solo conformistiche adesioni e la migliore produzione letteraria di quegli anni ignorò le mitologie e le parole d’or­dine ufficiali. Ben diversa consisten­za ebbe invece l’opposizione politica contro la quale l’apposito Tribunale speciale non cessò di erogare se­coli di prigione e di domicilio coatto.
La parabola del fascismo intanto si sviluppa con logica coerente con le sue premesse: seguono infatti l’avventura imperialistica della guerra d’Abissinia, la tragica farsa dei volontari in Spagna, l’intervento nella seconda guerra mondiale a rimorchio del militarismo nazista.
Il dibattito letterario del primo do­poguerra è inizialmente caratterizzato da un richiamo all’ordine ed alla tradizione: La Ron­da teorizza la lezione dei classici, l’estrema pulizia formale, la prosa d’arte rigorosamente calibrata. È una visione piuttosto an­gusta dei compiti del letterato che si limi­ta ad una sapienza calligrafica senza troppa preoccupazione per i complessi pro­blemi derivanti dal rapporto tra letteratura e vita nazionale.
Contro tale posizione Gramsci su L’Ordine nuovo e Gobetti su La Rivoluzione liberale, teorizzano una diversa concezione dell’attività letteraria, vista da loro in stretto rapporto con le questioni più vive della società italiana. Su Il Baretti Gobetti si batte per una sprovincializzazione della no­stra letteratura, per un’apertura verso una dimensione europea.
In Europa infatti gli anni tra il ‘20 e il ‘30 sono ricchi di fermenti e di realizzazioni: Solaria divulga la conoscenza de­gli autori stranieri e con Pirandello e Svevo la letteratura italiana conquista una dimensione europea.
Intanto il fascismo, pesa sulla cultura italiana: gli uomini di lettere più consapevoli del gruppo di Solaria trovano risibili sia i richiami autarchici alla tra­dizione e l’esaltazione di una lette­ratura strapaesana fatti dalla cultura ufficiale, sia le mitologie fasci­ste, scelgono una forma d’arte che non si compromette col regime, lo ignora e da questo nasce il vagheggiamento memoriale, la trasfigurazione del dato reale in una dimensione arcana e simbolica, l’impegno per realizzare pa­gine di assorta levità diventano le caratteristiche di fondo della produzio­ne in prosa; il rifugio nel proprio io, la solitudine esistenziale, l’ascetica ri­cerca della parola essenziale e dei rapporti analogici, sulla scia di prece­denti teorizzazioni, diventano le caratteristiche della poesia nuova che in Ungaretti e in Montale trova i suoi mae­stri. Al di fuori di questo filone, Saba, ripudiando ogni ricercatezza espressiva, canta con profon­da umanità tutti gli aspetti del quo­tidiano e trova chiari accenti di opposizione al regime.
Un altro aspetto della letteratura d’opposizione è poi da considerare l’interesse suscitato negli anni ‘30, per i narratori americani dalle cui pagine si ricavava il mito di un’America giovane, sanguigna e libera. Furono questi i testi di più larga diffusione tra il pubblico: la poesia invece, diventa sempre più una produzione per iniziati.
In complesso la letteratura del ventennio, resta estranea alle mitologie fasciste e prosegue nella sua ricerca formale. Il fascismo, malgrado la creazione dell’Accademia d’Italia non riesce ad ottenere i suoi scopi.
L’arte per l’arte, l’impressionismo - Tra il 1914 e il 1916, una rivista come «La Voce» pubblicata a Firenze, accentua il suo carattere letterario: i vociani privilegiano una critica autobiografica e il frammentismo lirico, cercano di espungere qualsiasi intrusione etica sociale o politica e di promuovere una poetica fondata sul culto della parola e dello stile. A tale indirizzo fanno riferimento alcuni dei maggiori poeti del secolo.
Tra il 1919 e il 1923 il gruppo degli scrittori de «La Ronda» concordano con il programma di Cardarelli che enunciava la volontà di restaurare la tradizione classica della letteratura italiana impersonata in Petrarca, Manzoni e Leopardi, esigeva per lo scrittore piena autonomia da ogni compromissione politica e sociale, considerando l’atto letterario come supremo esercizio di stile. Sul piano letterario mostra il rifiuto di ogni forma irrazionalista, dalla poesia simbolista di Pascoli alle mitografie di D’Annunzio, alle teorie iconoclaste dei futuristi. Ciò accanto al recupero di una concezione dell’arte intesa come diletto, mestiere raffinato di letterati che si professano estranei a ogni finalizzazione dei contenuti. I rondisti sono teorici di una scrittura d’arte, senza impegni etici né politici, esercizio disinteressato.
Tra il 1926 e il 1936, intorno alla rivista fiorentina «Solaria», si raccolgono alcuni tra i migliori scrittori del periodo e che ebbero grossa influenza nel dopoguerra. Tra loro Eugenio Montale, e Carlo Emilio Gadda. La rivista era stata fondata e diretta a Firenze da A. Carocci. Una rivista eclettica, oscillante tra il rigore formale de «La Ronda» e il moralismo del gobettiano «Baretti». In contrasto con l’autarchia culturale predicata dal fascismo, vi fu una grossa apertura verso le esperienze europee: si recensirono tempestivamente i libri di P. Valéry, E. Hemingway, A. Gide, A. Malraux; si stamparono traduzioni di T.S. Eliot, J. Joyce, R.M. Rilke. Si cercò di valorizzare autori del Novecento italiano dedicando numeri unici a Saba, Svevo, Tozzi. Dal 1930 ci fu una maggiore attenzione verso i giovani scrittori, come Vittorini. Gli interventi di N. Chiaromonte, U. Morra e G. Noventa sulla responsabilità storica del letterato allarmarono la censura che sequestrò alcuni numeri della rivista, tra cui quello del marzo-aprile 1934 contenente “Il garofano rosso” di Vittorini.
Di tutti gli autori che si mossero variamente in questi anni, gli unici riletti dalle generazioni successive di lettori, furono Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli.
[2] Giuseppe Ungaretti (1888-1970) – Nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1888, e qui trascorre la prima giovinezza, stabilendosi successivamente prima a Parigi, dove frequenta, tra gli altri, Apollinaire, Breton, Braque, Picasso, Palazzeschi e Savinio, poi a Milano e a Roma. Nel 1936 è a San Paolo in Brasile, per insegnarvi letteratura italiana all’università. A San Paolo è colpito da un duro lutto per la morte del figlio all’età di soli nove anni. Nel 1942 ritorna in Italia: insegna all’università di Roma e intensifica la sua ormai lunga carriera letteraria. Insignito di vari premi, nel 1962 è anche eletto presidente della Comunità europea degli scrittori. La prima opera di Ungaretti, Allegria di naufragi, risale al 1919, ed è profondamente segnata dalla prima guerra mondiale, esperienza vissuta in prima persona da Ungaretti; nel 1933 pubblica Sentimento del tempo e nel 1942 dà alle stampe la prima raccolta completa dei suoi versi, sotto il titolo Vita di un uomo, arricchita poi in varie riprese. Altre opere sono Il dolore (1947), La terra promessa (1950) e Il taccuino del vecchio (1960). Ungaretti muore a Milano, in età avanzata, nel 1970. Per approfondire vedi il buon articolo di Carmen Alfano esemplare poetica della lirica ungarettiana.
[3] Come…come: i due come stabiliscono un rapporto di somiglianza tra il paesaggio arido del San Michele e il pianto del fante-poeta che non si vede, perché è un pianto interiore, prosciugato ancora prima di sgorgare sotto forma di lacrime.
[4] San Michele: altura del Carso, a sud ovest di Gorizia, oggetto di ripetuti attacchi italiani e conquistata definitivamente il 6 agosto 1916, nel corso della sesta battaglia dell’Isonzo.
[5] Prosciugata: arida, priva di umidità come gli occhi del soldato Giuseppe.
[6] Refrattaria: che respinge ogni forma di vita, come il dolore del poeta che rifugge da ogni conforto.
[7] Disanimata: senza palpito di vita.
[8] La morte si sconta vivendo: la pace che ci aspetta con la morte deve essere pagata con le sofferenze della vita.
[9] Mi tengo … mutilato: sto vicino a questo albero schiantato dalle bombe. Mutilato suggerisce anche un’implicita analogia tra l’albero, che le bombe hanno ridotto a un troncone, e gli uomini mutilati dalle ferite ricevute in guerra.
[10] Abbandonato: può essere riferito sia al poeta sia all’albero; l’ambiguità è certo voluta da Ungaretti, in quanto arricchisce la carica semantica del verso. Il senso è: lasciato (Ungaretti o l’albero) in questa dolina, che ha la tristezza malinconica di un circo equestre vuoto.
[11] Dolina: grande buca a forma di cratere, tipica della zona carsica, dovuta all’erosione delle acque nei terreni calcarei.
[12] Languore: abbandono, malinconia, desolazione.
[13] Urna: è una parola derivata dal latino, che fa parte del linguaggio aulico. Letteralmente è un contenitore, un vaso. Ungaretti, probabilmente, vista la connotazione di sacralità, che riaffiora anche nella scelta della parola reliquia nel verso successivo, pensa alle urne cinerarie, usate fin dall’antichità per conservare le ceneri dei defunti. Come l’urna avvolge le ceneri, così l’acqua dell’Isonzo avvolge il corpo del fante-poeta, regalandogli un senso di pace.
[14] Reliquia: ciò che resta di qualcuno o di qualcosa dopo la sua scomparsa e, in particolare, ciò che resta del corpo, delle vesti, degli oggetti appartenuti a un santo o a un beato, fatto oggetto di culto da parte della Chiesa.
[15] Isonzo: il fiume che scorre lungo l’altopiano del Carso, bagnando Gorizia e Monfalcone.
[16] Come … acqua: camminando leggero sul fondo accidentato e sassoso del fiume; l’immagine dell’acrobata si riferisce alla difficoltà di stare in equilibrio sui sassi.
[17] Come un beduino: come un nomade arabo che vive nelle steppe e nei deserti, Ungaretti si piega quasi imitando l’atto della preghiera islamica. Il poeta stesso scrive: “La preghiera islamica è accompagnata da molti inchini come se l’orante accogliesse un ospite”. Il paragone nasce dal recupero memoriale dell’infanzia e dell’adolescenza trascorse in Egitto e anticipa la successiva evocazione del fiume Nilo.
[18] Mi … universo: il fante-poeta, facendo quel “bagno purificatore” nell’Isonzo, si è sentito in armonia con l’universo intero, riconoscendosi come una piccola parte, un filo (docile fibra) dell’universo
[19] In armonia: il tormento del fante-poeta è costituito dal non sentirsi in armonia con l’universo, cioè estraneo al mondo che lo circonda. E’ evidente l’allusione all’abbrutimento della guerra, che annebbia lo spirito.
[20] Occulte mani: le mani nascoste e misteriose della natura, che penetrano nell’intimo del poeta. Ungaretti scrive: “Sono le mani eterne che foggiano assidue il destino di ogni essere vivente”.
[21] M’intridono: impregnano il fante-poeta di una linfa o di un liquido vitale; il riferimento specifico è all’acqua del fiume. Le mani sono le mani dell’Isonzo.
[22] La rara felicità: la felicità di sentirsi in armonia con la natura.
[23] Ripassato: passato in rassegna, ricordato. Le acque dell’Isonzo hanno ricordato a Ungaretti i momenti della sua vita legati ad altri fiumi.
[24] Serchio: è il fiume della Toscana che scorre vicino a Lucca, nella zona dalla quale era originaria la famiglia Ungaretti. Al Serchio hanno attinto, si sono cioè metaforicamente abbeverati, i suoi predecessori.
[25] Nilo: è il fiume dell’Egitto, dove Ungaretti è nato ed ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza.
[26] Ardere d’inconsapevolezza: il piccolo Giuseppe si sentiva bruciare dal desiderio di fare esperienze, sentiva, dentro di lui, una vita assolutamente spontanea e naturale, cioè le sue passioni non erano ancora frenate da una matura autocoscienza
[27] Estese pianure: la casa di Ungaretti era in periferia, ai margini del deserto, che iniziava proprio lì, manifestandosi in tutta la sua estensione.
[28] Senna: fiume francese, che scorre nella città di Parigi.
[29] In quel … conosciuto: nelle acque torbide (caratteristica reale) della Senna, Ungaretti si è rimescolato, con allusione alle tumultuose e anche contrastanti esperienze esistenziali e culturali della vita parigina. Scrive il poeta: “E’ Parigi che incomincia a darmi, prima di quella più compiuta che mi darà la guerra, più chiara conoscenza di me stesso, che era stata impotente a concedere a Mohammed Sceab che vi era venuto con me e che non ebbe in grazia di incominciare a conoscersi senza morirne”. La Senna rappresenta la maturazione anche dolorosa di Giuseppe e il sacrificio dell’amicizia più cara: Mohammed si suicida proprio a Parigi, che sembrava offrire tante opportunità da cogliere. La conoscenza è dunque innanzitutto sofferenza per il giovane Ungaretti.
[30] Contati nell’Isonzo: che l’Isonzo gli fa ricordare.
[31] Nostalgia … traspare: è questa la nostalgia del passato evocata da ognuno dei tre fiumi, ora che la notte avvolge il fante-poeta e lo protegge con le sue tenebre, come la corolla che avvolge il cuore del fiore. La corolla della notte è fatta di tenebre, ma queste tenebre, grazie all’esperienza memoriale, hanno riconciliato il fante-poeta con la vita.
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Esemplarità poetica della parabola ungarettiana di Carmela Alfano

Ungaretti visse nel periodo in cui la borghesia, dopo aver realizzato in Italia il capitalismo, non portò avanti gli ideali di giustizia e di libertà ma, si chiuse in se stessa, temendo di perdere la propria egemonia ed affidò la risoluzione delle proprie contraddizioni sociali prima al colonialismo-imperialismo, poi alla guerra mondiale, al Fascismo ed infine alla II guerra mondiale.
Giuseppe Ungaretti nacque il 10 febbraio 1888, «in una notte – scriverà – burrascosa» ad Alessandria d’Egitto da Antonio Ungaretti e da Maria Lunardini, entrambi lucchesi, che vi erano emigrati sia per motivi di lavoro sia per le loro idee anarchiche: il padre, che lavorava come operaio nel canale di Suez, morì, quando Giuseppe aveva appena due anni: Ungaretti, infatti, fu allevato da sua madre, da una balia sudanese e da Anna, un'anziana croata, adorabile narratrice di favole. Sua madre continuò a gestire un forno alla periferia della città, ai confini con il deserto. Ungaretti potè comunque fare gli studi superiori in una delle più prestigiose scuole di Alessandria. Nella prima giovinezza, Ungaretti frequentò le associazioni anarchiche e socialiste dei nostri emigrati.
Il soggiorno africano lasciò ad Ungaretti un patrimonio di ricordi esotici: la balia sudanese, i racconti favolosi della domestica croata Anna, la varietà cosmopolita, caratteristica del quartiere in cui abitava: la casa della sua infanzia distava «quattro passi dalla tenda del beduino, in una zona di subbuglio». Il periodo africano fu inoltre fecondo di intense amicizie: con il compagno di scuola Moammed Sceab e con il conterraneo Enrico Pea che, emigrato ad Alessandria all’età di sedici anni, commerciò in marmi e fondò un circolo anarchico, la Baracca rossa, cui aderì anche Ungaretti: insieme collaborano a molte riviste ed a giornali anarchici, con prose di ispirazione sociale, novelle, traduzioni e poesie.
Dagli otto ai sedici anni, Ungaretti frequentò il Collegio salesiano, dove soffrì la pesante disciplina e poi la scuola migliore della città, la Ecole Suisse Jacot, per studiare diritto.
Nel 1912 Ungaretti si trasferì a Parigi, dove studiò per due anni alla Sorbona, seguendo tra l’altro le lezioni del filosofo Bergson, senza tuttavia laurearsi. Intanto Ungaretti frequentava i maggiori esponenti delle avanguardie: Apollinaire, Picasso, Braque, De Chirico, Modigliani e, nei loro frequenti soggiorni a Parigi, Marinetti e Boccioni. Lo interessavano anche le esperienze di rinnovamento della forma e della parola poetica, operate dai crepuscolari e dai futuristi, attestati dagli scambi epistolari con Soffici, Papini, Palazzeschi. Gli anni parigini furono segnati anche da un evento tragico, che turbò fortemente il giovane Ungaretti: il suicidio dell’amico Moammed Sceab, che si era trasferito con lui dall’Egitto a Parigi. Moammed Sceab si uccise perché si sentì senza radici: esule in Francia e lontano dal proprio paese, Moammed subì una crisi di identità, rimanendo come sospeso tra la tradizione, che aveva lasciato alle spalle, ed il nuovo orizzonte culturale, che non aveva sufficientemente interiorizzato. La condizione di dericinè di Moammed rispecchiò molto da vicino quella di Ungaretti che, pur di origine italiana, era nato in Egitto, da dove era successivamente emigrato in Francia. Anche il poeta si era sentito senza patria in Rue des Carmes. Per Moammed, Ungaretti scrisse una delle sue liriche più intense.
Giunto in Italia nel 1914, ungaretti entrò subito in contatto con i giovani intellettuali che facevano capo alle riviste La Voce (anti-dannunziana) e Lacerba (su quest'ultima – di indirizzo futurista – egli pubblicò le sue prime poesie, anch'esse influenzate dai modi crepuscolari e futuristi). Ungaretti rientrò in Italia anche per un titolo di studio: l'abilitazione all'insegnamento della lingua francese. Ungaretti diede l'esame a Torino con Farinelli, ma si preparò in Versilia. Pea rientrò con la famiglia in patria, ragione per cui Ungaretti fu in quella zona. Ungaretti Si spostò poi a Milano, dedicandosi all'insegnamento della lingua francese in una scuola secondaria e scrive le sue prime poesie che faranno parte della sezione Ultime che apre L'Allegria.
Ungaretti partecipò alla campagna interventista ed infine si arruolò volontario, combattendo sul Carso.
Nel 1915, pubblicò le prime liriche su Lacerba nel febbraio, in aprile e in maggio. Ungaretti fu richiamato e inviato sul fronte del Carso e su quello francese dello Champagne. Ungaretti era di idee interventiste e fu, infatti, nel corso della guerra, che maturò i temi fondamentali della sua poesia. Egli maturò la convinzione che, essendo la sua un'epoca tragica, la poesia doveva fornire una conoscenza a-logica, a-razionale, intuitiva, che aiutava a ritrovare l'originaria purezza-innocenza.
È l'esperienza della guerra che rivela al poeta la povertà dell'uomo, la sua fragilità e la sua solitudine, ma anche la sua spontaneità e semplicità (primitivismo), che è ritrovata nel dolore. L'esistenza è un bene precario, ma anche prezioso. In guerra egli si è sottratto ad ogni vanità ed orgoglio; nella distruzione e nella morte ha però riscoperto il bisogno di una vita pura, innocente, spontanea, primitiva. Ha acquisito compassione per ogni soldato coinvolto nell'assurda logica della guerra: ha maturato, per questo, un profondo senso di fraterna solidarietà. La sua visione esistenziale è dolorosa perchè Ungaretti pensa che l'uomo non abbia la possibilità di concretizzare le sue aspirazioni conoscitive e morali.
Ungaretti non crede nelle filosofie razionali e cerca di cogliere la realtà attraverso una poetica che s'incentri sull'analogia, cioè sul rapido congiungimento di ordini fenomenici diversi, di immagini fra loro molto lontane che la coscienza comune non metterebbe insieme.
Nel 1916, Ungaretti pubblicò in pochissime copie la sua prima raccolta di poesie, Il porto sepolto, che confluiva poi nell' Allegria di naufragi del 1919.
Il Porto Sepolto era un volumetto in versi uscito nel 1916, stampato ad Udine in ottanta esemplari dall’amico Ettore Serra, che sostenne le spese della pubblicazione. Una nuova edizione comprendente le poesie dell’Allegria ed altre liriche, uscita nel 1923 con prefazione di Benito Mussolini. Il titolo si riferisce ad un porto reale nei pressi di Alessandria, ma ha soprattutto un significato simbolico, infatti, il porto sepolto è il mistero, l'assoluto, alla cui ricerca il poeta si pone con la speranza di approdarvi come in un porto di pace.
In quest'ultima raccolta è evidente lo stretto legame tra poesia ed esperienza autobiografica. Per Ungaretti esiste un profondo legame tra la vita e la poesia: ogni opera poetica nasce dall’esperienza individuale, ma deve poi staccarsene, per diventare valore universale: “Egli (il poeta) si è maturato come uomo in mezzo ad avvenimenti straordinari ai quali non è mai stato estraneo”. La sua stessa scelta di raccogliere le poesie e i saggi più significativi per ricostruire la sua vicenda umana ed artistica in Vita di un uomo testimoniarono questa convinzione (che condivise con Saba, ma non con Montale).
Nel 1917, Ungaretti combatté in Francia sul fronte della Champagne, e, tra il 1918-21 visse ancora a Parigi, lavorando presso l’ambasciata italiana e come corrispondente per il giornale Il Popolo d’Italia, il giornale di Mussolini. L’adesione di Ungaretti al Fascismo fu spontanea, nella convinzione che il nuovo movimento politico potesse rappresentare la soluzione ai mali e alle contraddizioni sociali.
Il 13 novembre 1919, Ungaretti, in un articolo de Il Popolo d'Italia scriveva: "Patria e rivoluzione: ecco il grido nuovo. (...) Aderisco ai fasci di combattimento, il solo partito che intende la tradizione e l'avvenire, in modo genuino."
Non si ha alcuna notizia di un ripensamento di Ungaretti sulla sua adesione al Fascismo, neppure dopo la sua caduta: egli, infatti, mantenne sostanzialmente invariata questa concezione anche dopo la sconfitta del Fascismo e la vittoria della Resistenza, riuscendo comunque ad ottenere il rispetto delle nuove generazioni di intellettuali di sinistra del dopoguerra nonostante il suo precedente collaborazionismo con il regime fascista. L'adesione al Fascismo da parte di Ungaretti è un problema notevole della critica letteraria e biografica che andrebbe indagato a fondo e che non è mai stato preso seriamente in considerazione. Le sue poesie contro la guerra e poi la sensibilità e l'umanità dimostrata dal poeta, sono in stridente contraddizione con l'adesione ad un movimento, che faceva della persecuzione politica e poi dell'alleanza con il nazismo (anche avallando e praticando direttamente le persecuzioni ebraiche), i suoi mezzi di lotta correnti. Contraddizione fu (evita sempre le frasi ellittiche) ancor più evidente, se si pensa al nuovo massacro del secondo conflitto mondiale del tutto simile a quello cui si riferiva e che condannava lo stesso Ungaretti nelle sue liriche del 1915 - 1916.
Ungaretti visse personalmente questo periodo. Sposò Jeanne Dupoix.
Ungaretti pubblicò con Vallecchi, a cura di Ettore Serra, l'edizione provvisoria della raccolta Allegria di Naufragi (quella definitiva uscì a Preda nel 1931) che comprendeva Il Porto Sepolto e i versi del '17, '18 e '19, oltre alla sezione Ultime.
Nel 1923, la difficile condizione economica indusse Ungaretti a trasferirsi a Marino nei Castelli Romani; egli si impiegò presso il Ministero degli Esteri, pubblicò a La Spezia, con il titolo Il Porto Sepolto, una nuova edizione de L'Allegria, includendovi le liriche composte tra il 1919 ed il 1922 e la prima parte del Sentimento del Tempo. La prefazione è di Benito Mussolini.
Nel 1926, morì sua madre e nel 1928 è l'anno della piena conversione alla religione cattolica, dopo un periodo passato a Subiaco, nella settimana di Pasqua; Ungaretti aveva quarant'anni. Nel monastero di Subiaco, maturò la sua conversione religiosa, poiché egli si rese conto che, scoprire il mistero dell'animo umano, significò, in ultima istanza, scoprire Dio. Ungaretti Scrisse gli Inni, che sono il cuore del suo secondo libro, Sentimento del tempo, pubblicato nel 1933.
Il superamento dell'autobiografismo e la modificazione dello stile ermetico avviene in Sentimento del tempo. Qui il poeta ha consapevolezza che il tempo è cosa effimera rispetto all'eterno e la poesia aspira a dar voce ai conflitti eterni, ad interrogativi drammatici: solitudine ed ansia di una comunicazione con gli altri, rimpianto di un'innocenza perduta, ricerca di un'armonia col mondo, ecc. In questa raccolta Ungaretti ritrova i metri ed i moduli della tradizione poetica italiana e crea un ritmo totalmente libero, con versi scomposti, brevissimi, scarni, fulminei, dove la singola parola acquista un valore assoluto, dove il titolo è parte integrante del testo. La poetica qui è frammentaria, allusiva, scabra, anche perché il poeta non ha una realtà ben chiara da offrire.
Questa esperienza lo portò a rifiutare – soprattutto nell' ‘Allegria’ – ogni forma metrica tradizionale: rifiuta il lessico letterario, le convenzioni grammaticali, sintattiche e retoriche. Ne Il porto sepolto Ungaretti lasciò intendere che poesia significa possibilità di contemplare la purezza in un mondo caotico e assurdo, ma la poesia dev'essere espressione di un'esperienza particolare, intensamente vissuta. La ricerca del vocabolo giusto è faticosa, perché l'uomo deve liberarsi del male che è in lui e fuori di lui. Ne L'allegria il poeta non accetta le illusioni e preferisce star solo con la sua sofferenza. Ungaretti tuttavia non è ateo, ma, si limita semplicemente a chiedersi che senso ha Dio in un mondo di orrori e perché gli uomini continuano a desiderarlo, quando ciò non serve loro ad evitare gli orrori. Il contrasto è fra una religiosità tradizionale, superficiale, ed una religiosità più intima e sofferta, che in Fratelli si esprime come profonda umanità, partecipazione al dolore universale. È solo negli Inni che Ungaretti ripone nella fede religiosa la soluzione delle contraddizioni umane. La successiva raccolta Sentimento del tempo del 1933, presenta un'evoluzione nella poetica di Ungaretti. Gli spunti autobiografici, così numerosi nell' Allegria di naufragi, diminuiscono, lasciando posto ad una riflessione più esistenziale. L'uomo Ungaretti tenta ora di farsi Uomo, cercando nelle proprie emozioni e paure il riflesso di quelle che sono comuni a tutti. Inizia qui il tormentato recupero della fede, la quale può forse rappresentare per l'uomo smarrito un'ancora di certezze. Il cammino, tuttavia, non è lineare e non mancano situazioni di conflitto tra il sentimento religioso e le esperienze dolorose nella storia del singolo o della comunità. Parallelamente a questi cambiamenti tematici, ne avvengono altri a livello stilistico; in particolare il recupero di una metrica più tradizionale rinnovata però dal precedente lavoro di scoperta della parola.
Nel 1931, Ungaretti diventò corrispondente del La Gazzetta del Popolo e, come tale, compie numerosi viaggi in Europa ed in Egitto; in questo stesso anno fu pubblicata definitivamente L’Allegria.
La raccolta, che subì molte modifiche, uscì per la prima volta nel 1919, presso l’editore Vallecchi di Firenze con il titolo Allegria di Naufragi. Il primo nucleo di questa prima edizione è costituito da Il porto sepolto. Nel 1931 la raccolta portò il titolo definitivo: L’Allegria. La forma definitiva fu raggiunta solo nella successiva edizione del 1942, al termine di un iter correttorio lungo e difficile. Anche questo titolo è allusivo: la guerra è come un naufragio della vita, i superstiti del naufragio sono presi da una sorta di ebbrezza per lo scampato pericolo e superano lo sgomento ed il dolore con la fede e alla speranza di un domani migliore.
Nell’opera, che ha struttura diaristica, Ungaretti, poeta–soldato, racconta una vicenda storica particolarmente traumatica: la prima guerra mondiale, che egli visse in prima persona. Nella guerra l’uomo è posto di fronte a situazioni, esigenze e sentimenti elementari, e sente la presenza costante della morte, ma nonostante questo, egli riesce ad attaccarsi ad un insperato e disperato vitalismo, a compiere una riscoperta primordiale dell’innocenza e della natura, per la quale l’individuo si sente docile fibra dell’universo (Mengaldo).
Le due raccolte contengono in gran parte le impressioni della prima guerra mondiale, cioè il sentimento dell'attaccamento alla vita che spinge il poeta a scrivere lettere piene d'amore, che un giorno è costretto a passare un'intera nottata vicino a un compagno massacrato in Veglia; il cuore impietrito dal dolore, divenuto simile alla pietra refrattaria del San Michele, indurita dal sole in Sono una creatura; il cuore ancora più straziato delle case sbriciolate dalla guerra, per la morte di tanti che gli corrispondevano in San Martino del Carso; il sentimento della precarietà della vita in Soldati; il sentimento di sentirsi docile fibra dell'universo, quando, ne I fiumi, durante un momento di pausa, nella guerra, il poeta si bagna nelle acque dell'Isonzo e ricorda altri fiumi ed infine il disperato anelito ad un paese innocente in Girovago di uomini degni, liberi e fraterni.
Il fatto di condividere con gli altri soldati un’esistenza al grado minimo ed il costante pericolo di morte, comporta un sentimento di fratellanza che è un tema sul quale la poesia dell’ Allegria insiste particolarmente. Una condizione esistenziale così scarnificata, essenziale come le pietre del Carso che fanno da sfondo agli eventi bellici, non può trovare espressione che in una lingua altrettanto essenziale e in una metrica frantumata fatta di versicoli che spesso coincidono con una sola parola.
L’adozione di versi brevissimi ha importanti conseguenze: nella pagina, lo spazio bianco diventa dominante quasi a sottolineare l’importanza delle pause e, quindi il fortissimo rilievo delle poche parole che interrompono il silenzio. Acquistano nuovo significato anche le parole semanticamente poco rilevanti e la sintassi è scardinata dall’eliminazione dei nessi logici e dall’abolizione della punteggiatura (suggerita a Ungaretti dall’esempio dei futuristi e di Apollinaire).
La poesia procede per accostamento di frammenti e immagini, per analogie, e, tutto contribuisce a dare alla parola il massimo rilievo e un valore quasi magico di rivelazione.
La poesia dell’ Allegria è tutt'altro che ingenua e immediata, benché lo sgranarsi dei versicoli sulla pagina, può dare l’impressione di uno spontaneo stillicidio poetico, secondo l’espressione di Eugenio Montale. In realtà siamo di fronte ad una studiata e calibrata reinvenzione della parola poetica privata di corredi descrittivi e narrativi.
La frantumazione metrica e la mancanza di punteggiatura sono compensate dalla coincidenza della pausa versale con una pausa sintattica e dal rispetto dell’uso delle maiuscole che consente di individuare gli impliciti punti fermi. Inoltre, spesso riunendo due o più versicoli consecutivi, è possibile ricomporre la misura di un verso tradizionale.
Per illustrare brevemente la poetica di Ungaretti si può partire proprio da quest'ultimo titolo: Vita di un uomo. Poesia e biografia sono, infatti, per Ungaretti strettamente legate, tanto che sono proprio le esperienze di vita a determinare alcune precise scelte di stile e al contenuto assolutamente innovative per la poesia italiana. La prima, è l'esperienza di soldato che sepolto in trincea tra fango, pioggia, topi e compagni moribondi, il giovane poeta scopre una nuova dimensione della vita e della sofferenza, che gli sembra imporre, per poter essere descritta, la ricerca di nuovi mezzi espressivi. Nasce così la raccolta Allegria di naufragi, nella quale il lavoro di scavo, comincia dalla parola. Dall'analisi delle proprie emozioni, Ungaretti trae enunciazioni essenziali e fulminee che comportano la distruzione della metrica tradizionali; i versi sono spezzati e ridotti talvolta a singole parole e quest' ultime si stagliano isolate o accostate tra loro con lo strumento dell'analogia, senza punteggiatura, intervallate da spazi bianchi che assumono a loro volta un preciso significato. Una poesia, dunque, che per dare il meglio di sé, deve essere recitata, come magistralmente faceva l'autore stesso, o almeno pensata ad alta voce.
Nel 1933, fu pubblicata l’edizione definitiva di Sentimento del Tempo. Le poesie di Sentimento del Tempo segnano una svolta fondamentale nella direzione di un ritorno alla tradizione. La parola poetica reinventata attraverso l’esperienza dell’ Allegria, è immessa nella tradizione letteraria che ha i suoi nomi–guida in Petrarca ed in Leopardi. Terminata la guerra, Ungaretti aveva continuato la sua meditazione sulla poesia e sulla condizione dell'uomo. La prima, lo portò al recupero dell'endecasillabo e del settenario che non si ridusse ad una pura esercitazione stilistica e metrica, ma rispose all'esigenza morale, che avvertì il poeta di comunicare agli uomini le sue arcane scoperte cioè di essere il poeta veggente teorizzato dai simbolisti. Quanto alla meditazione sulla condizione dell'uomo, il titolo della nuova raccolta Sentimento del tempo è molto allusivo: sentimento del tempo, significa sentimento del veloce scorrere del tempo, del rapido fluire delle cose, delle persone amate, che produce, per contrasto, la nostalgia del passato ed un più tenace attaccamento alla vita. Accanto a questo sentimento del fluire delle cose appare l'altro tema della raccolta, scaturito da un avvicinamento del poeta alla fede: il sentimento di Dio, in cui solamente si placa l'angoscia esistenziale del poeta. Ungaretti recupera dunque i versi tradizionali, rinunciando alla frantumazione in versicoli, e li organizza in strofe costruite su una sintassi, che può anche essere molto complessa, con inversioni e molte subordinate: è ripristinata la punteggiatura.
Tutti questi elementi fanno sì che la parola non sia più isolata, ma inserita in un discorso, con una struttura metrica e sintattica. Inoltre Ungaretti ricerca ora un lessico più alto, preferibilmente con autorizzazione letteraria (per essere stato usato dai poeti del passato). Altre importanti differenze di stile fra l’ Allegria ed il Sentimento del Tempo sono suggerite da Mengaldo: mentre l’ Allegria privilegiava la prima persona del presente indicativo (a marcare un’esperienza – quella della guerra – attuale e vissuta in prima persona), ora domina l’indicativo imperfetto, con valore evocativo; la tendenza all’analogia espressa attraverso il come lascia il posto ad una netta prevalenza dell’analogia implicita (per esempio Amore, salute lucente, (...) Morte, arido fiume nell’Inno alla Morte); alla lapidarietà degli enunciati subentra una tendenza allo sfumato, al non finito. Sarà la grammatica di questo secondo Ungaretti (molto più di quello dell’Allegria) a fare da base all’imminente Ermetismo. Al Sentimento del Tempo gli ermetici guarderanno come al loro vero libro–guida, per il suo linguaggio alto e prezioso, e per la sua ricerca di analogie complicate, singolari, spesso ellittiche e criptiche.
Nel 1936, a causa di ristrettezze economiche, Ungaretti accettò l’incarico di insegnare Letteratura italiana all’Università di San Paolo in Brasile, dove restò, con la famiglia, fino al 1942, cioè fino a quando anche il Brasile entrò nella II a guerra mondiale.
Nel 1939, in Brasile ungaretti fu colpito da un grave lutto: la morte del figlio Antonietto, di soli nove anni, dovuta ad un’appendicite mal curata. Due anni prima era morto suo fratello Costantino e, di queste e delle altre dolorose esperienze di quegli anni, lasciò una profonda traccia nella prima raccolta poetica del dopoguerra Il dolore del 1947.
Nel 1942, Ungaretti rientrò in Italia, dopo che il Brasile dichiarò guerra all'Asse, di cui l'Italia faceva parte.
Ungaretti fu nominato Accademico d'Italia (la sua adesione al fascismo fu tempestiva e non subì mai grossi ripensamenti) e gli fu conferito un insegnamento universitario a Roma per chiara fama. Mondadori, iniziò la pubblicazione delle sue opere sotto il titolo generale Vita d'un uomo.
Nel 1944, Ungaretti scrisse nuovamente contro la guerra: Non gridate più e la raccolta del Dolore. Tuttavia mantenne i suoi rapporti con il Fascismo ed addirittura le sue relazioni personali con Mussolini, che gli fece avere la cattedra universitaria Roma. L'adesione di Ungaretti al fascismo rimane dunque, una grande ombra sulla sua vita e sulla sua integrità morale. D'altra parte la sua poesia e le sue riflessioni, cariche di umanità, testimoniano la genuinità della sua lirica, che non era certo al servizio del regime. Resta, in sede biografica, l'interrogativo: “Come si conciliava in Ungaretti l'alta valenza morale ed umana delle sue poetiche con la propria posizione politica? È possibile che il dissidio tra poetica e prassi giunga fino a limiti così estremi? E se sì, perché?”
Nel 1947, Ungaretti fu sottoposto a procedimenti di epurazione presso l'Associazione degli scrittori. Iniziò anche un procedimento per l'abolizione della cattedra di chiara fama (avuta anche da De Robertis) che dopo una lotta tra il Consiglio Superiore ed il Ministro Gonella, favorevole alla permanenza in cattedra dei due maestri, e sentite le rispettive Facoltà, l'insegnamento fu confermato. Ungaretti pubblicò con Mondadori Il Dolore (poesie scritte tra il 1937 e il 1946).
‘Il Dolore’ comprende le poesie scritte per la morte del figlio Antonietto ed altre, composte a Roma nel 1944, che esprimono l’angoscia per l’occupazione nazista. Qui il discorso diventa più composto, quasi rasserenato. Toni e parole paiono affiorare da un'alta saggezza raggiunta al prezzo di una drammatica sofferenza. Il poeta esprime un’inappagata ma inesauribile tensione alla pace e all'amore universali. La biografia irrompe nuovamente nella poesia in seguito alla tragica morte del figlio Antonietto, cui sono dedicate le liriche della prima parte; nella seconda parte, invece, Ungaretti si sofferma sulle vicende drammatiche della guerra. C'è dunque un rapporto tra le due sezioni; il dolore individuale e quello collettivo, danno la misura di un cammino umano, segnato dalla sofferenza e dalla difficile riconquista della fede negli imperscrutabili disegni divini. E tra questi due piani, quello personale celebrato nel Dolore e quello corale, collettivo, che ha trovato le sue più alte espressioni nel Sentimento del tempo, si muove tutta la successiva produzione di Ungaretti.
Alla raccolta facevano seguito le due edizioni della Terra promessa (1950 e 1954), Un grido, Paesaggi del 1952 ed Il taccuino del vecchio del 1961.
La Terra Promessa doveva essere un poema, un libretto d'opera che non fu condotto a termine. Il tema era la storia del viaggio avventuroso di Enea. Del progetto restano solo alcuni frammenti, come i Cori descrittivi di stati d'animo di Didone, che contengono le meditazioni sulla morte, sul tempo e sull'amore.
Negli ultimi cori dell’ultima edizione della Terra promessa, si avverte la sorda riflessione sulla natura di un Ungaretti fiaccato dalle terribili vicende personali. Il testo del coro quarto dice:
Verso meta si fugge:
Chi la conoscerà?
Non d’Itaca si sogna
Smarriti in vario mare,
Ma va la mira al Sinai sopra sabbie
Che novera monotone giornate.
E il coro dell'atto quinto dice:
Si percorre il deserto con residui
Di qualche immagine di prima mente,
Della Terra promessa
Nient’altro un vivo sa.

Nel 1970, dopo una vecchiaia attivissima – costellata di viaggi, di premi, di conferenze – nella quale Ungaretti recitò volentieri la parte di protagonista e di simbolo enfatico del poeta, morì a Milano nella notte fra il I ed il 2 giugno al ritorno da un viaggio negli Usa. Poco prima, Mondadori aveva pubblicato in un unico volume tutta la sua produzione letteraria: Vita d'un uomo.

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