lunedì 29 agosto 2011

Il primo soggiorno di Caravaggio a Napoli di Massimo Capuozzo

Agli inizi del secolo, mentre vigeva ancora il gusto per forme intellettualistiche e idealizzanti care allo spirito della Controriforma, caratteristiche dell'ultimo Manierismo più ritardatario e provinciale ed espresse in una stanca koinè e quasi del tutto priva di voci dominanti – da Francesco Curia a Girolamo Imparato, da Fabrizio Santafede a Belisario Corenzio e Luigi Rodriguez – quasi per incanto, apparve improvvisamente Caravaggio compare e scompare due volte dalla scena napoletana.
Caravaggio, con una modernissima intuizione, aveva cominciato a diffondere nell’arte un nuovo verbo, basato sull'impatto drammatico di una pittura tratta dal naturale, ossia dalla visione in presa diretta della realtà, attraverso il guizzo ora descrittivo, ora violento della luce nell'attimo in cui essa si rivela. Ma il senso della rivoluzione caravaggesco non stava solo nell’aspetto tecnico della camera oscura quanto nel suo particolarissimo ed inusitato modo di narrare: nelle sue opere i popolani, infatti, non sono, come era accaduto in tanta pittura italiana della Controriforma, spettatori che pregano, infelici appestati, accattoni e poveracci, plebe verso la quale la pittura aveva rivolto uno sguardo pietoso, ma diventano i protagonisti. Uomini e donne del popolo sono travolti dall’infinita oscurità dell’universo e della Storia. Caravaggio nella pittura opera una rivoluzione, al pari di quanto fa Galilei nella scienza, attribuendo dignità di cultura al sapere per esperienza sensibile, alla verità affermata in base ai fatti e non in base all'autorità e rapportando i sacri misteri alla realtà dolorosa degli eventi comuni di ogni giorno.
Caravaggio soggiornò solo pochi mesi a Napoli, ma tanti bastarono per lasciare un impatto sconvolgente sulla pittura napoletana, per certi versi stagnante, che, dal tranquillo corso tardo-manierista, fu deviata alle durezze del suo straordinario naturalismo. La sua presenza catalizzò le energie locali impegnate già con gran fervore nell’ammodernamento di tutta la Napoli sacra, costituita da innumerevoli chiese e conventi, che si allargavano e che si innovavano senza sosta alla ricerca di sempre maggiori fasti e onori.
L’arrivo di Caravaggio a Napoli non fu tuttavia fortuito: Caravaggio fuggiva, una fuga che lo accompagnò fino alla morte. Alla fine di maggio del 1606, durante una rissa scoppiata per futili motivi, il maestro era stato ferito, ma aveva ucciso a sua volta uno dei contendenti, Ranuccio Tomassoni. Era passato solo meno di un anno da quando Caravaggio era fuggito a Genova, ma adesso si trovava in una situazione disperata non era la solita zuffa, questa volta l’aveva fatta grossa. Non si trattava di una comune rissa, ma di un omicidio e nemmeno di un omicidio qualunque: Ranuccio, infatti, era il figlio dell'ex colonnello Luca Antonio Tomassoni, una figura di spicco di cui l'aristocrazia filospagnola si ricordava bene per i servizi militari prestati ai Farnese e la morte di un Tomassoni era particolarmente sgradita per il nuovo papa, schierato con gli spagnoli, ed i Tomassoni avevano un'influenza politica. La modalità della morte – «Caduto a terra Ranuccio», racconta Baglione, «Michelagnolo gli tirò una punta, e nel pesce della coscia feritolo, il diede a morte» – contribuì ad indurire il cuore di Paolo V Borghese, un papa moralizzante nei confronti di Caravaggio, ed a rendere implacabile la famiglia Tomassoni nel volere la morte dell'assassino. Giustizia pontificia e vendetta familiare rendevano Caravaggio una presenza compromettente perfino nella casa della persona più potente. Ricercato dalla giustizia pontificia, scappò precipitosamente, trovando protezione presso i principi Colonna, da sempre suoi protettori, nello specifico presso il principe Martino Colonna, che lo aveva accolto dopo essere fuggito da Roma e per il quale dipinse la Cena di Emmaus. Già in questa tela le figure umane, emergendo dall'ombra, mostrano tutto il sofferto carico interiore di passioni e di emozioni, caratteristico del periodo trascorso al Sud, passato sempre in fuga nell'ansia e nella speranza di poter un giorno tornare a Roma.
Caravaggio giunse a Napoli nel settembre 1606, dove rimase per circa un anno, preceduto dal clamore e dallo scandalo sociale e morale delle opere prodotte a Roma. A Napoli la sua fama era già ben nota a tutti: i Colonna lo avevano affidato ad un ramo collaterale della famiglia, i Carafa-Colonna, importanti membri dell'aristocrazia napoletana. Napoli, per un artista famoso, significava committenze, quindi lavoro assicurato. Era la capitale di un regno parte del grande impero spagnolo, in cui si concentrava la ricchezza attraverso i tributi e i redditi dell’aristocrazia feudale ed era la sede privilegiata dei grandi affari.
La Napoli che lo accolse fuggiasco, era una città enorme e babelica. Era la Napoli spagnola e, in quel periodo, governava, con la consueta politica di sfruttamento, il viceré spagnolo Pimentel de Herrera, conte di Benavente: la città contava circa 350.000 abitanti e, dopo Parigi, era la più popolosa d’Europa, una città in evoluzione veloce e violenta, una città militarizzata nei cui Quartieri spagnoli o nel cui porto allignavano la prostituzione e gli altri tipici mondi paralleli a quello delle armate – luoghi in cui il disagio sociale e la povertà si tingono di un colore nuovo, quello della violenza urbana, percepita coscientemente da parte delle istituzioni, che tentavano di dare risposte al malessere della plebe. Nella città dilagavano delinquenza, contrabbando, prostituzione, estorsioni: dai quartieri spagnoli col loro carico di lenoni e di gente di vita, con le risse fra Nazione spagnola e Nazione napoletana, con stranieri che arrivano al porto da tutto il Mediterraneo, provengono i personaggi ed il clima narrativo delle Sette opere di Misericordia e lì possono essere stati visti gli aguzzini della Flagellazione. In questa Napoli il conte di Benavente tirava avanti con tasse e con quella taciturna quanto sorda tolleranza nei confronti dei soprusi dei baroni e dei feudatari, in un clima di religiosità ossessiva, cui però la povera gente le affidava le proprie speranze, proprio così come questa povera gente appare nella Madonna del rosario.
In questa Napoli, caotica e proteiforme, Caravaggio visse un periodo felice e prolifico per quanto riguarda le commissioni, lavorando instancabilmente: i Colonna lo aiutarono, facendogli ottenere contatti e referenze, ma il suo nome e la sua fama erano ben noti anche a Napoli. Presto Caravaggio ricevette commissioni dagli imprenditori lombardi operanti in città, tra cui Fenaroli che gli richiese tre tele destinate alla cappella Fenaroli nella chiesa di S. Anna dei Lombardi, raffiguranti la Resurrezione di Cristo, San Francesco che riceve le stimmate ed un San Giovanni Battista: le opere purtroppo sono andate perdute durante il terremoto del 1805, che distrusse la chiesa e la cappella che le custodiva.
Eseguì la Madonna del rosario, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Controversa è la committenza dell’opera, infatti, secondo alcuni, il committente sarebbe stato Nicola Radulovic, un ricco mercante di Ragusa in Dalmazia, ed all'inizio la composizione avrebbe dovuto comprendere la Madonna in trono con i Santi Nicola e Vito, ma rifiutato dal committente, il quadro sarebbe stato poi modificato nella struttura per espressa volontà dei Domenicani. Secondo altri invece, ed è questa l’ipotesi più percorribile, il quadro fu probabilmente eseguito per decorare la cappella di famiglia nella chiesa napoletana di San Domenico Maggiore, su committenza di Luigi Carafa-Colonna, parente di Martino Colonna. A suffragare questa ipotesi, il rimando alla famiglia Colonna starebbe, appunto, nella grande colonna a sinistra alla quale è legato il grande drappo rosso che sovrasta la scena quasi come un sipario. Il tema trattato nella tela è prettamente domenicano. San Domenico ed i suoi frati avevano diffuso la devozione del rosario e la Madonna, iconograficamente rappresentata come Regina Coeli, indica il santo alla sua destra che tiene fra le dita dei rosari; alla sua sinistra San Pietro Martire domenicano ed accanto a San Pietro Martire, San Tommaso d'Aquino, il più famoso di teologi Domenicani. Madonna, Bambino e santi formano un triangolo sacro celato classicamente dai supplicanti disposti frontalmente inginocchiati in preghiera con le braccia stese verso San Domenico, mentre un gentiluomo, probabilmente il committente, guarda verso l'osservatore.
Sempre in questo periodo realizzò una delle sue opere più importanti, che si rivelò un cardine per la pittura nel sud Italia e per la pittura italiana in genere, la cui composizione, rispetto alle pitture romane, è più drammatica e concitata, non esistendo più un fulcro centrale dell'azione. Proprio quest’opera sarà di grande stimolo per la successiva pittura barocca partenopea: Caravaggio il 9 gennaio 1607 consegnò al Pio Monte le Sette opere di Misericordia, oggi esposto accanto a dipinti di Battistello Caracciolo, Fabrizio Santafede, Luca Giordano.
La Congregazione del Pio Monte della Misericordia comprendeva tra i suoi aderenti anche Luigi Carafa-Colonna ed aveva commissionato al maestro la tela delle Sette opere di Misericordia per l’altare maggiore della Chiesa dell’istituzione caritatevole napoletana. In relazione a quanto richiesto dalla committenza, Caravaggio fece riferimento alle opere di misericordia corporali, interpretando il tema evangelico in maniera personale e realizzando una tela di grandi dimensioni (390×260 cm). Ancora una volta Caravaggio realizza un’opera rivoluzionaria in cui le azioni di misericordia e di solidarietà si attuano simultaneamente nel vicolo: la luce dell’imbrunire mette in movimento e ferma come in un fotogramma una folla gesticolante che rappresenta un'umanità costituita dalle diverse classi sociali in atto in un quadrivio napoletano. La stessa inclusione della Madonna della Misericordia col bambino e gli angeli per volere della committenza non diminuì la capacità del pittore di esprimersi in maniera personalissima e Caravaggio, allontanandosi dall’iconografia tradizionale che voleva la Vergine raffigurata col mantello sotto il quale doveva accogliere l’intera comunità di fedeli, attribuisce alla Madonna le sembianze di una dolcissima popolana, forse ripresa dalla verità nuda di Forcella, come popolani sono quegli angeli lazzari che fanno la voltatella all'altezza dei primi piani e che sorreggono il bambino.
La composizione è scandita in due gruppi, ancora una volta sacro e profano, come nell’immediatamente precedente Madonna del rosario. Nella parte in alto la Vergine col Bambino, che con volto sereno e tranquillo, guarda verso il basso quasi per mostrare materno consenso ed umana simpatia alle figure sottostanti. E poi, anch’essi rivolti alle scene sottostanti, i due angeli, quasi abbracciati, ma è solo uno dei due che sostiene l’altro, circondandolo con le braccia.
Sotto sono rappresentate le sette opere, in una sintesi possente e quasi senza soluzione di continuità. Visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati sono sintetizzate in un’unica immagine, che rappresenta una figlia che, di nascosto, nutre con il suo latte il padre – in riferimento a quanto scrive Valerio Massimo nel De pietate, che il vecchio Cimone era rinchiuso in carcere e che non gli davano da mangiare e sua figlia Pero ottenne di visitarlo e di nascosto dai carcerieri lo nutriva col latte del suo seno. In seppellire i defunti si vedono appena i piedi lividi e le gambe di un cadavere portato a sepoltura: la figura dietro la donna che nutre il padre col suo latte, è un sacerdote che regge una torcia accesa che illumina il viso e la veste bianca della donna, un particolare rilevante perché unico esempio di una sorgente luminosa in un quadro del pittore mentre in tutte le altre opere il fascio di luce viene da una sorgente posta all’esterno della scena. Sulla destra il gruppo gemina dalla figura di San Martino, rappresentato come un giovane gentiluomo che, in vestire gli ignudi, dopo aver diviso in due il suo mantello, ne dà una metà ad un uomo seduto per terra ripreso di spalle in una struttura fisica michelangiolesca; proprio immediatamente dietro il giovane con il mantello, Caravaggio raffigura un signore benvestito indica la sua casa ad un pellegrino che simboleggia ospitare i pellegrini, e sempre a San Martino è collegata la figura in basso dello storpio che rappresenta curare gli infermi. A culmine del gruppo di sinistra dare da bere gli assetati, che parte della critica ravvisa la figura di Sansone nell’uomo che beve dalla mascella di un asino, perché nel deserto bevve l’acqua fatta sgorgare miracolosamente dal Signore: l’eroico Sansone non sta compiendo un atto di misericordia, invece è lui che è salvato dalla grazia di Dio.
Con quest’opera dalla composizione serrata, che concentra in una visione d'insieme diversi personaggi, Caravaggio abbandona ogni schema tradizionale ed attua una vera e propria rivoluzione, rappresentando con estremo realismo e con perfetto sincretismo talune scene bibliche, storiche ed altre di tipo quotidiano con alcuni rinvii mitologici. Il naturalismo caravaggesco trova qui il suo compimento: sebbene stilisticamente il dipinto si avvicini alle ultime pitture di Caravaggio a Roma, in particolare al Martirio di San Matteo per la soluzione compositiva di un gruppo di figure variamente atteggiate che si dispongono lungo delle direttrici a raggiera, esso se ne differenzia per l'utilizzazione di una luce che scolpisce le forme attraverso un chiaroscuro più netto e frantumato in cui la scelta di soggetti reali e l'alto livello di simbolismo sono condensati in un'unica scena. Il significato morale di fondo è il rapporto tra le opere misericordiose che uomini compiono come avvicinamento a Dio e la misericordia della Grazia che Dio rende agli uomini, un tema inevitabile in una pala destinata ad una congregazione dedita a questo tipo di attività caritativa.
L'artista lavorò poi alla Flagellazione di Cristo per la cappella de Franchis in San Domenico Maggiore: la lavorazione, realizzata fra il 1606 ed il 1607, fu abbastanza travagliata infatti nella parte inferiore, soprattutto all'altezza del perizoma del torturatore di destra sono evidenti segni di pentimenti e rimaneggiamenti, rivelati dagli esami radiografici che hanno rivelato una testa d'uomo, probabilmente il committente, successivamente cancellata, in obbedienza alle precise ragioni della committenza che volevano evidenziare la crudeltà degli aguzzini, profondamente diversi da quelli raffigurati come uomini semplici costretti ad un lavoro faticoso nella Crocifissione di San Pietro della chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.
Il quadro (286 x 213) mostra il luminoso torso di Cristo, legato alla colonna, con intorno tre aguzzini, che sembrano scaricatori del porto, che affiorano e, immergendosi a turno nell'ombra, organizzano una girandola di tormenti che sembra non poter avere fine. Al centro della composizione campeggia la figura di Gesù, legato a una colonna: è un corpo bellissimo, tornito classicamente dalla luce, anatomicamente perfetto, in torsione, un corpo muscoloso che contrasta col volto rassegnato, dolente, malinconico sembra fluttuare in un movimento danzante di memoria manierista.
Tuttavia la violenza espressa dai carnefici, è sapientemente inquadrata in un contesto pittorico caratterizzato dalla consueta razionalità dello spazio e della luce. Staccati dalla colonna centrale i personaggi si distribuiscono in maniera sintetica ad eccezione del più lontano, chino e quasi completamente immerso nell’ombra. Lo sfondo è nero o scurissimo e le espressioni di malvagità sono appena visibili, ma eloquenti sui volti degli aguzzini nerboruti, intenti a procurare martirio sulla carne di Cristo, così debole eppure sensuale nella rappresentazione di un corpo magnifico ed illuminato.
La bellezza di Cristo appare esaltata, anziché impoverita, dalle violenze patite, secondo una descrizione non nuova per Caravaggio: abituato a proporre il paradosso a lui molto caro, accentua i movimenti rozzi e brutali dei modelli tratti dal popolo per dare maggiore risalto al candore protagonista, a sua volta sconcertante per la capacità di comunicare un impulso di carnalità profana.
Qui Caravaggio continua il suo percorso di approfondimento nella rappresentazione del pathos: il dolore non esplode violentemente, non è gridato, è dominato, è contenuto, e perciò è tanto più intenso, sentito e comunicato allo spettatore. L’immagine coglie l’attimo che precede il culmine del dramma, quando il corpo di Cristo cede spossato alla forza bruta dei due carnefici che lo stanno legando. Gli aguzzini si accaniscono violentemente nei confronti del corpo inerme di Cristo. La luce investe e modella il corpo di Gesù, svelandone la perfezione e l’eroica purezza, in contrasto con la sudicia e scarna anatomia dei torturatori. Il pittore propone in Cristo una fisicità atletica che però è mortificata dall’atteggiamento di umiltà del capo reclino e delle gambe leggermente piegate, ad indicare l’atteggiamento psicologico e spirituale di volontaria sottomissione alla Passione. Gesù è immerso nell’atmosfera buia, interrotta solo dall’intenso bagliore della luce riverberata sulla sua figura. L’immagine torturata sembra così emergere dalla cortina di buio, suggestiva come un’apparizione, favorendo la concentrazione e la commozione del fedele inginocchiato e in preghiera. Il modellato delle anatomie è robusto e corposo come in tutte le opere meridionali del maestro.
Tuttavia sembra che Caravaggio non riesca a trovar pace neppure a Napoli. Bellori narra che sia stato il desiderio «di ricevere la Croce di Malta solita darsi per gratia ad huomini riguardevoli per merito e per virtù» a spingere Caravaggio ad imbarcarsi per Malta ed è probabile che l’artista, entrando a far parte del Sacro Ordine Gerosolimitano, sperasse di potersi mettere al sicuro dal “bando capitale” emesso dal tribunale pontificio. Sempre per intercessione dei Colonna, si trasferì a Malta: a condurlo sull’isola potrebbe essere stato un altro esponente della famiglia che lo protegge, quel Fabrizio Sforza Colonna – figlio della marchesa di Caravaggio e generale della flotta maltese – che proprio nell’estate del 1607 fece scalo a Napoli proveniente da Marsiglia.
Massimo Capuozzo

giovedì 25 agosto 2011

Chiesa e Reale Monastero di San Bartolomeo a Castellammare di Stabia

Secondo la tradizione, ai tempi di Carlo I d'Angiò fu fondato presso l'attuale chiesa della Madonna della Sanità, una chiesa ed un monastero, ma a tutt’oggi è ignoto l'anno preciso della fondazione.
Questo monastero era esposto a continue incursioni di fuorilegge, perché situato fuori della città e, in seguito alle disposizioni del concilio di Trento, il vescovo Maiorana decise di costruire un nuovo complesso entro le mura cittadine; per questo nel 1576 furono comprate la casa di Roberto de Marchese alla Dohana vecchia e quella di Nicola Vaccaro a Campo di Mola ed iniziarono i lavori e s'innalzò dalle fondamenta una nuova chiesa nella strada Dogana, poi detta S. Bartolomeo. Il 18 luglio 1583 le suore accompagnate dal vescovo si trasferirono dall'antico nel nuovo monastero, con disappunto degli abitanti del sito dove esse abitavano che, rivoltandosi, ostacolarono la levata delle campane della antica chiesa. La nuova chiesa fu benedetta il 21 agosto 1673 dal vescovo Pietro Gambacorta.
Il monastero fu sempre governato dai Frati Minori Riformati da un guardiano e da un procuratore secolare. Anticamente in questo monastero si potevano monacare solo fanciulle nobili e la più antica Badessa di cui si ha memoria è la nobile Chiara Cannavacciuolo sul finire del secolo XV. Quando il vescovo andava in visita al monastero, era consentito solo al sindaco dei nobili entrare col vescovo nella clausura; essi erano attesi dalle suore all'ingresso della clausura, dove veniva intonato il Te Deum e poi processionalmente, preceduti dalla croce, si portavano nel coro dove, dopo l'orazione allo Spirito Santo, la Badessa, la Vicaria e le suore prestavano la prescritta obbedienza al vescovo, leggevano le regole del monastero e la funzione terminava con la visita alle reliquie di S. Bartolomeo e di S. Gennaro.
Nel 1684 oltre l'altare maggiore sono annotati i seguenti altari: Altare di S. Bartolomeo, di S. Maria del Soccorso, di S. Tommaso, del Crocifisso, di S. Michele Arcangelo.
Nella seconda metà del sec. XVIII la chiesa fu rimaneggiata: nel 1780 furono costruiti gli otto coretti e nel 1792 l'atrio ed il cancello di ferro avanti la chiesa.
La chiesa si presenta oggi a navata unica ed è preceduta all'esterno da atrio chiuso da cancelli di ferro, affidati a pilastri di pietra piperno.
Presenta sull'altare l'altare maggiore di marmo, con ciborio una tela del 1700 raffigurante Il martirio di S. Bartolomeo, opera di Francesco Landini, donato nel 1782 alle suore dalla regina Maria Carolina di Napoli. Davanti all'altare maggiore è una balaustra di marmo con portelli di ottone; all'interno, ai lati dell'opera del Landini, sono conservati due grandi quadri ad olio dedicati al santo.
Le quattro cappelle laterali con altari di marmo, sono dedicate, a sinistra, al S. Crocifisso, con crocifisso bizantino ligneo del 1111 restaurato nel 1836 e alla Vergine Immacolata; a destra a S. Francesco d'Assisi e a S. Ludovico. Ciascuna cappella è dotata di quadro ad olio con raffigurazione del santo cui è dedicata.
Presso l'altare di S. Francesco è esposta una copia dell'Immagine di Maria S.S. della Speranza. Presso l'altare di S. Ludovico si trova la statua della vergine di Fatima; presso quella di S. Francesco è una statua di S. Catello e presso l'altare del crocifisso una di S. Giuseppe.
Lo splendore e le ricchezze di questo monastero terminarono alla soppressione degli ordini religiosi ed il monastero passò in proprietà del Comune di Castellammare.
Nel 1924, l'amministratore Apostolico Luigi Lavitrano, arcivescovo di Benevento affidò alle suore adoratrici della provincia napoletana. Il 14 settembre 1924 si riaprì questo monastero.
Sul lato destro c'è il campanile, accessibile dal monastero, dotato di tre piccole campane.
Sempre sul lato destro è la sacrestia, di regolare ampiezza, illuminata da due vani di finestrini con cancelli fissi di ferro, rete e telaio di lastra sulla Strada S. Bartolomeo.
Presso la porta maggiore della chiesa vi sono due lapidi in marmo: quella a destra ricorda la consacrazione della chiesa nel 1821, quella a sinistra si riferisce al trasferimento del monastero dalle alture della città e ricorda le reliquie di S. Bartolomeo e S. Gennaro, conservate nel monastero stesso.

mercoledì 24 agosto 2011

Il vero Cristo sepolto dalla chiesa: lo Gnosticismo. Di Massimo Capuozzo

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Sono esistiti, all'inizio, non uno ma diversi cristianesimi.
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Una delle sue versioni ha successivamente preso il sopravvento sulle altre: ha stabilito, secondo il proprio punto di vista, il canone delle Sacre Scritture e si è imposta come ortodossia, relegando le altre al rango di eresie e cancellandone il ricordo. Noi possiamo però oggi, grazie a nuove scoperte di testi e a una rigorosa applicazione del metodo storico, ristabilire la verità e presentare finalmente Gesù di Nazareth per quello che fu veramente e che egli stesso intese essere, cioè una cosa totalmente diversa da quello che le varie Chiese cristiane hanno finora preteso che fosse.
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Nuove scoperte di nuovi testi hanno modificato il quadro storico sulle origini cristiane.
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Gesù non ha mai voluto fondare alcuna religione.
Gesù è l'Uomo che ha coscienza e conoscenza di sé e che, con il solo atto di volontà cambia la realtà, ossia il miracolo.
Gesù è venuto a portare la conoscenza che ci hanno sempre nascosto sulla natura dell'uomo che è ANIMA. Egli è venuto a dire che possiamo essere come lui, vero Uomo e vero Dio.
La religione fu voluta da forze che non sono solo di questa Terra, per dividere le genti e assoggettare la volontà umana nascondendoci la nostra stessa natura.
Gesù non è religione, è Vita.
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Nel dicembre del 1945, a Nag Hammadi, nell'Alto Egitto, furono scoperti decine di manoscritti di sconvolgente importanza perché rivelarono un cristianesimo profondamente diverso da quello che conosciamo.
Oggi, a più di sessant'anni di distanza e dopo un lavoro di decifrazione e di studio durato decenni, è possibile avere un'idea più precisa di Gesù, che cosa ha detto veramente, chi erano gli apostoli, qual era il ruolo di Maria di Magdala.
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Diversamente da quello che si crede la chiesa è un gruppo di uomini che portano avanti, quanto deciso nei secoli, le parole di uomini che intesero e diffusero il messaggio di Gesù in funzione dei loro fini.
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Questo video introduce la scoperta di fondamentali rivelazioni di un cristianesimo primitivo, rimasto nascosto per duemila anni, dove la conoscenza di Sé, la Gnosi, è il tema centrale ed è la via che conduce all'unità.
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Quella conoscenza che la chiesa ha definitivamente sepolto attraverso i due consigli ecumenici svolti nella città di Nicea dove definirono chi aveva ragione e chi era eretico all'interno della stessa chiesa. Uomini che decisero chi fosse Gesù e quale messaggio avesse portato. Uomini che decisero quali testi erano giusti e quali errati. Anche i 4 vangeli canonici del nuovo testamento servono a questo.
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Uomini che non sono Dio, sono uomini! Come può, quel Dio che è libertà e che desidera che ogni uomo lo cerchi liberamente, affermare che lo si faccia attraverso chi si assume il diritto di insegnare quanto è stato definito da un gruppo di uomini?
Occorre riflettere, occorre assumersi la responsabilità verso ciò che si crede.
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Occorre sostituire il credere con in capire!
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L'amore è relazione e solo amando si è vivi.
Per te che mi stai ancora leggendo metto in relazione le parole seguenti: La religione è diventata superstizione ed idolatria, credenza, rituale!
La bellezza della verità e le sue sottigliezze non sono nella fede e nel dogma, non sono mai dove l'uomo le può trovare perché non esiste nessuna via che conduce a quella bellezza. Non è un punto fisso o un porto di salvezza. Ha la sua propria dolcezza e il cui amore è incommensurabile, non puoi trattenerlo o farne esperienza, non ha un valore di mercato da usare o mettere da parte.
C'è solo quando la mente ed il cuore sono vuoti, liberi da ogni pensiero.
Tutte le ricerche e le scoperte non hanno alcun significato a meno che la mente non sia libera dal suo condizionamento.
Quella liberà è il primo e ultimo gradino!
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Non c'è alcuna via verso la verità sia essa storica o religiosa, non è da esperire o da trovare nella dialettica, ne da vedere in opinioni mutevoli e credenze. Ti imbatti in essa quando la mente è libera da tutte le cose che ha messo insieme. La mente deve essere libera da qualsiasi autorità. Non devono esserci ne seguaci, ne discepoli, ne metodi.
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Non appartenete a niente, non legatevi ad istituzioni e non siate discepoli di nessuno. Dubitate di tutto quello che dicono i guru o i sacerdoti orientali ed occidentali che siano e a maggior ragione dubitate di quello che vi dice chi vi parla.
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Massimo Capuozzo

Storia della chiesa e dei suoi crimini: i Catari. Di Massimo Capuozzo

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Nel sud della Francia viveva un popolo la cui religione per certe specificità fu concorrenziale alla Chiesa Cattolica d'Occidente.
L'eresia dei Catari o Puri fu l'incubo del papato agli albori del secondo millennio. La repressione della Chiesa fu commisurata alla paura che i Catari potessero, con il loro credo, mettere in crisi l'intero fondamento della chiesa cristiana.
Il catarismo era un movimento cristiano con alcune particolarità che lo distinguono dal Cristianesimo. Per i Catari esistono un Dio malvagio, falso e crudele (Satana) e un altro Dio, buono, santo e giusto. Il mondo materiale è opera del Dio malvagio, mentre il creatore di ciò che rimane in eterno è il Dio Buono. I Catari erano convinti che Satana avesse scritto il Vecchio Testamento. Per loro Abramo non era altro che una figura diabolica. Tutte le cose materiali che si vedono sulla terra sono vane e vengono da Satana. La terra è un luogo malvagio e tornerà nel nulla da dove è venuta. Satana ha modellato tutto dalla materia preesistente, il Dio Buono crea dal nulla. L'uomo è fatto di corpo, anima e spirito. Il corpo è stato modellato dal Dio malvagio, mentre l'anima e lo spirito sono creati dal Dio Buono. L'anima si trova nel corpo, mentre lo spirito è al di fuori e sorveglia l'anima. Gesù Cristo è la salvezza, Egli rivela la verità, libera gli spiriti imprigionati ed indica la via che porta al Dio Buono.
Per i Catari il battesimo non è quello d'acqua, ma è un battesimo spirituale, che gli uomini ricevono da adulti. Con il battesimo l'anima si riunisce con lo spirito. Solo chi ha ricevuto il questo battesimo faceva parte della Chiesa di Dio, e questi erano chiamati Parfaits, mentre gli altri erano i Credenti. L'unione per eccellenza di anima e spirito è quella tra Maria Maddalena e il Cristo. Per i Catari esisteva la reincarnazione. Le persone che non avevano ricevuto il battesimo spirituale si sarebbero reincarnate da una a nove volte. "Ogni creatura fatta dal Padre celeste sarà salvata, e nessuno di loro perirà... essi andranno di corpo in corpo, finché non giungano in un corpo nel quale pervengano allo stato di verità e di giustizia e vi diventino buoni cristiani" dicevano Giacomo Antier e Guglielmo Balbaria.
I Catari criticavano la Chiesa Cattolica. A questa era contrapposta la loro Chiesa, una Chiesa interiore. Non ammettevano il battesimo dell'acqua né l'eucarestia, non esisteva alcun edificio sacro, la loro Chiesa erano i fedeli in mezzo ai quali stava Gesù e vi sarebbe rimasto fino alla fine del mondo. Una loro preghiera recita: "Padre santo, Dio legittimo degli spiriti buoni, che non hai mai ingannato né mentito né errato, né esitato per paura della morte a discendere nel mondo del Dio straniero - perché noi non siamo del mondo né il mondo è nostro - concedi a noi di conoscere ciò che tu conosci - e di amare ciò che tu ami. Farisei ingannatori, che state alla porta del regno e impedite di entrare a coloro che lo vorrebbero, mentre voi non volete! Per questo prego il Padre santo degli spiriti buoni, che ha il potere di salvare le anime, e fa germogliare e fiorire per gli spiriti buoni, e per causa dei buoni dà vita ai malvagi e lo farà finché essi vadano nel mondo dei buoni".
I Catari erano buoni cristiani, non sono da considerare eretici, tanto che San Bernardi di Chiaravalle diceva di loro: "Nessun sermone è più cristiano dei loro e la loro morale è pura".
I Catari avevano qualcosa che poteva mettere in discussione il cattolicesimo? Come poteva la Chiesa Cattolica rimanere insensibile? Anzi doveva fare di tutto per impossessarsene. Bisognava prendere una decisione, l'unica possibile era il loro sterminio. C'è da aggiungere che in quel periodo il movimento cataro era molto radicato nella Linguadoca ed era diventato ormai alternativo al cattolicesimo.
La risoluzione nell'occultare il Sapere (Sophia), che fosse religioso, filosofico, scientifico, portò a sterminare chiunque si opponesse al suo progetto: non si trattava, infatti, di singoli eretici da punire, ma di un fenomeno di vasta portata, cui l'Europa dell'epoca non era abituata, e che ricordava i grandi movimenti religiosi scismatici che avevano afflitto l'impero romano d'oriente. È difficile spiegare altrimenti la creazione di un potentissimo mezzo di soppressione come l'inquisizione, la costituzione dell’ordine domenicano, preposti a controbattere le dottrine catare, e all'organizzazione di una crociata, cristiani contro cristiani, con connessa licenza di massacro.
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Nel 1209, l'esercito crociato condotto da Arnaud-Amaury, abate di Citeaux, massacra la quasi totalità della popolazione di Béziers, senza distinzione d'età o di sesso. Circa 25000 furono i morti, tra cui donne e bambini che si erano rifugiati nella chiesa San Nazaire: gli abitanti rigettarono la richiesta di consegnare i catari ed in quella circostanza, ad Arnaud-Amaury, fu attribuita la frase "uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi".
Che cosa giustificò una così efferata crociata fu l'uccisione?
Il 14 gennaio del 1208 presso Arles, di Pierre de Castelnau legato di Papa Innocenzo III dei Conti di Segni, fu ucciso per mano di sconosciuti, ma artatamente circolò la voce che incolpava i Catari come esecutori. Il grave fatto di sangue permise al papa di suonare subito le trombe di guerra. Inoltre uno stato sovrano, come la Francia, dilaniata dalla guerra dei cent'anni, sarebbe potuto essere messo in discussione da questa setta e dal suo alleato laico, il potente conte di Tolosa, essa quindi fu schiacciata dall'azione combinata tra Stato e Chiesa.
Nel 1244 cadde l'ultima fortezza, Montségur, a 40 Km da Rennes-le-Château. I Catari si erano stabiliti nella fortezza nel 1208, due anni dopo che Raymond de Péreille, signore di Montségur, la aveva ristrutturata. L'architettura della fortezza di Montségur ha una particolarità: durante il solstizio d'estate, i primi raggi del sole attraversano il loggione da parte a parte, per alcuni è un caso, per altri è la prova di un culto solare.
Era il desiderio di essere in armonia con la natura. Comandante della difesa era Pierre-Roger di Mirepoix, e il Conte di Tolosa Raymond VII li aiutava inviando loro viveri e acqua. Nel mese di gennaio del 1244 due catari lasciarono la fortezza per nascondere in una grotta il loro tesoro. Il 13 marzo dello stesso anno, tre Perfetti e un credente, lasciarono la fortezza, durante una tregua, portando via qualcosa di molto prezioso per loro e legato alla "loro religione", un tesoro spirituale.
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Il segreto di un nascondiglio di un tesoro più che materiale?
Pierre Roger di Mirepoix dichiarò agli inquisitori che i tre Parfaits erano fuggiti, affinché la Chiesa Catara non perdesse il suo tesoro e non restasse privo del suo tesoro nascosto, nella foresta di cui solo i tre "parfait" ne conoscevano il nascondiglio. Essi si erano congiunti con il loro spirito celeste.
Pierre-Roger Mirepoix era discendente di Mérovèe Levi, signore di Mirepoix, il quale, su ordine di Bera II, aveva salvato Sigiberto IV portandolo a Rennes Le Château, quando Pipino II fece assassinare Dagoberto II. Pierre Roger di Mirepoix era molto legato alla sovranità merovingia. I Crociati dovevano recuperare qualcosa a Montségur, ma non la trovarono mai, perché era stata portata via la notte di quel famoso 13 marzo 1244. Il loro segreto lo conoscevano anche i Templari, che nella notte di venerdì 13 ottobre 1307 vennero messi al rogo.
Nei paesi catari, non solo non era concepita l'idea della violenza, ma convivevano in perfetta armonia, catari, cristiani, mussulmani ed ebrei. Essi intendevano tornare al modello ideale di chiesa descritto nei vangeli e negli atti degli apostoli.
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Un'isola felice dell'anno 1000 è definitivamente morta.
Massimo Capuozzo

Una morte sospetta: i 33 giorni di Giovanni Paolo I

I video contenuti in questo articolo forse saranno rimossi perché sono video scomodi. Perché la verità è scomoda sempre e l'ignoranza da sempre riempie il tempio di Dio.

Il 26 agosto 1978 Albino Luciani è eletto Papa con il nome di Giovanni Paolo I. È trascorso appena un mese quando, il 29 settembre 1978, tutta la Chiesa Cattolica, da Roma al Sudamerica, è scossa dalla triste e inaspettata notizia: il Papa è morto. I fedeli, che in appena trentatré giorni di pontificato sono stati conquistati dalla semplicità, dall'animo gentile, ma determinato di Giovanni Paolo I devono già rassegnarsi a piangerlo.
Da Cardinale di Venezia, Albino Luciani era salito al soglio di Pietro dopo un rapidissimo conclave, nel quale fu eletto grandissima maggioranza come successore di Paolo VI. Nonostante avesse scelto, come mai prima era accaduto, un doppio nome in ossequio ai suoi predecessori, alcuni gesti innovatori avevano inaugurato il suo pontificato rompendo la continuità con alcune tradizioni ecclesiastiche, ad esempio con l'abolizione del plurale maiestatis e della tiara papale.
In realtà, facendo proprio a suo modo lo spirito del Concilio Vaticano Secondo, Giovanni Paolo I si proponeva come un riformatore, sostenendo ogni misura che potesse ricondurre la Chiesa all'umiltà, alla povertà delle prime comunità cristiane. Proprio mentre il suo messaggio comincia a farsi chiaro, ad essere accolto, il Papa del sorriso se ne va, in silenzio e nell'arco di una sola notte, lasciando i credenti impreparati alla sua precoce dipartita, turbati ed amareggiati per aver perso un pastore caritatevole e carismatico che tanto avrebbe potuto ancora far per la Chiesa.
Questa perdita appare ancora più difficile da accettare anche perché, fin dal primo momento, molti nodi oscuri avvolgono le circostanze della morte, e il confronto tra le versioni ufficiali del Vaticano e le notizie trapelate anziché fare chiarezza una volta per tutte, ha contribuito negli anni ad alimentare le contraddizioni.

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Alcune incongruenze sorgono proprio dal documento ufficiale emesso dal Vaticano il giorno seguente per informare il mondo, cattolico e non, della scomparsa di Giovanni Paolo I; la stessa Curia ha ammesso poi che questo comunicato stampa si è rivelato fonte di inesattezze, ma il Sacro Collegio non ha mai smentito la dichiarazione né, viceversa, confermato in via formale il referto medico redatto dal dottor Buzzonetti.
Il documento fissa il decesso intorno alle ore 23 del 28 settembre e ne attribuisce la causa ad un infarto acuto del miocardio, ma entrambe le attestazioni saranno oggetto di controversia, così come sarà contestato il fatto che la triste scoperta sia opera del segretario personale del Papa. Buona parte delle imprecisioni nasce probabilmente da una generale disorganizzazione dell'apparato che si trova a gestire una situazione così insolita.
Come i fedeli, anche il Vaticano non può aspettarsi il trapasso di un pontefice eletto appena un mese prima, ed oltretutto proprio perché il recente conclave ha concesso licenza a molti cardinali: la loro temporanea assenza da Roma concorre a complicare l'amministrazione responsabile della crisi.
Le incertezze nel dare il resoconto ufficiale degli eventi hanno quindi fornito argomenti a quanti ne metteranno in discussione l'attendibilità per elaborare delle spiegazioni alternative: le ipotesi si moltiplicano con il passare del tempo, anche se alla luce dei fatti nessuna può essere provata o confermata.
In primo luogo sembra mancare chiarezza anche su quali fossero le condizioni di salute di Papa Luciani al momento del suo arrivo a Roma. Se da una parte un pregresso di otto interventi chirurgici, sommati ad una generale cagionevolezza, il precedente di un'embolia all'occhio durante un viaggio in aereo e una probabile predisposizione genetica ad improvvisi malori (che portarono al prematuro decesso molti altri membri della famiglia Luciani), favoriscono una convergenza sulle cause naturali, non tutti si mostrano d'accordo con questa spiegazione: le notizie continuano ad uscire con il contagocce, e nonostante le richieste provenienti da ogni parte la Chiesa non autorizza il ricorso all'autopsia.
La mancanza di un riscontro che possa comprovare una versione definitiva, correggendo o contrastando l'iniziale comunicato-stampa, è interpretata da più parti come il tentativo di nascondere la verità, di insabbiare la reale dinamica degli avvenimenti.
In particolare le rimostranze, da parte anche di prelati, riguardano il rifiuto del Vaticano nell'autorizzare un esame autoptico sul corpo del Papa, che forse le circostanze eccezionali avrebbero potuto giustificare e le illazioni rendevano opportuno.
Si parla dunque di embolia, crisi per il troppo stress, un attacco di tisi polmonare ma è ipotizzato anche un errore nell'assumere calmanti, o addirittura l’omicidio. La tesi dell'assassinio elaborata dal giornalista inglese David Yallop non trova in effetti motivi lampanti per essere smentita (insiste tra l'altro sull'avvelenamento da digitalina, che nemmeno un'autopsia riuscirebbe a trovare), garantisce celebrità al suo assertore e riapre il dibattito intorno ad un mistero ancora apparentemente irrisolto.
Se i parenti più stretti del Papa, cioè il fratello Edoardo e la sorella Nina, sconfessano l'idea di complotto dipingendola come una sciocchezza, solo Don Diego Lorenzi parla di dolori al petto che il Papa avrebbe accusato il giorno della sua morte, mentre da altre fonti si stima che le sue condizioni di salute fossero perfette. Tutte queste congetture però non possono essere dimostrate, mancando qualsiasi tipo di prova certa ed inconfutabile.

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Proprio come permangono dubbi sulle cause della morte di Papa Luciani, che sono il punto cruciale della vicenda, le diverse ricostruzioni non si trovano in accordo nemmeno su alcuni importanti dettagli.
Il referto medico indica nelle 23 l'orario in cui presumibilmente il pontefice sarebbe venuto a mancare, e pure l'esperto inglese John Cornwell, al quale la Chiesa affiderà nel 1987 delle indagini sul caso, conferma questa collocazione nella tarda serata. Però, secondo il racconto di Suor Vincenza, incaricata di servire Papa Giovanni Paolo I e solita servirgli la colazione, il corpo risultava ancora caldo in mattinata. Gli stessi fratelli Signoracci, che si sono occupati della sistemazione della salma, sostengono di aver ravvisato solamente lo stadio iniziale dei processi di ipostasia e irrigidimento, come tracce di una morte sopraggiunta soltanto poche ore prima del loro arrivo il mattino del 29 settembre 1978.
Inoltre, un'ulteriore incongruenza emerge confrontando la versione ufficiale, che vede nel segretario personale Don Lorenzi il primo ad accorgersi dell'accaduto, con la traduzione informale e probabilmente più attendibile che vorrebbe invece attribuito quest'onere proprio a Suor Vincenza. In questo caso un’intransigente moralità dei costumi in uso in Vaticano, tentando di nascondere l'episodio nel timore forse eccessivo di poter disonorare la memoria del Santo Padre, avrebbe finito con l'aggrovigliare i fili della matassa.
Ancor più confusione circonda la descrizione delle letture che avrebbero accompagnato il Papa al sonno, dato che le dichiarazioni ufficiali sono state nuovamente smentite: secondo il racconto di Monsignor Farusi (gesuita, giornalista per Radio Vaticana) non si sarebbe trattato de L'imitazione di Cristo, perché proprio nel pomeriggio del 29 settembre dalla segreteria sarebbe trapelato che il Papa stava tenendo in mano degli appunti. Se per Mons. Farusi il contenuto di questi fogli è destinato a rimanere nel mistero, il vaticanista Gennari e soprattutto Yallop sono convinti che Giovanni Paolo I stesse preparando un progetto di ristrutturazione delle gerarchie ecclesiastiche, che prevedeva la sostituzione di personaggi-chiave, come il segretario di Stato Cardinale Villot, e un rinnovamento dei vertici della banca vaticana. L'interpretazione del giornalista Andrea Tornielli, più recente e più “morbida”, propende comunque per descriverli come semplici appunti di un'omelia.
Le opinioni sembrano però convergere almeno su un punto: Giovanni Paolo I era un innovatore. Sebbene si concordi nel ritenere Luciani, prima parroco e poi vescovo e cardinale, un teologo conservatore e inflessibile davanti alle questioni fondamentali della fede, e per altri aspetti in qualche modo erede di una cultura concreta e sanguigna, genuina come quella delle montagne bellunesi, è fuor di dubbio che la sua attività pastorale fu contraddistinta da un’eccezionale apertura al rinnovamento.

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Questa, unita alla straordinaria capacità di farsi ascoltare e capire da tutti, lo rendeva un personaggio carismatico ed amatissimo dai suoi fedeli. L'elezione al conclave aveva consegnato ad Albino Luciani il difficile compito di introdurre a Roma la semplicità, l'umiltà che gli appartenevano e di riportare la Chiesa alla sua originale austerità.
Erano anni costellati di eventi oscuri e situazioni poco trasparenti: Luciani conosceva già dal suo patriarcato a Venezia l'operato dello IOR e non approvava il legame tra Chiesa, economia ed ambienti massonici istituito dal Cardinale Marcinkus (ed è proprio questo il filo tematico che sostiene l'impianto delle ipotesi cospirative di Yallop).
L'impronta riformatrice di Papa Giovanni Paolo I, però, non si limita solo a questo: anche l'abolizione di rituali vetusti e di simboli superati, come la tiara e la sedia, sono sintomo di una tendenza al cambiamento, nella prospettiva di traghettare la Chiesa al nuovo secolo senza timore per le contestazioni (egli era rafforzato da un conclave estremamente compatto al momento dell'elezione).
I pochi discorsi che Luciani ha avuto il tempo di lasciare nelle vesti di Papa sono impregnati di un tale carisma che indicano chiaramente come sarebbe potuto proseguire il suo pontificato e continuano a trasmettere ai credenti un forte messaggio d'umiltà e di speranza. Sono proprio le petizioni dei fedeli ad aver spinto all'avvio della causa di beatificazione promossa dal vescovo di Belluno e sostenuta dal clero brasiliano. E, forse più importante delle stesse parole, il ricordo di Papa Luciani regala ancora quel sorriso capace di conquistare tutti.

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I banchieri di Dio. Recensione e film

Considerato l'attuale gravissimo stato di censura e di manipolazione delle informazioni da parte dei media, si invita alla massima pubblicazione e diffusione.

Un chiodo fisso quello di Giuseppe Ferrara che si è tolto dopo 15 anni, riuscendo finalmente a far uscire il suo film nelle sale, dopo bocciature e polemiche. Sette anni dopo "Segreto di Stato" in cui denunciava i guasti dei servizi segreti italiani, Ferrara ritorna sulla storia politica d'Italia degli anni '80, tra bancarottieri, monsignori e faccendieri, e racconta la storia di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano dal 1975, arrestato nell''81 per il fallimento del Banco, condannato a 4 anni di reclusione e 15 miliardi di multa, fuggito all'estero e infine trovato impiccato il 18 giugno del 1982 sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra. Dopo aver raccolto un'enorme mole di dati ed informazioni non solo su Calvi ma anche sul Banco Ambrosiano, lo IOR, l'Opus Dei e la Massoneria, Ferrara sí inerpica per le ripide pendici di un caso sul quale la giustizia italiana non ha fatto ancora oggi piena luce, nelle cui maglie era rimasto, sebbene per poco, intrappolato persino il Vaticano. Un film nel quale c'è tutto: dalla P2, all'attentato al Papa, alla guerra delle Falklands. Tra comparsate e camei passano sullo schermo personaggi politici come Andreotti, Craxi, o bancarottieri come Michele Sindona e la vicenda di Calvi si dipana, o sarebbe meglio dire si complica, tra agenti segreti tuttofare come Francesco Pazienza e ambigui faccendieri come Flavio Carboni, mentre i responsabili della banca vaticana Paul Marcinkus e il suo braccio destro Mennini si assicurano la salvezza con giochi di firme e di potere. Come fu per "Il caso Moro" Ferrara svolge indagini con il suo film e tira le proprie conclusioni.
Chi ha assassinato Roberto Calvi? Chi ha dato l'ordine di farlo fuori? Cosa conteneva la famosa valigetta nelle mani del faccendiere Carboni? Misteri inghiottiti dalle acque del Tamigi, a partire da quel 17 giugno dell' 82 quando il cadavare del presidente del Banco Ambrosiano venne trovato sotto il ponte dei Frati Neri, a metà strada tra il Parlamento e la Torre di Londra. Oggi, a vent'anni dall'accaduto, il film di Giuseppe Ferrara ci riporta a quel periodo tra i più intricati e misteriosi della nostra storia recente. Non c'è un caso da riaprire, due sentenze hanno già detto quasi tutto, semmai è una vicenda "esemplare" che aiuterà a capire meglio anche la realtà di oggi. Una storia che aspetta da tredici anni di sbarcare al cinema, perchè il progetto di Ferrara è in cantiere da tempo e per varie ragioni è stato sempre bloccato. E' il bravissimo e anche molto somigliante Omero Antonutti a restituire un Calvi sconfitto abbandonato dagli altri, altri che sono Ortolani, Gelli e Sindona. Dal carcere di Lodi dove finisce nel maggio dell'81 le sue dichiarazioni tirano in ballo politici di governo ed ecco che nel film vediamo comparire sosia di Craxi, Andreotti, Piccoli e Forlani e nemmeno il Pci esce indenne dalla vicenda, al partito sono andati "in prestito" 35 miliardi di cui quattordici mai restituiti. La messa in scena del finto suicidio non risparmia a Calvi la condanna a quattro anni per esportazione illegale di capitali. In libertà provvisoria il banchiere sente che tutto sta per crollare da un momento all'altro e il buco dell'Ambrosiano ammonta ormai a 1.400 milioni di dollari. I faccendieri Francesco Pazienza (Alessandro Gassman) e Flavio Carboni (Giancarlo Giannini), chiedono denaro a tamburo battente per corrompere la magistratura, mentre l'eminenza grigia, il vescovo Marcinkus (Rutger Hauer), ricambia antichi e cospicui favori - i famosi 900 milioni di dollari a sostegno di Solidarnosc - emettendo dallo Ior lettere di garanzia che sedano temporaneamente il mercato azionario. Dopo la morte di Calvi lo Ior dovrà tirar fuori altri 240 milioni di dollari. Ma il film non è solo uno spaccato dell'Italia in affari a cavallo tra gli anni 70 e 80, che mette a nudo le stupefacenti manovre finanziarie, da far girare la testa, tra Vaticano, massoneria, mafia, etc.. Al centro del film non ci sono solo i poteri forti, più o meno occulti, ma la vicenda dell'uomo Calvi, l'uomo che credeva di dominare il potere, ma alla fine è stato il potere a travolgerlo.
Il produttore - "Fare un film su Calvi è da sempre un tabù - spiega il produttore Enzo Gallo - perchè tocca uno dei tanti misteri irrisolti della cronaca e coinvolge molti grandi poteri italiani rimasti gli stessi di allora. Dopo 13 anni oggi finalmente riusciamo a fare il film pur tra tante difficoltà, il Vaticano ad esempio continua ad essere off limts per noi. Fare questo film è stato un atto di coraggio, chiedere alle banche un prestito per metterlo in cantiere significa farsi guardare in cagnesco".

Clicca sul link per vedere il film I banchieri di Dio

venerdì 22 luglio 2011

Castellammare di Stabia e la sua storia di Massimo Capuozzo

Le fonti storiche ci permettono di assegnare la sua origine al 950 a.C., due secoli prima della fondazione di Roma.
Secondo la tradizione mitologica, l'antica Stabia o Stabiae sarebbe stata fondata da Ercole al suo ritorno dalla Spagna: i resti di un piccolo tempio dedicato ad Ercole sono stati ritrovati sullo scoglio di Rovigliano, un tempo chiamato Petra Herculis.
I primi abitanti di Stabia vennero dal mare, attratti dalla dolcezza del clima, dalla fertilità del suolo e dalla difesa naturale costituita dalla cerchia di monti ricchi di boschi, ma anche dalla straordinaria ricchezza di acqua. In seguito altri nuclei di genti si fermarono a Stabia, come gli Osci, i Greci, gli Etruschi, i Sanniti e infine i Romani.
La storia dell'antica Stabiae si può suddividere in tre fasi fondamentali: la prima dall'VIII sec. a.C. alla distruzione sillana dell'89 a.C.; la seconda, dall'89 a.C. all'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; una terza con la ripresa della vita nel II sec. d. C.
La storia di Stabiae non può prescindere da quella suo ampio territorio, l'ager stabianus, identificabile con l'area compresa tra i monti Lattari a Sud, le colline di Casola, Lettere e S. Antonio Abate ad Est, e il litorale ad Ovest. Si tratta di una vasta zona collinare, ancora oggi famosa per la salubrità del clima e per la produzione vinicola, con un tratto di pianura idonea alla coltura cerealicola, l'attuale comune di S. Maria la Carità, con la vicinanza dei monti Lattari, celebri per la produzione di latte oltre che per il fabbisogno di legname, con una grande ricchezza di sorgenti di acqua potabile e minerale lungo il litorale, rinomata già in antico; ed infine con la presenza di vie di comunicazione l'una verso l'interno in direzione di Nuceria, la via Nuceria-Stabiae e l'altra a mezza costa, in direzione di Surrentum la via Stabiis-Surrentum.
LA PRIMA STABIAE
Nell'età del ferro la valle del Sarno e le pendici dei monti Lattari furono teatro di rapporti commerciali e di scambi culturali tra Opici, Etruschi, Greci, Osci, ecc., come è attestato dai reperti di ceramica. La prima fase, caratterizzata da un alternarsi nel sito di Stabiae della presenza commerciale etrusca e greca, è fondamentalmente legata all'evolversi delle vicende di questi due popoli.
La posizione geografica di Stabiae e le sue condizioni climatiche ed ambientali particolarmente favorevoli portarono ad una densa frequentazione del territorio già dall'VIII sec. a.C.: la scoperta di una vasta necropoli attesta l'importanza di Stabiae.
L'abitato cui era legata la necropoli, non ancora individuato, non doveva trovarsi molto lontano dal sepolcreto e forse era collocato sull'estremità settentrionale della collina di Varano, in modo da controllare sia lo scalo marittimo costituito dall'insenatura compresa tra lo scoglio di Rovigliano ed il promontorio di Pozzano, sia la via Stabiae-Nuceria e doveva avere forma di città fortificata, oppidum.
Stabiae dunque, essendo il luogo più favorevole per raggiungere dal mare l'entroterra verso Nuceria da dove partivano le principali vie di collegamento verso Nola, l'Irpinia, la valle del Calore ed il Salernitano, dovette costituire ancor prima di Pompei un avamposto costiero per i vari villaggi della valle del Sarno; i confini del suo ager erano delineati da netti limiti naturali: a Sud i monti Lattari ed il monte Faito, ad Est le alture di Lettere e Casola, ad Ovest il mare, a Nord l'isolotto di Rovigliano ed infine il fiume Sarno.
Intorno alla metà del VII sec. la crescita urbana di Pompei ed il sorgere del suo pagus maritimus in loc. Bottaro provoca un grave contraccolpo a Stabiae: la necropoli subisce infatti una fortissima contrazione e l'abitato si rivolge maggiormente verso l'entroterra come è testimoniato dalle tracce di un piccolo insediamento rurale in Gesini a Casola.
Alla fine del V sec. a.C. il territorio è ormai in mano al popolo dei Campani e Stabiae continua a svolgere un ruolo di tramite commerciale tra Neapolis e Nuceria. Alla necropoli di Madonna delle Grazie intorno alla metà del IV sec. a.C. si aggiunge la necropoli presso il castello medievale a Pozzano, sito di controllo per l'accesso alla penisola sorrentina.
Verso il IV sec. a.C., dominarono il territorio i Sanniti, ben presto sconfitti e ricacciati dai Romani con le guerre sannitiche. L'attività e la frequentazione del territorio nella seconda metà del IV sec. a.C. è attestata da un santuario in loc. Privati alle pendici di Monte Coppola in posizione strategica per il controllo della via pedemontana verso Surrentum.
Il periodo successivo tra il III sec. a.C. e l'89 a.C. anno della distruzione di Silla è scarsamente documentato: durante la seconda guerra punica, nel 218 a.C., Stabiae si schierò dalla parte di Roma, inviando navi e uomini; alla fine del III inizi II sec. a.C. il santuario di Privati venne completamente distrutto ed abbandonato; due insediamenti collinari a Gragnano ed a Casola testimoniano di una distruzione e di un abbandono nel corso del I sec. a.C.; infine la più estesa testimonianza archeologica di un impianto urbano di 45.000 mq. non ancora riportata alla luce permette solo ipotesi sulla data del suo impianto: se fosse antecedente all'89 a.C. saremmo di fronte ad una realtà politicamente ed amministrativamente organizzata già prima dell'età sillana.
Quello che è certo è che Stabiae doveva avere grande importanza se Silla, nel corso della Guerra Sociale, non si limitò solo ad occuparla, come aveva fatto per Pompei ed Ercolano, ma distrusse questa piazzaforte, tenuta da Papio Mutilo, uno dei più valenti generali italici, tanto che le ultime resistenze degli insorti ebbero il loro baluardo nelle montagne di Stabiae, dove essi si difesero accanitamente ma, stretti infine d'assedio, dovettero arrendersi il 30 aprile dell'89 a.C., e Stabiae, abbandonata al furore dei soldati, venne messa a ferro e a fuoco, le sue mura furono diroccate, l'incendio sterminatore rischiarò le onde del Tirreno.
Dopo questa distruzione, gli Stabiani superstiti, privati delle loro abitazioni, cercarono asilo sulle vicine colline, dando vita a borghi e villaggi.
La distruzione sillana del 30 aprile dell'89 a.C. non provocò la scomparsa di Stabiae anche se essa scompare dalle fonti come città ed è ridotta a pagus amministrativamente dipendente da Nuceria.
Il maggior addensamento abitativo, per quanto è deducibile dai dati archeologici attualmente disponibili va collocato proprio nel periodo compreso tra la conquista sillana dell'89 a.C. e l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
Per tutto il primo secolo, infatti, fino all'eruzione del 79 d.C., l'ager stabianus si arricchì di moltissime ville; alcune, grandiose ville di otium sorte per la salubrità dei luoghi e per la presenza di sorgenti minerali, si concentrano lungo il ciglio settentrionale della collina di Varano adattandosi alla morfologia dei luoghi in posizione panoramica senza soluzione di continuità per godere lo splendido panorama del golfo.
In questo periodo verso l'interno, invece, nella parte più alta della collina, il territorio stabiano, si andò coprendo di ville rustiche, vere e proprie fattorie specializzate nello sfruttamento intensivo dei campi con la produzione di frutta, ortaggi, olio e soprattutto vino; queste ville, caratterizzate dalla presenza di un settore produttivo con torchio, aia, magazzini, nettamente differenziato dal quartiere residenziale, si differenziano nettamente da quelle residenziali e, disposte nel piano immediatamente vicino alla fascia pedemontana e lungo questa, fra il piano e il monte, si concentrano soprattutto negli attuali comuni di S. Antonio Abate, S. Maria la Carità e nella zona collinare di Gragnano, Casola e Lettere e sembrano disporsi lungo gli antichi assi viari che in gran parte sono ricalcati dalle attuali vie di penetrazione dalla costa verso l'interno.
Fino ad oggi sono state individuate oltre 40 ville rustiche che rivelano un occupazione capillare del territorio con piccole e medie aziende produttive. E' impossibile tuttavia precisare quanti e quali dovettero essere i fondi tenuti dai capitalisti patrizi e cavalieri stabiani, e se questi fossero stati tutti di Stabiae o provenissero dalle altre città e dalla costa retrostante: la scarsità dei reperti archeologici concernenti la parte valliva non consente infatti di far luce sui proprietari dei fondi.
Questa realtà ricca ed articolata subì una brusca interruzione il 23 agosto del 79 d.C. quando l'eruzione del Vesuvio ne comportò il completo obliteramento.
L'eruzione del Vesuvio del 24 agosto del 79 d.C., la città subì la stessa sorte di Ercolano e Pompei, rimanendo seppellita dalla lava del Vesuvio: la pioggia di cenere e lapilli coprì Stabia di uno strato che in alcuni punti raggiungeva oltre dieci metri di altezza, causando anche la morte di Plinio il Vecchio presso la villa stabiana del suo amico Pomponio.
Questa catastrofe non cancellò definitivamente la vita in queste zone: a differenza di quanto avvenne per le altre zone vicine la vita a Stabiae riprese dopo poco; la sua posizione geografica era tale che fu necessario sgombrare le strade per ripristinare i collegamenti terrestri.
Avvalendosi della costituzione introdotta nelle città italiche da Augusto, dopo la catastrofe del 79, Stabiae rinacque: gli stabiani riedificarono le loro case non più nella zona orientale, ma in quella opposta, verso le colline, ricche di vigneti, agrumeti, boschi di castagni, ulivi, abeti e verso la costa dove furono riattivati gli antichi cantieri di costruzioni navali e venne dato maggior impulso alla pesca e ai traffici marittimi. Un sepolcreto sotto la cattedrale di Castellammare, le cui tombe, databili dal II al VI sec. d .C., poste al di sopra del livello eruttivo del 79 d.C. lungo la via per Sorrento-Capo Ateneo, indica, dopo l'eruzione, una rinascita e uno spostamento del centro abitato verso la zona ricca dell'acqua che scaturiva dalle sorgenti, la più ricca delle quali, detta Fontana Grande, sgorgava da una grotta che formava quasi un piccolo lago a poca distanza dal mare.
Anche se cessò di vivere come municipium, non cessò d'essere conosciuta come centro commerciale di rilevante importanza, grazie al suo porto che continuò a offrire ricovero alle navi di maggior tonnellaggio rispetto a quello di Pompei, adatto a ricevere soltanto barche; dopo alcuni decenni dall'eruzione, la via Nuceria-Stabiae fu liberata dai lapilli ed è verosimile che le navi che approdavano ai lidi di Stabia per rifornirsi d'acqua, imbarcavano per lo più i prodotti agricoli dell'area retrostante.
Stabiae, dunque, ripreso il suo posto fra i centri importanti della Campania, fece parte delle province dipendenti dal vicariato di Roma, dette Suburbicarie e governate da un Consolare soggetto all'autorità di Roma.
Stabia risorse e, grazie alla rinomata bellezza dei suoi paesaggi, al suo clima e alle sue acque, come un tempo aveva richiamato gli antichi abitanti, dopo l'eruzione riattivò l'afflusso dei forestieri: Galeno vide in Stabia la stazione climatica ideale per l'aria asciutta, per i pascoli salutari alle greggi, per il luogo poco distante dal mare, per le erbe medicinali fiorenti sulle pendici dei monti Lattari, come la sanguinaria, la melissa officinalis, il corbezzolo, e soprattutto per il grande potere curativo che avevano le sue acque.
La legislazione del periodo di Diocleziano e Costantino, dal III secolo al VI circa d.C., rese assai dura la condizione in cui vissero i contadini dell'entroterra stabiano: in quel clima di sofferenze e di prevaricazioni essi continuarono a condurre il proprio o l'altrui campo esclusivamente a beneficio della classe senatoria, patrizia ed equestre. Tra il III e il IV sec. d.C. esisteva in Casola, in località Gesini, un insediamento romano italico, come attesta la necropoli risalente a questo periodo.
Dopo il frazionamento dell'unità romana, si formarono dei territori tesi a diventare sempre più liberi ed autonomi.
Nei primi secoli dopo la caduta dell'Impero romano col nome di Stabiae si designava ancora un vasto territorio comprendente anche questo paese, i cui segni economici si scorgevano sulle pendici dei Lattari e specialmente lungo la strada che conduceva a Nocera; inoltre, come località ad esso appartenenti, rientravano le terre dei futuri Castelli di Lettere e di Gragnano.
La religione cristiana si diffuse presto a Stabia, fin dai primi tempi apostolici, attraverso le vie dei traffici marittimi.
Dei primi tempi della diffusione del Vangelo a Stabiae ci sono giunti pochi, ma importanti documenti: nel primo tratto della strada per Equa e Sorrento c'era la via dei sepolcri nella quale nel II sec. a.C. erano allineati, secondo l'uso del tempo, bellissimi sarcofagi. Frammenti di sarcofagi, di pietre tombali, di lapidi marmoree, venuti alla luce rivelano, accanto a tracce del culto pagano, il lento, ma progressivo diffondersi del cristianesimo.
Stabiae era già diocesi sul finire del V secolo, quando il suo vescovo Orso, il primo di cui si abbia notizia, fu chiamato a Roma per partecipare al Concilio celebrato da Papa Simmaco nel 499.
L'antica diocesi ricalcava l'antico territorio di Stabia ed ancora nel X secolo comprendeva le città di Lettere, Gragnano, il castello di Pino da una parte, Angri e Messigno dall'altra e scendeva sui confini di Sorrento dalla parte del Faito, cioè sull'odierna città di Vico Equense. Il centro di questa vasta diocesi era Varano dove nel luogo detto Stagli di sopra era ubicata la cattedrale dei vescovi Orso, Catello, Lorenzo e Lubentino.
Sempre agli albori del Cristianesimo risale la cripta di Grotta San Biagio.
Le Pievi di Lettere, Gragnano, Pino ricevettero dunque l'evangelizzazione dai vescovi della Chiesa Stabiana: agli inizi del Cristianesimo la Chiesa Vescovile era unica chiesa battesimale e, ancora nei secoli IV-V il Vescovo celebrava i ministeri, amministrava i Sacramenti, esercitava la cura delle anime e i fedeli non solo della città, ma dei vici e dei pagi della diocesi si recavano nella sede vescovile per ricevere i sacramenti; bisogna giungere al VI secolo perché i Vescovi che, in un primo tempo mandavano nei villaggi di loro giurisdizione presbiteri o diaconi ad evangelizzare le popolazioni, per il formarsi di vere comunità di fedeli, avvertissero la necessità di disporvi in modo stabile un presbitero.
Dopo il crollo dell'impero romano la città dovette subire numerosi saccheggi dovuti alle invasioni barbariche: fra il V ed il X secolo il territorium stabiano ed i suoi abitanti subirono le invasioni e l'immigrazione di popoli nomadi che attraversarono tutta l'Italia, abbattendo l'Impero Romano d'Occidente ed ogni ostacolo che trovarono dinnanzi.
Tra le varie popolazioni barbariche maggiore importanza ebbero gli Ostrogoti che riuscirono ad occupare gran parte dell'Italia meridionale ed operarono in Italia in funzione specialmente antiromana e antipatrizia. Nel quarantennio 527-67 la situazione cambiò sia per l'avvento di Giustiniano sul trono di Bisanzio, il cui disegno fu di far rivivere l'impero di Roma e di restituire alla classe dei potentiores quell'autorità e quella funzione che stavano declinando e che erano state causa di tante sciagure, sia per l'ambizione dei Goti di sottrarsi all'influenza bizantina. Fu a questo punto che i Bizantini vennero in Italia per scacciare i Goti.
La guerra greco-gotica (535-53) combattuta fra Goti e Bizantini durò a lungo e le battaglie decisive si svolsero nella zona compresa nel territorio stabiano, tra il rione San Marco di Castellammare, Varano, Lettere, la Saletta di Gragnano, S. Antonio Abate e le rive del fiume Sarno.
Questa guerra modificò radicalmente la condizione sociale ed economica delle regioni italiane e da questo momento la storia del territorio stabiano è collegata a quella del ducato di Napoli e della dominazione bizantina: nel 568 lo stato Sorrentino, sottoposto ai Bizantini, si estendeva dal capo di Minerva al fiume Sarno e si divideva in due regioni, la Sorrentina e la Stabiana, ma conservava una certa autonomia nella dipendenza di Napoli.
La caduta del re goto Teja, piuttosto che aprire un periodo di sicurezza e libertà, diede inizio ad un rovinoso e duro periodo di esoso fiscalismo che compromise la sorte del territorio e della sua popolazione. La ricostruzione dell'Italia, danneggiata nel lungo periodo della guerra gotica fu infatti soltanto un alibi: il denaro spremuto ai contribuenti non fu reinvestito in opere di ricostruzione, e, per la riscossione delle tasse, il governo sguinzagliò un'orda di agenti fiscali ed i piccoli coltivatori furono obbligati a pagare un forte tributo, dazi e diritti di regalia sui fiumi e sulla navigazione, sulle attività commerciali, sui prezzi e sui tassi d'interesse. In questo stringente sistema fiscale gli agenti trovarono il modo di ritagliare per sè buone fette di guadagni illeciti: con la loro rapacità, stabilirono un sistema tributario ancor più rovinoso di quello introdotto negli ultimi tempi dell'impero d'occidente, con la conseguenza che le campagne si depauperarono, le terre furono abbandonate e si profilò nuovamente il fenomeno del latifondo. Per questo motivo anche le popolazioni della Campania si ridussero a invocare la venuta di nuovi popoli tedeschi che avrebbero dovuto scacciare il dominatore parassita.
Nel 574 il Duca longobardo Zottone occupò Benevento. Da questo momento entrò in uso un nome del tutto ignoto fino al tempo dei Goti: la Liburia. Nella Liburia napoletana o settentrionale venne a gravitare il territorio stabiano insieme coi monti Lattari, ma Stabiae non era più detta villa, ma agro di Napoli.
L'arrivo dei Longobardi in Campania non segnò tuttavia la definitiva caduta del dominio bizantino sul territorio costiero: dopo un periodo di precaria pace si precipitò in una situazione di guerriglia costante rivolta verso le popolazioni indigene e questo comportò il ritiro delle guarnigioni greche verso la costa, e si formò così un ducato autonomo con capitale Napoli.
Il territorio stabiano costituì il confine tra il Ducato bizantino di Napoli e quello longobardo di Benevento occupato da Zottone. Per tale posizione dovette sopportare numerose conseguenze: a causa dei continui saccheggi la Piana del Sarno si spopolò ed il fiume, non cinto più di argini, straripò e rese la regione, un tempo fertile, maleodorante e selvaggia.
Durante l'invasione longobarda, la popolazione, per sfuggire alle violenze ed ai saccheggi dei Longobardi si rifugiò in luoghi dove era difficile l'accesso, sorsero così i borghi di Caprile, Aurano, Castello che aveva una posizione più vantaggiosa poichè era situato all'imboccatura del torrente Vernotico che segnava l'antica via che da Stabiae portava ad Amalfi; in quel periodo il vescovo di Stabia San Catello, per difendere le folle impaurite in fuga verso i monti edificò sul monte Faito una chiesa dedicata a San Michele, poi abbandonata nel XIX secolo.
Seguì poi una serie di battaglie o di spedizioni per iniziativa di Longobardi e Bizantini, di cui la più importante fu la spedizione di Radoaldo che in un primo tempo raggiunse il suo scopo e Sorrento cadde in potere dei Longobardi. Forse i Longobardi occuparono tutto il territorium stabiano, ma, non riuscendo a mantenersi sulla costa, in un secondo momento furono respinti nel retroterra e rimasero padroni soltanto dei monti. Nell'832 intervenne l'accordo noto come il Capitolare di Sicardo, concesso al duca di Napoli col quale si definirono i confini e talune condizioni di convivenza per i territori limitrofi. Sicardo, volle che si determinasse la sorte di Stabia e del retroterra, così da porre termine ad ogni futuro contrasto per il loro possesso. L'estensione del territorio era enorme e la sua latitudine era compresa fra le paludi ai piedi di Lettere e il monte retrostante, fra il territorio nocerino e il golfo del mare di Stabia e coincideva sostanzialmente con l'estensione della diocesi di Stabia.
Dopo l'anno 649 non si hanno più memorie di Stabia fino all'anno 850 forse per l'alluvione che la distrusse.
L'antica cattedrale della terza Stabia, distrutta dall'alluvione, era situata vicino alla Mensa Arcivescovile di S. Andrea d'Amalfi, nel luogo detto li stagli di sopra, detto Vetere, perché qui stava la vecchia città, la terza Stabia distrutta. Gli stabiani, scampati al funesto evento, costruirono a ricordo in località Trivione, in quel tempo territorio di Stabia, ora di Gragnano, una fontana sormontata da un teschio in marmo bianco e sulla fontana apposero una scritta che nel secolo XVIII era illegibile e diedero ai luoghi limitrofi il toponimo La morte. In seguito a questa distruzione della città, i superstiti stabiani abbandonarono le località dove era ubicata la loro città e ricostruirono un nuovo insediamento urbano sul colle che si estende da Scanzano a Pozzano e lì, in località Castello, cioè nel vallum del medioevale castello stabiese, eressero la seconda Cattedrale di Stabiae, ricordata nell'anno 857.
La sorte di Stabiae e del suo territorio durante le lotte fra Longobardi e Bizantini-Campani e le trasformazioni che si compirono, nella seconda metà del VII secolo, la parte interna del territorium dovette essere in possesso dei Longobardi. Poi si restrinse in seguito alla erezione della chiesa di Lettere e all'assegnazione dei terreni di Angri alla chiesa di Salerno.
Nel secolo IX i confini del Ducato Napoletano erano approssimativamente i seguenti: dal lago Patria fino ad oriente di Amalfi, con le città di Cuma, Pozzuoli e Sorrento, governate da Comites e Praefecti alle dirette dipendenze del duca napoletano.
Poiché tutta la zona costiera era in saldo possesso dei Partenopei, era logico pensare che ai piedi di questo bastione naturale, che sono i monti Lattari, i napoletani ritenessero indispensabile l'erezione di opere fortificate e punti di avvistamento per contrastare i nemici ed evitare che, superata la dorsale montana, irrompessero sulle città costiere di Amalfi e Sorrento.
Del resto le difese approntate si resero utili anche contro i saraceni: quanto a questi ultimi, le loro scorrerie costringevano gli abitanti costieri e dell'immediato retroterra a creare una salda linea difensiva. Perciò, sin da quel secolo, gli abitanti d'Amalfi, Sorrento, Napoli e Gaeta si organizzarono per resistere agli invasori predatori e crudeli che non ci pensavano due volte prima di far proprie le altrui masserizie e ridurre in schiavitù le genti sottoposte al saccheggio.
Contro l'imminente pericolo bisognava essere continuamente all'erta e dare l'allarme tempestivo alle popolazioni dominate da continuo spavento. Da qui la necessità di elevare torri e bastioni lungo la costa per l'avvistamento e l'avviso alle popolazioni in pericolo.
La cittadina di Stabiae elevò la sua torre di vedetta nell'odierno territorio di Lettere, perché questo era di sua pertinenza e la cittadina di Lettere non era ancora sorta.
L'arrivo delle orde barbaresche era dovuto alle continue lotte combattute fra Napoletani e/o Amalfitani, da una parte, e Longobardi beneventani dall'altra. Non potendo piegare il nemico, ora i primi, ora i secondi chiamavano in aiuto gl'infedeli. E questi accorrevano con beneficio della parte che li aveva mobilitati. Col tempo, però, essi andarono oltre la primitiva funzione, trasformandosi da alleati in occupanti. In una delle cronache del tempo si legge infatti che venuti, in un primo momento come schiere ausiliarie, successivamente si trasformarono in violenti occupatori.
L'anno 848 è indimenticabile per la valle del Sarno: qui, per il possesso della città di Nocera, si scontrarono le schiere napoletane e quelle del Principe di Salerno, sostenute dai Saraceni chiamati in aiuto: questi ultimi andarono oltre i fatti d'arme, asportarono reliquie, profanarono templi.
Contro costoro, il papa Giovanni VIII capeggiò una lega, sostenuta dallo sforzo di Amalfi e di Napoli; ma alla sua scomparsa il problema rimase insoluto e le popolazioni tirreniche indifese.
Le irruzioni saracene divennero sempre più frequenti e, come altrove, la zona fu sconvolta. La vita e l'aspetto delle campagne ne risentirono abbastanza; all'operosità subentrò l'inerzia forzata, alla popolazione successe la solitudine: secondo una cronaca del tempo ogni contrada non aveva più abitanti e lungo le strade raramente si vedevano viandanti e contadini nelle campagne.
Per queste ragioni si pose mano alla costruzione di torri e castelli là dove occorrevano, facendone incrementare il numero, che prima non era notevole.
Prima dell'arrivo delle barbariche schiere, le campagne erano piene di frutti e di contadini: si viveva, di quei tempi, quasi all'aperto, sotto il fico e la vite e nei propri campi. Ora non era più così non si combatté più in campo aperto, ma si pensò a costruire luoghi fortificati anche là dove prima non erano mai stati.
Quando poi non giungevano i Saraceni, la valle era minacciata dai Longobardi sempre in lotta col Ducato napoletano. E' rimasta famosa la scorreria del duca napoletano Bono (an. 832) nella nostra valle, ove, attaccate le schiere longobarde, ne incendiò l'accampamento riportando largo bottino d'armi e vettovaglie.
Fu, quindi, di questi tempi che gli abitanti della fascia costiera e dell'immediato entroterra lasciarono il piano e si rifugiarono nelle nuove torri del piano (Scafati) e del monte (Lettere e Pozzano).
Verso la fine del IX secolo la popolazione stabiese cercò di munirsi di efficaci mezzi di difesa contro le ormai fre quenti invasioni di nemici e gli sbarchi di corsari e pirati. A quest'epoca risale la costruzione del Castrum ad mare situato sullo sprone del colle ai cui piedi sgorgava la Fontana Grande: da questo castello la città ha tratto il nome, che compare per la prima volta in un docu mento del 15 novembre 1086 contenuto nel Codice diplomatico amalfitano.
Sulle alture collinari poste alle spalle di Stabia sorsero la torre di difesa stabiese, la gragnanese, l'altra di Pino e Pimonte e quella posta quasi a ridosso del mare, a Pozzano, detta per ciò castellum ad mare o castellammare.
Erano indistintamente chiamate castelli stabiesi e il territorio dove erano sorte era indicato come immediata pertinenza della cittadina di Stabia.
La rinascita della Campania agli inizi del X secolo è dovuta alla messa a coltura di nuove terre non solo per le condizioni di maggiore tranquillità dopo la diminuzione delle incursioni saracene, ma anche per lo sviluppo demografico: chiese rustiche e monasteri attrassero intere famiglie di contadini e di piccoli proprietari per cui pullularono di casali fortificati solo in parte per necessità di difesa contro nemici esterni: il castello infatti ebbe in Campania il carattere di centro di popolamento e di dissodamento e servì a fornire alla popolazione rurale un nuovo inquadramento politico e sociale; la stessa rete stradale della regione, in età romana caratterizzata da grandi arterie funzionali alle comunicazioni di Roma con i centri portuali, subì un frastagliamento in vie di raccordo tra i borghi ed un potenziamento delle vie che collegavano la costa con borghi e casali dell'entroterra.
Con il cambiamento delle condizioni politiche ed economiche, il territorium stabiano nel X secolo subì una serie di trasformazioni che partirono da Amalfi: in questo periodo infatti si affacciò sulla scena della storia del territorio stabiano il ducato di Amalfi. Entrando nella storia come nuova entità geografica e politica, il ducato amalfitano dovette fronteggiare i due maggiori fenomeni politici del tempo: le incursioni ungare e le scorrerie longobarde che costituivano un continuo pericolo che incombeva continuamente sul confine settentrionale della valle del Sarno dove Saraceni e Longobardi arrivavano di frequente: nel 950 i Saraceni tentarono infatti di arrivare ad Amalfi per via di terra ed il loro tentativo fu impedito dagli armati usciti dal castello di Gragnano in località Caprile che fu teatro di una cruenta battaglia per cui il luogo fu denominato la Carneficina oggi Carnicina.
Divenuta ricca col commercio, Amalfi voleva occupare il versante dei monti Lattari che si affacciavano sul Golfo di Napoli e voleva espandersi verso la piana del Sarno perché da un lato aveva l'esigenza di difendere il ducato dalle invasioni e dall'altro, senza i prodotti della piana del Sarno e i frutteti e le vigne del territorio di Gragnano, sarebbe stato impossibile vivere in tanti sulla angusta costiera. Gli amalfitani avevano intuito che il loro territorio necessitava, oltre che di una difesa imperniata sul mare che lo bagnava da un lato e sui monti che lo cingevano dall'altro, anche di una difesa strategico-militare costituita da castelli da costruire nei punti strategici delle varie località territorio dello Stato amalfitano. Era ancora vivo nel loro animo il sacco perpetrato nel 838 dalle soldatesche del principe longobardo Sicardo alla loro città.
Per queste ragioni, con negoziati ed acquisti, gli amalfitani attuarono l'ingrandimento territoriale del loro Stato con l'annessione di territori già parte di Stabia, indebolita anche grazie alla violenta alluvione cui, fra i secoli VIII e X, era soggiaciuta, divenendo i padroni dei castelli di Lettere e di Gragnano ed accrescendone man mano anche l'efficienza militare.
Il ducato di Amalfi, quindi, inseritosi pacificamente verso i Monti Lattari, con i suoi possedimenti quali le borgate di Pimonte, le Franche, il Castello di Pino, l'Agro di Agerola, le montagne di Positano e di Vico Equense, divideva il ducato di Sorrento dal territorio di Stabia.
I Prefetti Amalfitani avevano intuito inoltre che non era sufficiente alla difesa dello Stato il castello di Pino e, pertanto, eressero il castello di Lettere del quale si ha memoria nel 1018, avamposto della pianura nocerino-sarnese; quando agli inizi dell'XI secolo il castello di Pino fu invaso da orde nemiche costruirono verso il 1077 il castello di Gragnano, come avamposto di quello di Pino.
Il Castellum ad Mare, il Castellum Litterense ed il Castellum Gragnanense, originariamente unica unità amministrativa soggetta al Duca di Napoli e dipendenti da un unico vescovo, erano stati costruiti per impedire che Stabia, Sorrento ed Amalfi cadessero in possesso dei Longobardi, ma nel secolo X gli uomini di Lettere, Gragnano, Pino, Pimonte, si definivano già Cives Amalfitani per i privilegi loro elargiti dai Comites Amalfitani.
Il colle di Pino il primo ad essere munito dagli Amalfitani nel 949, per rendere più sicuri gli oppida di Gragnano e di Pimonte situati nella parte occidentale del loro ducato.
La stessa storia della Chiesa Vescovile di Lettere s'innesta proprio nel secolo X in quella della Chiesa Arcivescovile di Amalfi: alla fine del secolo X, il vescovado di Amalfi fu elevato ad arcivescovado e gli fu dato come suffraganeo, Stefano vescovo del Castro Stabiensi di Lettere. A Stefano, vescovo di una diocesi di nuova formazione, fu assegnato il municipium di Lettere con le chiese e con tutti i suoi annessi e connessi, il castello di Gragnano con tutti i suoi annessi e connessi ed il castello di Pino con tutti i suoi annessi e connessi, luogo detto Apud montes. Per legittimare la presa della torre stabiese intervenne una mossa diplomatica da parte della nuova repubblica marinara: come segno dell'accresciuta potenza della Città, alla creazione della Repubblica si fece seguire la creazione dell'arcivescovado amalfitano, alle cui dipendenze si vollero porre nuove diocesi suffraganee poste lungo la costiera e nell'area di Lettere. Per ciò qui sorse il vescovado e accanto alla torre si levò la cattedrale. Per tacitare la cittadina di Stabia della perdita subita si mandò a dirigere la nuova diocesi il vescovo Stefano, stabiese di nascita e di pastorale. Il primo vescovo dimorò nella torre patria (a. 984). La Chiesa Vescovile di Lettere fu intitolata S. Maria Trinitatorum, così la Chiesa Vescovile di Lettere, un tempo pieve della Diocesi Stabiana, fu fondata nel 988 ed ebbe sede presso l'antico castrum. Nell'antica cattedrale di Lettere celebrarono i Vescovi da Stefano dell'anno 988 a Filippo Fasio che, il 28 luglio 1570, ricevette un Breve da Pio V per il trasferimento del titolo della Chiesa Vescovile di Lettere in un luogo più idoneo, essendo l'antica cattedrale letterese scoperta, deforme, abbandonata e sede di ladroni.
Ma la vita della cattedrale e dell'annesso episcopio risuonò nei secoli anche delle liti che i Vescovi di Lettere sostennero con gli Arcipreti di Gragnano, garanti delle prerogative arcipretali, fino a giungere a negare l'obbedienza dovuta ai vescovi di Lettere.
Si trattava di luoghi che avevano fatto parte e continuavano a far parte del territorio Stabiano, ma l'appartenere ad Amalfi ecclesiasticamente nonché politicamente, almeno alla fine del X secolo, prova che tale territorio si era diviso in due parti e la diocesi di Lettere raggruppò il castello di Lettere, Gragnano e Pino.
Il territorio Stabiano rientrava nel ducato Napoletano, ma, come Gaeta, Sorrento ed Amalfi era semplicemente zona di dominio ducale. Per questo motivo il territorium stabiano, formatisi gli stati amalfitano e sorrentino, finì politicamente diviso fra l'uno e l'altro che lo avevano ai confini dei loro territoria: nel X secolo, quindi, la parte montana dei castelli fu occupata dalla Repubblica amalfitana, mentre il litorale, col suo castello a mare cadde in potere del ducato di Sorrento.
Gli amalfitani indicavano la torre di Lettere col nome di Torre della Patria (turris patriae) per indicare che proteggeva l'estremo confine amalfitano verso il golfo di Napoli e la vicina valle del Sarno.
Il ducato di Sorrento si separò dal ducato di Napoli nel sec. XI e nel 1053 il ducato di Sorrento aveva la stessa estensione dell'anno 568 e di esso faceva parte Stabia. Nel 1075 il ducato di Sorrento era sotto il dominio di Roberto il Guiscardo e quindi anche Stabia è sotto il medesimo dominio. Nel 1085, la zona costiera stabiana faceva ancora parte del ducato di Sorrento del cui arcivescovo era suffraganeo il vescovo di Stabia.
Con l'unione territoriale allo Stato amalfitano delle località di Lettere, Gragnano, Pino, Pimonte, già territori di Stabia, la vita religiosa degli abitanti di queste terre ebbe il fulcro nella Diocesi Amalfitana. Ebbero così vita le Arcipreture di Gragnano e di Pino, mentre soltanto nel 994 le terre oggi poste nel distretto di S. Antonio Abate cessarono di appartenere all'agro stabiano.
Lettere e Casola con i loro castagneti contribuirono molto a fornire il legname scelto ai cantieri amalfitani. Le genti di Casola, Lettere, Pino e Pimonte tentarono le vie del mare su navi amalfitane o salernitane.
Poiché la zona costiera era in mano ai partenopei, i napoletani ritennero indispensabile l'erezione di opere fortificate lungo i monti Lattari per impedire ai nemici di giungere ad Amalfi e a Sorrento, queste difese furono utili soprattutto contro i Saraceni che tentarono di raggiungere Amalfi, ma furono fermati dagli armati del Castello di Gragnano.
Ai principi del XII secolo, Sergio I, duca di Sorrento, riuscì ad estendere la sua egemonia su Lettere, ma non si sa se questo possesso sia stato duraturo.
La scarsità dei documenti non consente di seguire le vicende dei singoli luoghi abitati del territorium per cui si può concludere che, ferma restante una sua fondamentale divisione fra il Ducato Amalfitano e quello Sorrentino, non dovettero mancare temporanee modificazioni in tale ripartizione. Solo dopo ci sarà una certa influenza del ducato sorrentino sulla parte marina del territorio stabiese. In queste vicende storiche va segnalata la presenza dei monaci benedettini che ebbero una grande influenza sia nella vita politica che in quella privata grazie ai loro possedimenti terrieri a cui si aggiungevano le chiese, le ville e le corti.
Durante il periodo angioino, nel 1271, Carlo I donò Castellammare in feudo al figlio Carlo nella città fu fondato il monastero di S. Bartolomeo sotto la regola di S. Chiara.
Da questo momento la storia di Castellammare si saldò pienamente con la storia del regno.
Durante la lunga guerra del Vespro la città diventò spesso teatro di battaglie e di incursioni: durante il regno di Carlo II (1285-1309), il 23 giugno 1287 nel mare di Castellammare avvenne la battaglia tra le flotte di re Carlo e di re Giacomo d'Aragona. Per la parte di Carlo c'erano sei galee e dei galeoni; per la parte di Giacomo 45 galee e dei galeoni agli ordini dell'ammiraglio Ruggero di Lauria; inoltre per la parte di Giacomo c'erano siculi e catalani, dalla parte di Carlo c’erano francesi, provenzali, regnicoli. Il re Carlo perse la battaglia con 3300 morti fra cui Guido de Monfort e molti altri baroni e conti. Castellammare fu invasa dall'esercito di re Giacomo d'Aragona i nemici siculi, entrati in città, compirono il saccheggio.
Carlo II volle che nella zona più amena e tranquilla dei colli di Stabia sorgesse un edificio dotato di tutti gli splendori, da utilizzare quale luogo di riposo e di svago per sé e la famiglia reale, la Villa reale di Quisisana.
Poco lontano dalla riva del mare Carlo II fece edificare una Chiesa e un convento per l'ordine riformato di San Francesco. In seguito, il convento ospitò il Seminario diocesano, mentre della chiesa oggi demolita, fu conservata solo una cappella conosciuta oggi con il nome di Oratorio.
Durante il primo periodo angioino l'abitato fu cinto di mura, mentre il porto fu un sicuro approdo delle navi. Giovanni Boccaccio, nella sesta novella della decima giornata, descrisse la Castellammare trecentesca come una città ricca di ville e giardini, di ulivi, di castagneti e di noccioli.
Durante il regno di re Roberto (1309-1342) Castellammare divenne città demaniale, dopo essere stata per breve tempo feudo dei del Balzo e di Pietro, figlio di re Roberto; nel 1316 il sovrano la concesse al duca di Calabria che affannosamente la fortificò per timore che l'armata di Federico d'Aragona potesse giungere nel golfo, stimando Castellammare un punto delicatissimo di tutto il sistema difensivo della capitale.
Roberto amava tanto la città che ampliò ed abbellì la Villa reale assegnando la direzione dei lavori a Francesco di Vico e Ottone di Crespiano che terminarono l’impresa nel 1318: qui i re di Napoli cercavano riposo dal caldo estivo della capitale ed un rifugio dalle epidemie e dalle pestilenze. Durante le pause di riposo re Roberto amava abitare a Quisisana e spese a larga mano per la cappella della villa reale e fece sorgere accanto al palazzo un piccolo ospedale. Nel 1333 il re mandò a Quisisana tre cervi mentre, durante l’estate del 1337 fece trasportare molti codici da Napoli a Quisisana, perché amava circondarsi dei suoi libri preferiti.
Le attività commerciali intanto fervevano ed il porto di Castellammare non era secondo agli altri del regno quanto ad operazioni mercantili.
Nel 1336 un pericolo abbastanza costante per la città, la pirateria, si presentò: corsari siciliani si spingevano fino alle coste di Castellammare, danneggiando gravemente il commercio e nascondendosi nelle caverne che si trovavano lungo la costa sorrentina.
Nel 1343, sotto il regno di Giovanna I, la città fu occupata e saccheggiata da Raimondo Peralta per incarico di Ludovico d'Aragona, re di Sicilia; fu poi invasa dai mercenari ungheresi che, guidati da Luigi d'Ungheria, nemico della regina, imperversarono nell'intera regione con violenze e saccheggi.
L'epoca durazzesca (1382-1414) si aprì con la tragica fine di Giovanna I e con le conseguenti guerre tra durazzeschi ed Angioini per la successione del Regno di Napoli: Carlo III di Durazzo e Luigi, duca d'Angiò si scontrarono, mentre sul castello stabiese fu, momentaneamente innalzato il Vessillo durazzesco.
Nel 1385, Carlo III di Durazzo morì e con la sua morte ebbe inizio un nuovo periodo di lotta, di violenze, di provocazioni d’ogni sorta. Antiche animosità si ridestarono e nella lotta tra le due fazioni comparve la figura di La­dislao che aveva ereditato la corona paterna. L'improvvisa morte del padre l’aveva colto quando aveva appena nove anni e la madre Margherita, dovette prendere le redini del governo in un momento oltremodo difficile.
A sostenere la causa degli angioini giunse a Napoli Ottone de Brunswich che provocò, nel luglio del 1387, la fuga a Gaeta di Margherita e di suo figlio.
Castellammare, dove predominava il partito fautore degli Angioini, costituiva un importante nucleo, pericoloso per la causa di Margherita e di Ladislao, mentre Amalfi, la penisola sorrentina, Gragnano e Gaeta, si schierarono a favore di questi ultimi.
Le forze durazzesche attaccarono violentemente per mare e per terra Castellammare che, insieme con Gaeta e Capua, formavano punti strategici di prima importanza. La città resistette all'urto, anzi mise in fuga gli ar­mati sbarcati da quattro galee e cinque brigantini, pro­venienti dalla vicina Vico Equense.
Nell'ottobre del 1388 Ottone di Brunswich abban­donò Luigi II ed offrì i suoi servizi a Margherita e a Ladislao. Il 7 giugno Brunswich mosse da Scafati, con armati al soldo della regina Margherita. Il tentativo d'attacco riuscì infruttuoso, anche per il so­praggiungere improvviso di un furioso fortunale. Tre giorni dopo Pietro de Corona, ancora al soldo degli An­gioini, prontamente intervenuto a rafforzare il presidio della città, si scontrò con le forze di Ottone di Brunswich, riportandone vittoria.
Castellammare rimase così sotto il potere degli Angioini che presero anche Napoli il 9 luglio, instaurandovi un clima di terrore. Molti cittadini atterriti trovarono scampo con la fuga e taluni, arrivando nelle nostre contrade, vi portarono la triste novella. A Castellammare, il partito angioino, moralmente demoralizzato, fu sopraffatto e ben presto sul pennone del castello fu innalzato il vessillo durazzesco, tra feste e luminarie.
Sfruttando il malcontento che serpeggiava nelle file avversarie, Ladislao riuscì a rag­giungere risultati assai vantaggiosi. Ci furono defezioni in massa nelle schiere an­gioine. Pietro de Corona abbandonò il vessillo gigliato e si pose al soldo di Ladislao.
Anche il Castellano di Lettere, Franceschiello di Lettere, cedette e passò ai Durazzeschi. Per lungo tempo questi aveva tenuto quel castello in nome degli Angioini, rimasto poi lungamente inoperoso, senza soldo per i suoi armigeri maceri e affamati, per procacciare loro i viveri necessari, si era dato a taglieggiare e qualche volta ricorse anche al saccheggio e alla rapina, tale da essere ritenuto un capo di briganti. Il 2 aprile del 1392, assalì Castellammare difesa, per gli Angioini da Ludovico de Restajano. Il castello attaccato da terra e da mare dalle galee della re­gina Margherita, impossibilitato a sopportare l'assedio, dopo undici giorni capitolò e fu preso da Tom­maso da Seiano e da Filippo de Corona. Cinque galee durazzesche gettarono le ancore nel porto, ma il giorno successivo (20 aprile), al sopraggiungere di una forza na­vale angioina, composta da 10 galee e quattro galeotte, abban­donarono repentinamente le acque portuali, dileguandosi.
Franceschiello di Lettere fu costretto a fuggire e a riparare sui monti. Castellammare fu riconquistata dagli Angioini che ne riordinarono la difesa con rapidità, tanto che le navi della regina Marghe­rita, sopraggiunte il 28 luglio, furono accolte da una pioggia di verrettoni, e si videro opporre una strenua resistenza, per questo furono costrette a desistere dall'im­presa e a prendere il largo. Castellammare restò nelle mani degli angioini che la tennero in loro saldo possesso ancora per sette anni.
Infine Ladislao, nel luglio del 1393, all'età di sedici anni assunse di persona il comando del suo esercito e, partito da Capua, dopo aspra lotta s’impadronì di Aversa, di Nocera e di Salerno, riducendole in suo possesso, il 19 dicembre del 1394 era a Gragnano, da dove impartì ordini agli Amalfitani; successivamente, dopo la conquista degli Abruzzi e della Basilicata, si recò verso il Salernitano, per abbattere le ultime resistenze della potenza avversaria. Castellam­mare fu presa il 19 luglio del 1399 e subito dopo Napoli e l’Aquila, e così il 6 maggio del 1401 gli ultimi baluardi angioini furono definitivamente in possesso di Ladislao.
Il re, nel 1413, abitava il palazzo di Quisisana, e nel 1414 soggiorna nel castello della Torre della Marina, in Gragnano, da qui si recò a Perugia dove fu colpito da un male ribelle che lo costringe a ritornare a Na­poli, dove morì il 6 agosto dello stesso anno.
La regina Giovanna II, succeduta a suo fratello Ladislao, il 3 agosto 1419 concesse Castellammare, Lettere, Gragnano, Pimonte e le Franche in feudo a Giordano Colonna, principe di Venosa e di Salerno, ma il 7 agosto 1420, per la ribellione del feudatario, Castellammare ridivenne regio demanio ed il titolo di fedelissima per l'aiuto che gli stabiesi le avevano dato nella guerra contro Luigi III d'Angiò appoggiato da Muzio Attendolo Sforza, pertanto le concesse un privilegio in base al quale la città rimanesse per sempre in regio demanio, che non potesse essere venduta e che i suoi cittadini avessero cittadinanza di qualsiasi altra città del regno e specialmente di Napoli, con gli stessi onori e privilegi.
Castellammare subì molti danni in seguito alla guerra di successione, scoppiata tra Renato d'Angiò e Alfonso d'Aragona, che terminò nel 1442, con la vittoria degli aragonesi.Nel gennaio del 1437, il principe Alfonso concesse in feudo Castellammare insieme con Pimonte e le Franche al Gran Camerario del regno Raimondo de Perellos. Nel 1438 Castellammare è feudo di Isabella di Lorena, moglie di Renato d'Angiò.
In realtà si trattò di una modificazione di nome, prodotta dalla erezione di un castello, esistendo già o come Stabia o, ancora meglio, come facente parte del suo territorium un agglomeramento di case sorte vicino al mare. E' da riportare al secolo XI il terminus a quo di tale trasformazione. Se si tiene conto che alla fine del secolo X per castelli stabienses si intendevano soltanto Lettere e Gragnano apparirà logica l'ipotesi che quest'altro castello sia sorto in seguito e cioè nella prima metà del secolo XI. Ma è questa l'epoca della piena autonomia politica di Sorrento; e, poiché sappiamo che i castelli stabienses furono opera degli Amalfitani, signori del loro territorio, per analogia siamo tratti ad avanzare la seconda ipotesi che la costruzione del nuovo castello a mare risalga ai Sorrentini, desiderosi di difendere con esso la parte più vulnerabile dei confini del proprio Stato, che comprendeva la zona non amalfitana del territorio Stabiano.
Durante il regno di Alfonso I d'Aragona (1442-1458) il re, nel 1442, donò Castellammare in feudo a Raimondo de Pierleone, ma gli stabiesi, sulla scorta degli antichi privilegi, si ribellarono ed il re, il 5 maggio 1444, revocò l'infeudazione della città e le restituì gli antichi privilegi. Ridiventata regio demanio, Castellammare restò libera sino al 3 giugno 1507.
Alfonso I fece costruire una torre sulla spiaggia di Pozzano nel luogo detto «Portocariello» che da lui fu chiamata Alfonsina, fu aperta una strada per i monti che da Castellammare arrivava a Sorrento. Iniziò la costruzione di molte galee per ordine regio; una di questa si chiamò Castellammare ricca di decorazioni, di bandiere e di stemmi.
Non risulta però che re Alfonso sia venuto a soggiornare a Castellammare. Egli non mo­strò mai alcun interesse per la reggia di Quisi­sana, forse perché ebbe sempre una certa ritrosia a venire a Castellammare, sapendo che gli stabiesi non nutrivano per lui lo stesso affetto che avevano avuto per i re angioini, e, se si compiacque di confermare loro i famosi Ca­pitoli, fu per accattivarsene le simpatie e per tenerseli buoni.
Malgrado ciò, il sovrano commise l'erro­re che gli stabiesi non gli perdonarono mai, di favorire, in loro sostituzione, la penetrazione di elementi catalani, castigliani ed aragonesi nelle cariche di comando e in quelle amministrative.
Quando alla morte di Alfonso I, avvenuta il 27 giugno del 1458, salì al trono suo figlio Ferrante, la pace fu nuovamente turbata per le pretese degli Angioini sul trono di Na­poli.
Giovanni d'Angiò, figlio dell'ex re Renato, si accinse a riconquistare la per­duta eredità paterna.Partito da Genova nel­l'ottobre del 1459, il primo scontro campale con le forze aragonesi, avvenne alle foci del Sarno, il 7 luglio 1460: Ferrante fu clamorosamente sconfitto e a stento riu­scì a rifugiarsi a Napoli.
Castellammare fu presa dai francesi forse per il tradimento del castellano Giovanni Gagliardi, o, più probabilmente perché il partito angioino cittadino ebbe buon gioco nelle altre forze in difesa delle mura e ciò è più plausibile perché Ferrante, riconfermò castellano e governatore della città, il 10 aprile 1462, il presunto traditore.
La tradizine racconta che la Castellana, dall'alto delle mura aveva scorto fra le schiere un aitante cavaliere, e, desiderosa di averlo tra le braccia, di notte, avesse aperto le porte agli attaccanti.
Rinchiuso in Napoli, Ferrante, chiese ed ottenne truppe da Francesco Sforza, duca di Milano, da Alessandro Sforza, signore di Piacenza, da Giorgio Skandeberg, principe d'Albania e lo stesso Papa Pio II, inviò suo nipote An­tonio Piccolomini, con mille cavalli e cinquecento fanti ed alcuni pezzi d’artiglieria ad « espugnare Castello a Mare » tenuto in saldo possesso degli Angioini, « per la quale quelli del presidio, non fidandosi di difendere le mura, si arresero ». Era la settimana santa del 1461, quando castellammare fu presa e posta inaspetta­tamente a sacco. Tardivo ed inutile fu l'intervento del Piccolomini per fermare gli eccessi delle truppe.
Da Castellammare, i pontifici si recarono ad attac­care Scafati, che colta alla sprovvista si arrese ad Antonio Piccolomini, per questo il re, quale premio gliela concesse in feudo, feudo che qualche anno dopo passò al di lui nipote.
Dopo altri scontri, con alterna fortuna, gli Angioini, anche questa volta dovettero abbandonare il vagheggiato sogno e nel 1464 definitivamente lasciarono, sconfitti, il suolo napoletano.
Alla morte di Ferrante il 25 gennaio 1494, gli successe suo figlio Alfonso II, che non fu re neppure per un anno. Quando l’esercito fran­cese, guidato da Carlo VIII nel 1495, invase il reame Alfonso si affrettò ad abdicare in favore del figlio Ferrante II.
Ma i francesi, superando rapi­damente e facilmente lo schieramento difensivo arago­nese, fecero il loro ingresso in Napoli e Carlo VIII assunse il titolo di re di Sicilia.
Alla notizia che Carlo VIII si avvicinava a Napoli gli Stabiesi, provati dalle precedenti vicissitudini, con il ricordo del sacco subito anni addietro per opera delle truppe del Piccolomini, impauriti abbandonarono le loro case e andarono raminghi per i monti e, appena il sovrano invasore arrivò nella capitale, subito una delegazione partì da Castellammare per giurargli fedeltà.
Sul finire di maggio del 1496 Carlo, richia­mato in patria da altri interessi, riprese la marcia di ri­torno. Subito dopo le truppe di Ferrante II, guidate dal generale Consalvo di Cordova affrontarono le schiere del presidio fran­cese le costrinsero a ca­pitolare e così sfumarono gli ambiziosi piani del monarca d'oltralpe.
Castellammare dal 1464 al 1494, per il tacere delle armi, godette felici giorni. Ferrante si era adoperato a rialzare il paese dalla depressione eco­nomica: si svilupparono tante piccole industrie della lana e della seta e la coltura del gelso e del baco da seta ebbero maggiore impulso; si aprirono botteghe di tintorie e cardatrici, e l'artigianato dei ber­retti, le cosiddette «coppole», divenne fiorente; carbonai e tagliaboschi si moltiplicarono e, dai monti del Faito, era portato a valle il legname necessario per alimentare l'industria navale che assunse proporzioni considerevoli. Naviglio mercantile era commesso nei numerosi cantieri, quivi allestiti. Anche Francesco Coppola, conte di Sarno, si prodigava ad aprire sempre nuovi sbocchi commerciali, si servì delle nostre maestranze. Fu proprio in questo periodo che, alla costru­zione di navi mercantili, si unì anche quella delle galee. I vini pregiati pro­dotti nelle feconde terre, alimentavano l'industria delle botti e degli arnesi agricoli. La media borghesia, con mentalità nuova cresceva e tentava di fondersi con la nobiltà cittadina, numerica­mente modesta, e a questa classe nuova, si deve la creazione di quelle basi solide che portarono l'economia del paese ad un livello soddisfacente, procurando lavoro e armonia nella cittadina.
La popolazione crebbe in numero e la città si arric­chì di nuove case. Genovesi e fio­rentini, avevano interessi commerciali da tutelare a Castellammare.
In seguito all’accordo di Granada, stipulato tra Luigi XII di Francia e Ferdinando il Cattolico, Napoli fu occupata dai Francesi.
A Castel­lammare si erano formati due opposti partiti uno fran­cofilo, più forte numericamente, ed un altro più modesto fedele alla decaduta dinastia ara­gonese. I partigiani di questa monarchia, temendo le rappresaglie dei Francesi, al loro sopraggiungere, abbandonarono la città, raggiungendo per mare e per terra Vico, ove furono accolti, in virtù di un patto di mutua assistenza, stretto il luglio del­ 1501 tra le università di Vico, Sorrento, Piano e Positano, rimaste fedeli a Federico d'Aragona.
Nel luglio del 1501, quaranta famiglie sta­biesi si rifugiarono in Vico, dove furono accolte frater­namente, anche in seguito ad un accordo stipulato tra le Università di Vico, Sorrento e Piano, che prevedeva di accogliere nelle proprie città i fuggiaschi di Castellam­mare e di altri luoghi vicini.
Il 24 luglio, però, malgrado Vico opponesse all'assalto dei francesi una vigorosa e fiera resistenza, di fronte ai ripetuti assalti di preponderanti forze, fu co­stretta a capitolare. La lotta continuò ancora per giorni e i coalizzati della penisola sorrentina sostennero l'urto degli avversari, finchè le fanterie francesi non vinsero, e il 4 agosto, tutto il territorio da Castellammare a Capo Minerva fu ridotto completamente in soggezione di Luigi XII.
La vittoria finale della guerra franco-spagnola arrise agli Spagnoli che, divenuti padroni di Napoli nel 1503, instaurarono il lungo periodo viceregnale che durò oltre due secoli, sino al 1734.
Nel 1506 fu fondato, su mandato dello stesso S. Francesco di Paola, il Santuario ed il convento di Santa Maria di Pozzano.
Durante il regno di Ferdinando il Cattolico (1507-1515) il 3 giugno 1507 Castellammare fu infeudata dal re alla sorella Giovanna III d'Aragona, vedova di Ferrante I, e le appartenne fino alla sua morte il 7 gennaio 1517.
Il 5 aprile 1517 la regina Giovanna IV concesse ancora capitoli e grazie a Castellammare. La città restò in suo potere sino alla sua morte, il 28 agosto 1518. Giovanna IV non aveva eredi diretti ed i suoi beni, per testamento, furono ereditati dalla nipote Isabella d'Aragona, Duchessa di Milano per il suo matrimonio con Giangaleazzo Sforza. Castellammare, in tale occasione, passò al demanio regio, diventando libera, anche se vi fu una lite giudiziaria tra la città e la duchessa di Milano che ne pretendeva il feudo.
Quando nel 1516 Carlo V ricevette il governo dei vasti possedimenti spagnoli cui si aggiunsero nel 1519 i possessi di Casa d'Austria, con i diritti della corona imperiale, la straordinaria potenza raggiunta da Carlo preoccupò Francesco I di Francia ed un nuovo conflitto apparve inevitabile fra le due monarchie.
Ovun­que furono intensificati i preparativi di guerra, così a Castellammare, chiave di volta del sistema difensivo del golfo partenopeo e, nel 1520, Carlo V fece rinforzare le mura e munire di bombarde il castello.
La guerra scoppiò nel 1521 e l’Italia divenne il principale campo di lotta.
Nel 1527, le forze spagnole furono sconfitte per mare e per terra e Napoli fu assediata dai francesi.
Nell'aprile del 1527 il conte Renato de Vaudemont, erede dei diritti dei re angioini sul Regno di Napoli, sbarcò nel porto di Castellammare e s’impadronì della città per conto di Clemente VII, portando distruzione e morte.
Agli inizi del 1528 Castellammare, investita dalle trup­pe di Gastone di Foix, visconte di Lautrec, luogotenente nel Regno di Napoli di Francesco I che aveva invaso il Regno, riuscì a resistere ai ripetuti assalti per alcuni giorni, poi attaccata e bombardata dal mare dalle navi di Andrea Doria, fu presa e Vaudemont ne diventò governatore, ma, subito dopo, una violenta epidemia di colera mieté numerosissime vittime. I Francesi ne fu­rono atterriti e anche il Lautrec non fu risparmiato dal morbo che infieriva funesto e che lo portò alla tomba nell'agosto, mentre Andrea Doria passò agl'imperiali, il che costrinse l'armata francese, a to­gliere l'assedio da Napoli, abbandonare Castellammare per prendere la via del ritorno in patria e così, rioccu­pata Castellammare dagli Spagnoli, fu concessa il 22 aprile del 1529 in feudo a Filippino Doria.
A turbare l'effimera pace che era scaturita dopo gli eventi narrati, papa Paolo IV, contrario alla dinastia asburgica, fomentava nuove discordie, favorendo la ripresa del conflitto tra le due opposte potenze. I francesi cercarono nuove alleanze, rivolgendosi per aiuti al sultano di Costantinopoli che stipulò accordi segreti con la Francia.
Quest’operazione favorì l’ingerenza nella penisola italiana, dei corsari turco-barbareschi, che in seguito portarono alle città rivierasche meridionali lutti e danni, assalendole e depredandole.
Nel 1534, Adriano Barbarossa, Gran Corsaro e Generale di Solimano, Sultano dei Turchi, con una potente flotta sbarca a Castellammare, dopo aver saccheggiato Capri ed Ischia. I Gragnanesi accorsi in aiuto degli Stabiesi riuscirono a ricacciare i Turchi.
Quanto sia durata la signoria del Doria non è noto, certa cosa è che nel 1535 Castellammare apparteneva alla principessa di Salerno e che restò in suo potere fino al 18 luglio 1541, quando Carlo V, per il matrimonio di sua figlia Margherita con il duca di Parma Ottavio Farnese, vendette Castellammare in feudo a Ottavio per 50.000 ducati. Castellammare diventò così feudo della famiglia Farnese, pur continuando a seguire le leggi vicereali.
Nel 1542 il pericolo corsaro si profilò di nuovo: la città fu saccheggiata dal corsaro turco Dragut che, con le sue galee, approdò nel luogo detto Quartuccio (dal pagamento della quarta parte del valore della merce sui carri e sulle some che entravano in Napoli) saccheggiò la città e fece prigioniere ottanta persone. Una tempesta lo spinse sull'isola d’Ischia e qui gli stabiesi, con l'ingente somma di 12.000 ducati, ricomprarono i loro concittadini schiavi. Dragut fu scacciato dalla città grazie all'aiuto dei Vicani e dei Gragnanesi.
I corsari turchi ritentarono lo sbarco nel 1558 s’impadronirono di Castellammare e cercarono di nuovo di arrivare a Gragnano. I Gragnanesi insorsero e per prevenire le mosse dei Corsari, si avviarono verso Castellammare andando minacciosamente incontro al nemico. I Turchi sorpresi da tanta audacia e convinti che quel manipolo di uomini costituisse solo l'avanguardia di una grossa formazione, si ritirarono rinunciando così all'idea di saccheggiare Gragnano.
Il 7 settembre 1566 Ottavio Farnese comprò una casa dove si reggeva la corte, l'attuale Palazzo Farnese, l'elegante edificio bianco che si trova vicino al Duomo, successivamente utilizzato per gli uffici del Municipio, mentre lungo il lido sorsero torri d’avvistamento e di difesa, le cui tracce ancora permangono.
Nel 1561, sull'isoletta di Rovigliano, presso la foce del Sarno, fu costruita una grande torre di cui ancora oggi si possono osservare le poderose mura quadrate in pietra calcarea.
Nel XVI secolo fu edificato anche l'attuale duomo originariamente a forma basilicale, a tre navate.
Nel 1615 i Gesuiti costruirono la bella ed elegante Chiesa del Gesù con l'annesso Collegio.
Nel 1622 morì il feudatario Ranuccio I Farnese e gli succede Odoardo che morì nel 1647 e gli succede Ranuccio II.
Nel 1648 Arrigo di Lorena, duca di Guisa, comandante dei Francesi, chiamato dai Napoletani, aveva invaso Napoli il 13 novembre 1647 ed il 18 gennaio 1648 aveva creato governatore di Castellammare, Sorrento, Vico e Massa il genovese Giovanni Grillo. Il 6 aprile gli spagnoli ripresero Napoli ed il Grillo fu fucilato il 9 settembre. Il 13 novembre 1654 Castellammare fu saccheggiata dai Francesi guidati per la seconda volta dal duca di Guisa che entrarono per la porta della fontana grande. Il duca di Guisa prese la città dopo breve assedio e seguito da 50 cavalieri Gerosolimitani si portò al duomo, rese grazie a Dio con pubblica e solenne cerimonia, fortificò la città con nuove trincee ed a tutti gli stabiesi che non vollero rimanere in città diede ampio salvacondotto nel quale s'intitolava Viceré e capitano generale del re di Francia nel regno di Napoli. Il viceré spagnolo D. Garzia de Avellana fece subito occupare le montagne di Castellammare di Stabia per costringere il duca di Guisa alla resa ed in città fu apposto cartello con il quale si promettevano 30000 ducati a chi troncasse la testa al duca di Guisa. Questi subito abbandonò Castellammare il 26 novembre, ma i suoi soldati prima di partire saccheggiarono case e chiese.
Nel 1694 morì il feudatario Ranuccio II Farnese e gli successe Francesco Farnese.
Nel 1727 morì il feudatario Francesco Farnese.
Castellammare, feudo della famiglia Farnese dal 1541 al 1731, passò in feudo a Carlo di Borbone, Farnese per parte di madre e nel 1737 tutti i beni farnesiani furono incorporati, per la loro amministrazione, con la qualifica di Beni Allodiali, cioè di beni che il Re possedeva a titolo di proprietà privata e non come Capo dello Stato. Anche Castellammare subì simile sorte, e mantenne questo stato sino all'emanazione della legge del 2 agosto 1806 con la quale Giuseppe Napoleone Bonaparte, abolendo del tutto la feudalità, restituiva, fra le altre, anche a Castellammare la condizione di città libera.
Con il regno di Carlo III di Borbone iniziò un periodo di tranquillità e prosperità per Castellammare: il re fondò una fabbrica di cristalli nel luogo detto Cristallina; il 7 giugno 1749 iniziarono gli scavi dell'antica Stabia, sepolta dall'eruzione del Vesuvio, scavi che proseguirono fino al 1782 sotto la direzione dello spagnolo Joachin Roch d'Alcabierre, capo del genio militare e del tenente colonnello ingegnere Carlo Weber, svizzero e coadiutore; fu arricchito il Palazzo Quisisana.
Ferdinando IV, che predilesse Castellammare per le sue villeggiature, accrebbe la bellezza del Quisisana: i parchi furono arricchiti di piante rare, furono aperti viali, aiuole, piazzette e vennero installate fontane con sedili di marmo.
Nel 1783 re Ferdinando fondò a Castellammare il Regio Cantiere Navale, il primo del Regno di Napoli, mentre nel 1785 il porto venne ampliato e difeso da un forte munito da trenta cannoni.
Venne costruita nel 1886 l'elegantissima Villa Pellicano la prima, in ordine di tempo, delle raffinatissime ville delle delizie che sorsero sulle pendici di Quisisana.
Il continuo sviluppo della città rendeva ormai inutili le vecchie mura di cinta: perciò nel 1798, in occasione dell'apertura di nuove strade, in particolare quella lungo la marina del torrione del Quartuccio che, costeggiando il mare dall'attuale piazza Quartuccio, arrivava al quartiere dei cacciatori reali fuori la porta della fontana (le attuali vie Mazzini e Bonito), esse furono demolite. Fu conservata, come monumento di un'epoca passata, la porta del Quartuccio, presso la quale nel 1841 venne sistemata la statua del patrono San Catello, e venne inoltre risparmiato il cosiddetto Torrione, parte terminale delle mura edificate nel XV secolo da Ferdinando I d'Aragona. La torre nel 1824 fu compresa nel Palazzo dello Spagnuolo che ospita il Gran Caffè Napoli, nella Villa comunale.
Durante la rivoluzione del 1799, il 14 giugno i Francesi assalirono Castellammare e la saccheggiarono, essendo questa fedele ai Borbone. I cittadini fuggirono per i monti ed il saccheggio fu sospeso solo dietro il pagamento di 200.000 ducati, mentre nelle piazze si innalzava lo stendardo repubblicano.
Francesco I di Borbone aprì la strada nota col nome di Giro di Pozzano che, partendo dai cantieri navali, arrivava alla Basilica di Pozzano, al Castello e al Quisisana: questa via fu sostituita nel 1936 dalla nuova strada panoramica che, attraverso la collina, porta a Sorrento. Fu inoltre costruito, sulla destra del viale che porta a Quisisana, il Regio Teatro Francesco I che dal 1859 è diventato Palazzo Perna.
Nel Ferdinando II ordinò la costruzione di una strada costiera da Castellammare fino a Meta, strada che venne inaugurata nel 1834, nel 1835 fu fondata una scuola Nautica, abolita poi nel 1863; nel 1836 fu dato vita al tratto ferroviario Napoli-Castellammare inaugurato il 31 luglio 1842; aggiunse al vecchio porto un altro molo per l'ormeggio del naviglio militare.
Quando nel 1848 scoppiò la rivolta costituzionale a Palermo, il moto si propagò anche a Napoli, ed il 29 dello stesso mese il Re Ferdinando dapprima concesse la Costituzione, ma il 15 maggio, per prevenire gli eccessi del popolo armato, autorizzò l'intervento dell'esercito e ritirò la Costituzione.
Il 15 maggio a Castellammare una schiera di borbonici capitanati da un barbiere chiamato «Lafemina», gira per la città gridando «abbasso la costituzione e viva il re».In piazza fontana grande la schiera irrompe nel caffè di Francesco Cinquanella sottostante al palazzo del Gran Mogol e lo saccheggia, perché il Cinquanella era sospetto al partito borbonico, sono imprigionati alcuni cittadini perché liberali furono successivamente esiliati; nella schiera dei perseguitati politici c'erano anche Ferdinando Cosenza e Luigi Florio.
Nel 1860, con l'avanzata dei Mille, un gruppo di rivoltosi antiborbonici assalì il municipio ed il posto di polizia; anche nel circondario di Castellammare furono assaliti i posti di guardia, sia al centro sia in periferia: Pimonte, Corbara, ecc.
A Castellammare alla rivolta si rispose con un tentativo clericale e con un'azione di forza organizzata nello stesso Vescovado, per iniziativa di monsignor Petagna.
Nei mesi estivi a Castellammare i soldati borbonici reduci dalle battaglie della Calabria furono accolti nel Seminario diocesano, requisito dal Comune; ciò accrebbe il malcontento ed il disagio nel paese: la notte fra il 13 e 14 agosto una schiera di Garibaldini della brigata Medici imbarcati sul Tuherj, cercò di prendere il vascello Monarca; il 7 settembre gli insorti portarono in processione per la città il ritratto di Ferdinando Cosenza ed una scritta con il nome di Luigi Florio; l'8 settembre nel reale cantiere insorsero anche gli operai al grido di fuori gli infami; il 21 ottobre il vescovo Petagna fu invitato a lasciar libera la cattedrale perché era l'unico luogo adatto alla votazione per il plebiscito dell'unità d'Italia da parte di una speciale giunta cittadina costituita dal sindaco Raffaele Vollano, dai decurioni e dal comandante la guardia nazionale Raffaele Troiano; votarono 4.325 persone. Successivamente il vescovo Petagna, accusato di avere fatto imprigionare nei moti del 1848 dei carbonari che si erano rifugiati nella chiesa di S. Ferdinando di Napoli dove era rettore, andò esule prima a Marsiglia, poi a Parigi.
Nel gennaio del 1861 si aggrava la crisi economica provocando una disoccupazione di massa. Fu chiuso il regio Cantiere navale: per gli operai sembrò lontanissimo il settembre dell'anno precedente, quando avevano fatto luminarie e carri allegorici in onore di Garibaldi. L'industria tessile precipitava nella rovina completa; cessata la produzione della famosa robbia per la tintura delle divise borboniche, ormai non più richieste, anche se le guardie nazionali indossavano ancora la vecchia uniforme secondo le disposizioni dello stesso Garibaldi. La stessa crisi traversavano le industrie della canapa e della seta. Incominciò una serie di agitazioni che si protrassero fino ad aprile nonostante la dura repressione ed i numerosi arresti che furono effettuati ad ogni scoppio di malcontento popolare.
In questa fase la Guardia nazionale di Castellammare che aveva sedato i primi moti reazionari non era più sufficiente a contenere l'urto delle bande armate e come le altre guardie nazionali era del tutto priva di mezzi adeguati alla situazione. Essa però continuò a mantenere un certo ordine e una certa compattezza, fedele agli ideali patriottici e alle direttive degli organi polizieschi, prestando un buon servizio nel capoluogo con i quattro posti di guardia di Quisisana, Scanzano, Quartuccio e Cantiere e con le sue centinaia di militi volontari che provvedevano all'ordine pubblico in città ed in periferia.
Echi del brigantaggio si sentirono in un centro urbano come Castellammare ed in generale sui problemi connessi all'ordine pubblico, da sempre alterato dalla vivace presenza della camorra locale.
Il 29 aprile 1861 ci fu un assalto brigantesco al Casino Reale di Quisisana: quaranta individui si presentarono dal guardiano fingendosi poliziotti con l'incarico di eseguire una perquisizione; il guardiano aprì e fu aggredito e percosso, mentre le ricche stanze del palazzo furono saccheggiate; i briganti portarono via tutto quello che trovano di vasellame, di oro e di argento; anche la cappella reale è spogliata dei preziosi arredi sacri, un Bambinello d'argento, calici e pissidi; il danno fu calcolato ad oltre 6000 ducati.
L'episodio di Palazzo Reale creò sgomento tra i villeggianti che già avevano cominciato ad affollare la deliziosa contrada di Quisisana. Si cercò di correre ai ripari per tranquillizzare la gente, rafforzando le misure di sicurezza ed il Sottintendente prospettò l'esigenza di creare una nuova stazione di Guardie Nazionali alle Botteghelle.
Dalla primavera del 1861 sino all'autunno dello stesso anno infuriò sui Monti Lattari, tra Agerola e Pimonte, tra Gragnano e Lettere la banda Cavallaro, così denominata dal capo Antonio Cavallaro: a Schito i suoi briganti spogliarono un intero casale.
A parte questi episodi sporadici a Castellammare non c'era una situazione che desse eccessive preoccupazioni alla Sottintendenza: la minaccia all'ordine pubblico proveniva essenzialmente dalla camorra. Se erano giustificati i provvedimenti antibrigantaggio per garantire l'incolumità dei forestieri ed il loro afflusso, tuttavia la situazione non era così allarmante. Occorreva piuttosto curare la piaga dei camorristi, molti dei quali, approfittando degli eventi dell'autunno del '60, erano riusciti a concertare parecchie evasioni in massa dai luoghi di pena.
Il più pericoloso camorrista era considerato Michele De Simone, meglio noto come il Leone di Quisisana: vero e proprio terrore del vicinato: nell'aprile del '61 insieme con altri camorristi aveva aggredito e depredato sulle colline di Castellammare un certo barone Dachenausen, ricco villeggiante; la polizia era riuscita a mettere ai ferri il camorrista il quale poi era riuscito ad evadere insieme con altri dalle carceri di Pozzano; la sua latitanza non durò molto, infatti a giugno fu nuovamente arrestato con enorme soddisfazione di tutti compresa la stampa di regime che partecipò all'euforia per la cattura del pericoloso camorrista.
A novembre ci fu ancora qualche episodio di brigantaggio. A Scanzano un piccolo gruppo di uomini, guidato dai fratelli Michele e Gaetano Troiano, irruppe nella stazioncina di guardia, rubando i cinque fucili che vi si trovavano, mentre le guardie atterrite si nascondevano frettolosamente; alla fine i briganti, schernendo le guardie, si dileguarono con l'aiuto di due donne che avevano preparato l'agguato e del parroco di S. Nicola presso la cui abitazione si erano rifugiati gli aggressori. Il Casino di Quisisana venne di nuovo saccheggiato dai briganti ed il posto di guardia di Scanzano patì, in pieno giorno, una nuova devastazione da parte di una quindicina di briganti che, come al solito, distrussero ogni simbolo collegato al nuovo regime ed i ritratti di Garibaldi e di Napoleone III. Un milite nazionale fu portato via come ostaggio al grido di Viva Francesco II; Viva il Papa-Re!. Nel frattempo si diffondeva la notizia che Pilone stava per invadere la città.
In questo periodo nacquero illustri personaggi: nel 1846 Luigi Denza, nel 1850 Giovan Battista Filosa, nel 1855 Michele Esposito e nel 1859 Ettore Tito.
Dopo l'Unità d'Italia, Castellammare conservò la sua importanza grazie al suo cantiere, presso il quale nel 1876 fu costruita la prima corazzata italiana, la Duilio.
Coll'espansione demografica, la città comincia a estendersi oltre l'antica porta del Quartuccio. Siamo passati dai 15.000 abitanti del 1820 ai 22.000 circa del 1869. Oltre la nuova strada Marina, odierna via Mazzini si sviluppa la strada Spiaggia, che dopo l'Unità d'Italia assume il nome di corso Vittorio Emanuele. A lato dei palazzi già esistenti se ne costruiscono altri. Sono di riferimento estetico il palazzo Benucci, progettato dall'architetto napoletano Enrico Alvino e costruito nel 1843, e il maestoso palazzo Merenghini al n. 57, che nell'Ottocento ospitava l'Albergo Imperiale.
Il centro commerciale e turistico si sposta, se pur di poco, verso questa zona, che solo un secolo prima si trovava fuori le mura. Il largo Quartuccio diventava la bella piazza Principe Umberto.
D'estate Castellammare diventa un'affollata località turistica. Non mancavano avvenimenti straordinari che finivano sulle prime pagine dei giornali nazionali e che contribuivano a far affluire gente da ogni dove. Nel 1870 sono ospiti nella lussuosa villa dei principi di Moliterno alla Sanità, S.A.R. Umberto di Savoia e la consorte Margherita Savoia Genova. Il futuro re d'Italia è accolto da una città in festa, coi balconi impavesati. Il sindaco "omaggia" la principessa di un bouquet di camelie e, per l'occasione, l'isolotto di Rovigliano è tutto illuminato dal fuoco dei bengala. Nel 1873 è in visita di piacere l'imperatrice di Russia. L'8 maggio 1876, alla presenza del re Vittorio Emanuele II e di un nutrito corpo diplomatico, tra cui si distingue il rappresentante cinese, prende il mare la corazzata Duilio, la più potente nave da guerra del mondo, progettata da Benedetto Brin e costruita nel regio Cantiere. Nell'aprile del 1877 trascorre un breve periodo di villeggiatura nel famoso Hotel Quisisana Eugenia Montijo, imperatrice di Francia, vedova di Napoleone III. Nel 1880, sulle verande dello Stabia Hall, lo stabiese Luigi Denza e Peppino Turco compongono la celeberrima Funiculì Funiculà.
Per tutto l'Ottocento la città consolida la sua tradizione di località turistica à la page. I villeggianti accorrono soprattutto per le cure termali, molto in voga. Le terme vantano un assortimento di acque minerali unico al mondo. Nel parco si esibisce, per il pubblico diletto, un concertino di "dame viennesi" diretto dalla pianista francese Malvine Caneo. Si conduce vita mondana nello Stabia Hall e in alcune ville private, come Villa Moliterno (attuale villa Petrella), Villa Lucia del principe di Sant'Antimo, la Villa degli specchi ed infine la Villa Angelina del barone Mandatoriccio. Si viene da ogni parte d'Italia per passeggiare di sera sul bel lungomare o tra i platani della Giardini Pubblici, allietati dalle note che l'orchestra esegue dalla pedana della Cassa Armonica.
L'inizio del nuovo secolo comincia a Castellammare con un evento eccezionale: il 7 novembre 1901 si vara la corazzata Benedetto Brin, alla presenza del re d'Italia Vittorio Emanuele III e della regina Elena, che per l'occasione è stata designata madrina della cerimonia.
A Castellammare l'antesignano del nuovo stile liberty è l'architetto Eugenio Cosenza.
La città d'estate era talmente affollata di villeggianti di ogni nazione d'Europa che non può stupire la presenza di numerosi consolati esteri: quello austro-ungarico, quello francese, quello inglese, quello greco, quello spagnolo, quello olandese, quello paraguaiano, e perfino quello turco.
L’Hotel Stabia, l’Hotel Waiss e l’Hotel Quisisana sono stipati di turisti, come pure locande, pensioni e case private. Numerose carrozzelle effettuano corse a Quisisana, Monte Coppola, Faito, Pozzano, Vico Equense, Meta, Piano, Sorrento, Massalubrense, Gragnano, Pimonte, Lettere, Agerola, Pompei. Ogni mezz'ora è in partenza un tram per Sorrento.
Per la stagione balneare del 1910 le Antiche Terme si offrono gradevolmente rinnovate.
Fra le chiese ricordiamo per maggiore interesse Santa Maria dell'Orto, la Chiesa del Purgatorio e la chiesa della Pace.
Ora la città è una frequentata stazione idro-minerale e un luogo di villeggiatura. Inoltre è uno dei maggiori centri industriali dell'Italia meridionale ed è importante anche per l'agricoltura e il commercio.

Massimo Capuozzo

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