lunedì 14 maggio 2012

Raffaello e la pala Baglioni


Siamo a Perugia nei primi anni del ‘500 quando la nobile Atalanta Baglioni, commissiona ad un giovane Raffaello, che a Firenze aveva appena ammirato le opere di Leonardo e di Michelangelo, la realizzazione di una pala d’altare per la Cappella del Salvatore, nella chiesa perugina di San Francesco al Prato. Nasce uno dei capolavori del Rinascimento: La deposizione di Cristo.
Erano anni di violentissime contese cittadine per il potere che avevano insanguinato varie città italiane e che a Perugia avevano visto Grifonetto Baglioni, figlio di Atalanta, partecipare ad una congiura contro parte della sua stessa famiglia, trucidando il giovane Astorre Baglioni la notte stessa delle sue nozze e, in seguito lo stesso Grifonetto fu trucidato dalla fazione avversa. La madre Atalanta, che lo aveva maledetto per l’eccidio di cui si era macchiato, era accorsa alla fine accanto al figlio morente, perdonandolo e rendendo un tributo al proprio dolore di madre tramite l’opera di Raffaello.
Raffaello, allora poco più che ventenne, ma già molto noto e ricercato, si cimenta per la prima volta con un tipo di rappresentazione destinato a rimpiazzare, nella pittura italiana, l’interpretazione tradizionale: con la Pala Baglioni e soprattutto con La deposizione di Cristo, il giovane maestro inaugura, infatti, la stagione della narrazione storica dell’evento descritto, inserendolo in uno spazio prospettico dinamico, sottolineato dalla drammaticità della narrazione. L'elaborazione dell'opera segna quindi il passaggio da una figurazione statica ad una figura­zione dinamica, da una rappresentazione sacra ad una rappresentazione storica. Il soggetto stesso de La deposizione di Cristo serve a commemorare un evento storicamente accaduto: la tragica morte di Grifonetto Baglioni che, dopo aver sterminato diversi membri della propria famiglia, è a sua volta ferito a morte e spira, stringendo la mano della madre – particolare quest’ultimo riportato nel dolcissimo gesto della Maddalena ritratta nell’atto di sostenere la mano esanime di Gesù.
Quest’opera impegnò molto il giovane pittore per la grande complessità dello schema compositivo e della sovrapposizione dei piani narrativi: il gruppo della Vergine e dalle pie donne sulla destra in secondo piano, mentre il Cristo è trasportato su di un lenzuolo dai personaggi della narrazione evangelica. In uno dei portatori, la figura centrale del poderoso giovane portatore impegnato a reggere il corpo di Cristo e fissato in un incisivo profilo, si identificano comunemente le fattezze di Grifonetto Baglioni, mentre nella Madonna addolorata si identificano le fattezze della committente Atalanta Baglioni, madre di Grifonetto.
Il dipinto nacque come una Deposizione, ma in seguito Raffaello scelse il più dinamico Trasporto che gli permetteva di articolare il quadro in due scene: quella di sinistra con Giuseppe d'Arimatea, Giovanni, Nicodemo e Maria Maddalena e quella a destra, leggermente in secondo piano, con Maria, sorretta e circondata dalle pie donne, che sviene per il dolore. Sebbene il dipinto sia la somma di due temi iconografici distinti – una Deposizione e uno Svenimento della Madonna – l'artista lo propone come unità, collegando le due parti con il grande portatore a destra, che è, di fatto, la figura dominante, e al tempo stesso, quella che meno esprime un particolare affetto, anzi, egli appare come una figura palesemente «ideale» com'è suggerito dalla chioma investita da un vento che non tocca le altre figure. Questa figura «ideale» che domina le espressioni addolorate delle altre figure e che stabilisce tra i due episodi un'unità di tempo e di luogo che già riflette l'osservanza dei principi della Poetica di Aristotele, testo fondamentale dell'estetica del Cinquecento.
Per Raffaello, l'equilibrio tra umanità e natura – problema dibattuto nel trascolorante Quattrocento – non si ottiene soltanto nella contemplazione, ma anche nell'azione e nel dramma, pertanto si comprende chiaramente che, per muoversi in questa direzione, la guida etica di Michelangelo gli appaia più sicura di quella tanto raffinatamente intellettuale di Leonardo: il Cristo morto è una chiara citazione della Pietà di San Pietro, mentre la donna che sostiene la Madonna svenuta è una diretta derivazione del Tondo Doni. Il profilo dei monti, perfino le nuvole in cielo, seguono e ribadiscono il movimento delle figure denunciando il debito contratto da Raffaello con il mondo figurativo fiammingo, in termini di splendore cromatico, sottigliezza luministica, nitida evidenza ottica e di gusto della veduta paesaggistica e del dettaglio naturalistico.
Raffaello dunque conosce l’arte del suo tempo e ne trae spunto per creare un’opera forte, coinvolgente, quasi teatrale, se una critica può essere mossa al dipinto è che esso è rappresentativo di troppi stati d’animo: nelle quattro teste che formano un arco intorno al volto di Cristo morto, l'artista vuole manifestare quattro momenti o varietà del dolore, dolore che diventa schianto nella parte destra del dipinto. Ma ilpathos non deve giungere ad alterare il bello che costituisce il senso universale della sembianza. Quel bello che egli ha ritratto nella figura centrale del giovane « ... Grifonetto Baglioni col suo giustacuore trapunto, il berretto gemmato e i ricci in forma di acanto, che uccise Astorre con la sposa e Simonetto col suo paggio, e che era di una tale bellezza che, quando giacque morente nella piazza gialla di Perugia coloro che l'avevano odiato non potevano trattenere le lacrime e Atalanta, che l'aveva maledetto, lo benedisse » come lo descrive Wilde in Il ritratto di Dorian Gray.
È lui il personaggio principale del dipinto ed a lui affida il suo credo classicista.

La Cappella Cerasi e la Conversione di San Paolo di Caravaggio

La Roma in cui ha operato Caravaggio – siamo nell’ultimo scorcio XVI ed all’alba del XVII secolo – era un luogo ed un momento cruciale della cultura italiana: ancora dolorante per il traumatico scisma luterano, il Concilio di Trento (1545-1563) si era concluso con un’altrettanto brusca riorganizzazione teologica ed ecclesiastica, la Controriforma che, con le sue miserie e con i suoi splendori, segnò tutta la successiva evoluzione del cattolicesimo. Roma risplende del mecenatismo dei papi e si sviluppa, con sempre maggiore vigore, attraverso il regno di quattro importanti Pontefici: Clemente VIII Aldobrandini, Paolo V Borghese, Gregorio XV Ludovisi, Urbano VIII Barberini. Questo momento irripetibile durò circa un quarantennio, dal 1595 al 1635, e dagli avvenimenti accaduti in quest’arco di tempo dipese gran parte dello sviluppo artistico europeo che si protrasse fino alla fine del Seicento. Sull’onda del mecenatismo papale fiorirono le botteghe sempre attive, per soddisfare le esigenze di papi e cardinali, nonché delle loro famiglie.
In questa Roma, gravida di fermenti e ricca di botteghe, Caravaggio era giunto dalla Lombardia tuffandosi con la sua ribollente vita quotidiana in quella non meno agitata vita romana, campo di fazioni e tumulti, tenuti a freno da leggi taglione e da uno stato di polizia. Inizialmente Caravaggio conobbe momenti di miseria, lavorando con il Cavalier d'Arpino e con Prosperino delle Grottesche, finché non conobbe il potente cardinal Del Monte, che accolse Caravaggio nella sua dimora a Palazzo Madama gli commissionò numerosi dipinti e lo aiutò ad ottenere importanti commissioni come quella per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Nel palazzo di Del Monte Caravaggio buttaporò finalmente un periodo di tranquillità dopo le difficoltà finanziarie dei primi anni romani ed ebbe modo di entrare in contatto con gli intellettuali e con i mecenati più illustri.
Fra le commissioni di questo periodo c’è La conversione di San Paolorealizzata dal pittore per la Cappella Cerasi della basilica romana diSanta Maria del Popolo, autentico compendio dei vari secoli della storia dell’arte e dell’architettura.
Questa cappella, in origine fondata dal cardinale veneziano Pietro Foscari, fu fatta realizzare – come la osserviamo oggi – da Tiberio Cerasi, avvocato concistoriale, che, l’8 luglio 1600, per sublimare la sua ascesa sociale, l’aveva acquistata ed i frati agostiniani gli avevano concesso la facoltà di poterla edificare, elevare e decorare nel modo et forma che egli avesse voluto.
Autorizzato a rimuovere dalla cappella le sepolture già esistenti, Tiberio Cerasi chiamò allora tre grandi artisti, Carlo Maderno – che purtroppo morì pochi mesi dopo a lavori appena iniziati – per la realizzazione architettonica, Annibale Carracci e Caravaggio per la decorazione pittorica.
Sull'altare della cappella, Annibale Carracci dipinse una tela raffigurante l'Assunzione della Vergine fra angeli e santi, ai lati Caravaggio dipinse due tele, una raffigurante il Martirio di San Pietro e l'altra la La conversione di San Paolo: per queste due tele, Maurizio Calvesi ipotizzò che, in ottemperanza alla teologia agostiniana, il committente avesse voluto far rappresentare i "due poli del pensiero agostiniano" – l'Autorità, richiamata dal martirio di Pietro, e la Ragione, richiamata dalla vocazione di Paolo.
Le due tele furono dipinte poco dopo il ciclo pittorico di San Matteo, eseguito per la Cappella Contarelli della Chiesa romana di San Luigi dei Francesi, ciclo che può essere considerato l’immediato precedente delle due tele della Cappella Cerasi.
Ne La conversione di San Paolo, Caravaggio continua il suo percorso rivoluzionario, non solo nel suo originalissimo modo di trattare la luce, ma anche in quello di trattare l’ambientazione delle scene religiose: rinunciando ad una consolidata tradizione iconografica dove compaiono soldati spaventati e cavalli imbizzarriti – si ricordi l’arazzodi Raffaello, l’affresco michelangiolesco nella Cappella Paolina del Vaticano, la tela di Ludovico Carracci ed anche un precedente dipinto su tavola dello stesso Caravaggio – San Paolo non cade da cavallo lungo la via di Damasco, verso la quale si stava dirigendo alla testa di una legione di soldati romani per perseguitare i primi cristiani, ma il fatto miracoloso è ambientato nella penombra di una semplice stalla, una posta poco prima della città di Damasco, dove era diretto.
Caravaggio sceglie un’interpretazione inedita anche per il modello che impersona Saul: è un giovane imberbe, accuratamente vestito, in un abbigliamento dove nulla è lasciato al caso. Lo raffigura con abbondanza di rosso, consegnando allo spettatore in pochi tratti un fedele ritratto di quest’uomo, tutto d’un pezzo sempre all’altezza della situazione, sicuro di essere nel giusto, passionale e portato agli eccessi. Eppure una visione e Saul rimane folgorato. Caravaggio impedisce allo spettatore di vedere ciò che Saul ha visto, ma racconta l’evento come un fatto tutto interiore, capace però, diversamente dalla precedente iconografia, di imprimere sul volto di questo giovanissimo Saul un’aurea di pace.
La scena è priva di qualsiasi clamore miracolistico: l’episodio perde, infatti, il carattere di evento pubblico, per tradursi in chiave intima ed interiore si svolge al chiuso, di sera, in una luce attutita ed in assoluto silenzio, dove gli unici testimoni dell’evento soprannaturale sono il cavallo, che occupa inaspettatamente più della metà del dipinto, ed un anziano stalliere che a stento s’intravede sulla destra del dipinto dietro il collo possente del cavallo. Paolo è riverso a terra, rappresentato nell’istante successivo a quella «luce del cielo [che] gli folgorò intorno», abbattendolo al suolo.
Un’ambientazione poverissima, tanto spoglia da apparire ai contemporanei perfino irriverente.
La protagonista della scena è la luce: essa è, infatti, manifestazione della divinità, è teofania che squarcia la tenebra del paganesimo, dell’indifferenza, della persecuzione, della calunnia. È la luce che colpisce Saul che cade e tutto, ogni superficie, la riflette: il mantello vermiglio di Saul, il mantello pezzato del cavallo, i piedi del vecchio stalliere. Tutto è impressionato da quella luce e tutto riverbera da quella potenza. Non è tanto il puro significato simbolico che impressiona e che sbigottisce gli attori di questa scena e lo spettatore, quanto piuttosto l’inquietante realismo di un corpo non ancora completamente caduto, in cui si scorge ancora il moto delle gambe inclinate, delle braccia alzate, degli occhi accecati, delle palpebre serrate per difendersi da quella luce accecante. È il momento finale di un crescendo, tipico del pathos evocativo caravaggesco.
Un discorso a sé stante occorre per il cavallo in una posa singolare: l’unico testimone cosciente, ma impossibilitato a comunicare la dinamica dei fatti, è il cavallo con l’occhio aperto e rivolto al suo cavaliere, mentre lo stalliere è anch’egli accecato dalla folgore divina che ha colpito Saul.
La scena non presenta Cristo nel momento in cui chiedeva «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», la presenza della divinità è ancora più angosciata, resa nell’assenza, che ci fa percepire la fragilità di Paolo, emblema della “fragilità” umana che ancora non conosce Dio, di fronte alla soprannaturale maestosità del divino.
Qui la struttura compositiva del quadro si carica di significati più profondi: non a caso nella raffigurazione della conversione di Paolo è stato aggiunto un cavallo sebbene negli Atti degli Apostoli – in cui per ben tre volte si narra l’incontro di Paolo sulla via di Damasco con il Signore risorto – non si faccia mai accenno ad un cavallo. Eppure la rappresentazione del cavallo e della caduta a terra di Paolo ha una fortissima carica simbolica che, pur traducendo liberamente il testo biblico, ne permette piuttosto una comprensione più profonda.
Iconograficamente, la pittura e la scultura si sono infatti spesso servite del cavallo per dare un volto al potere smisurato, alla grandezza di un personaggio, alla statura morale, alla compostezza dell’autorità. Chi lo cavalcava, guardando dall’alto gli altri mortali, manifestava così la sua dignità superiore. L’arte ha ripreso questo simbolo in mille raffigurazioni dal Marco Aurelio, a Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini, ai dipintiequestri di Velázquez. Ancora una volta Caravaggio si serve in modo assolutamente personale del motivo iconografico: Saul è disarcionato, non cade semplicemente a terra, ma è sbalzato da ogni suo potere, da tutto il suo orgoglio, precipitando a terra. Dovrà imparare, lui così fieramente attaccato alla Legge e all’illusione che l’uomo abbia una forza tale da potersi salvare con le proprie forze, che niente può l’uomo senza la grazia di Cristo. L’uomo deve ricevere la salvezza, senza alcun merito, la deve accogliere come una realtà che non ha principio primo in lui. È l’interpretazione teologico dottrinale del Cattolicesimo postridentino. Deve ricevere l’amore per poter poi vivere di esso ed in esso. Solo in questo momento Saul di Tarso è diventato Paolo, l’apostolo delle genti.
Questa l’interpretazione di Caravaggio della controversa figura di San Paolo.

giovedì 10 novembre 2011

Il nuovo protagonismo dei philosophes italiani: dalla collaborazione alla rottura con i principi e l’utopia giacobina. di Massimo Capuozzo

La molteplicità di temi, di orientamenti comuni, di rapporti personali e di gruppo lega la cultura illuminata dei primi decenni del secolo a quella del medio ed anche tardo Settecento.
Il carattere specifico dei diversi momenti, si può ritrovare essenzialmente nel loro rispettivo radicarsi in diverse situazioni socio-storiche nel corso dei vari decenni del secolo e di conseguenza nel rispondere a sollecitazioni diverse ed in particolare, su un piano di rapporti fra le idee, di storia delle idee, nel tener conto di contributi nuovi, spesso di assoluta importanza – si pensi a Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Hume ecc.
Intorno alla metà del secolo e poi in seguito, proprio da quest'ultima circostanza deriva soprattutto una letteratura – sicuramente meno ricca di opere memorabili come la Scienza nuova o il Triregno – aperta piuttosto all'assimilazione critica, al dibattito, alla divulgazione, secondo un'ampiezza di interessi assai più rilevante che non in passato – economia, economia politica, pedagogia ecc. –, e legata strettamente alle esigenze ed alle richieste di una società in attiva espan­sione, specialmente in alcuni importanti nuclei urbani – Venezia, Bologna, Milano, Torino, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e altri minori – dove, nel corso del secolo cominciò a svilupparsi un ceto intermedio, variamente impegnato in attività funzionariali, imprenditoriali, commerciali, finanziarie. Questa classe in formazione – matrice della grande borghesia ottocentesca – si componeva in parte di plebei, di roturiers, in parte di nobili, e un suo tratto comune era appunto la richiesta di cultura non astratta, ma strettamente funzionale ai propri bisogni, di strumenti conoscitivi sia in relazione al suo ruolo sia sul sempre più rapido sviluppo delle scienze e delle tecniche. Si trattava di una «domanda» di cultura sostanzialmente nuova, rispetto ai primi decenni del secolo, e da essa derivarono alcune conseguenze di ampia portata nella letteratura del tempo:
·         In primo luogo il minore credito e spazio, riservati ad esperienze di pura invenzione, di assoluta creatività, esperienze che intorno alla metà del secolo si riducono, di fatto, vistosamente.
·         In secondo luogo, il nascere di nuovi generi, come il saggio di breve respiro, alla maniera di Algarotti, o il romanzo-saggio, alla maniera di Chiari, o il modificarsi di generi tradizionali, come la lirica o il poemetto, su cui per esempio Parini (si pensi al Giorno e alle prime Odi) compie, intorno al 1760, arditi interventi trasformativi.
·         Infine, il configurarsi di un uomo di lettere accentuatamente professional, sempre più libero da dipendenze cortigiane (altra cosa è ora il buon rapporto, spesso disinvolto, con i sovrani illuminati), molto attento all'anda­mento e alle richieste del mercato librario e giornalistico.
Se questi sono alcuni tratti strutturali della letteratura illuminata medio e tardosettecentesca, si può ancora notare come essa presenti un quadro ideologico fonda­mentalmente unitario, al di là delle complesse differenze di ambienti, di anni, di personalità variamente formate, di prospettive spesso divergenti quando non antitetiche. Si tratta di considerare la tensione alla raison come linea di forza dell'intera cultura dei Lumi e del tradursi di tale tensione in proposte e impegni di riforma, che non vale solo per i primi decenni, ma anche per la cultura illuminata del medio e del tardo Settecento, purché però subito si avverta come in quest'ultima si verifichi una «rettifica di tiro», certamente legata ai fenomeni strutturali appena richiamati: si passa in altre parole dall'esigenza di massima, spesso astrattamente speculativa, di investire della luce viva della «ragione» alcuni dati di fondo della realtà dell'uomo (l'e­sperienza storica, l'arte ecc.), alla cura di esplorare nei dettagli, con quella stessa luce, l'accidentato terreno dell'esistenza, sia individuale sia collettiva. Un impe­gno esplorativo che mira ora a tradursi in proposte ed in tentativi di «riforma» delle realtà investigate, nella prospettiva di una dinamica del mondo sociale e storico in atto, nell'idea che la varia realtà dell'esistenza – cose gruppi istituzioni – possa e debba modificarsi in meglio, procedere, «progredire».
Certo oggi sappiamo che la realtà delle cose è ben più complessa e contraddittoria e non ci è difficile renderci conto di come l'articolazione esasperata delle idee di ragione e di progresso rappresenti l'ideologia, mitica copertura concettuale di questo mondo europeo impe­gnato nella vicenda espansiva, e per esempio «di che lacrime grondi e di che sangue», di bianchi e di negri e di «selvaggi», l'affermazione del progresso in termini non solo teorici o verbali. E sappiamo anche riconoscere in che misura quella stessa articolazione abbia finito per produrre quel caratteristico atteggiamento mentale non certo venuto meno con l'età dei Lumi, e che oggi si è soliti appunto definire illuministico.
Tuttavia quelle prospettive medio e tardosettecentesche costituiscono non solo un'acquisi­zione di assoluto rilievo nell'intelligenza occidentale, ma anche un elemento decisamente centrale nella «dinamica di sviluppo» del secolo, a mezzo fra antico e nuovo, e fino all'età rivoluzionaria e poi napoleonica ancora ampiamente e profondamente coinvolto nelle proprie radici feudali.
Dalla seconda metà Settecento, l’intensificarsi delle iniziative riformiste da parte dei sovrani illuminati portò ad una più marcata dislocazione degli intellettuali italiani dai ranghi della Chiesa a quelli degli Stati.
Animati dal rinnovato senti­mento di missione sociale e civile cui adempiere, i letterati diventarono, ad imitazione di quelli francesi, philosophes, cioè cultori enciclopedici di discipline concrete — diritto, economia, amministrazione —, pronti a servire la causa delle riforme, al seguito dei principi illuminati.
Non si trattò ovviamente di un passaggio in massa, perché una parte dei letterati restò attardata su posizioni superficialmente arcadiche e accademiche. L’eccezione anzi riguardò «la grande maggioranza degli intellettuali – scrive Giuseppe Galasso in Potere e istituzioni in Italia del 1974 – legati alla cultura arcadica, alla vita di corte, alle antiche accademie e inaccessibili alla situazione politico-culturale determinata dalla rottura rivoluzionaria». Certamente però la parte migliore dell’intellettualità italiana passò all’Illuminismo.
Fra loro fu diffusa la convinzione della propria indispensabilità, ali­mentata dalla grande considerazione e dal grande favore accordati loro dai responsabili del potere politico. Come ai tempi dell’Umanesimo, infatti, gli uomini di cultura erano ricercati, contesi, adulati: Kaunitz, ministro di Maria Teresa, ad esempio, non nascose al conte Firmian la sua preoccupazione per l’invito rivolto da Caterina di Russia a Cesare Beccaria, lamentando la «penuria in cui siamo in provincia di uomini pensatori e filosofi». Ma più che al tempo dell’Umanesimo, i letterati ebbero la convinzione di contare di fronte ai principi, dando «consigli – scrive ancora Galasso nel citato volume – dei quali un governo avveduto, per il bene dei suddetti e del paese, non può fare a meno, perché sono i consigli della ragione illuminata».
Rispetto agli umanisti, i nuovi intellettuali avevano anche un’idea diversa della cultura, che non si fondava più sul primato petrarchesco della parola fine a se stessa, ma sulla capacità di divenire strumento per trasformare il mondo e quindi non per essere più tanto testo letterario quanto piuttosto saggio, inchiesta, ricerca sulle questioni dell’econo­mia, della legislazione, dell’amministrazione, scritti con intento di conoscenza, di educazione, di propaganda. Questo atteggiamento, del resto, era maturato già nei decenni precedenti e si trova lucidamente affermato da Muratori nel Trattato della pubblica felicità, scritto nel 1749, «un libro – come scrive Cesare De Michelis in Il mercato della letteratura in Con felice esattezza del 1998 – che insegna ad un mercante, ad un marinaio, a un giardiniere o agricoltore, ad uno speziale, ecc. il suo mestiere col meglio di quell’arte che cento libri di secca filosofia, di smilza erudizione e di poesie poc’altro contenenti che infilzate parole».
Ora quest’atteggiamento si accentuò fino a portare ad un autentico disdegno per la cultura fine a se stessa. Bisognava abbandonare «la vanagloria dell’astratta speculazione» scriveva Genovesi, e dedicarsi a fare gli uomini «meno contemplativi e più attivi». «Altra cosa è un uomo altra cosa un letterato», sentenziava senza appello Pietro Verri.
Tutto questo serve a spiegare in parte la relativa modestia, qualitativa e quantitativa della produzione letteraria vera e propria di questo pe­riodo e perché essa sia così spesso intinta di finalità pedagogiche e civili, come in Parini, o quanto meno di un bonario spirito di satira sociale, come in Goldoni, fa eccezione Alfieri, ma egli non era e non voleva essere un illuminista.
Fra i temi concreti agitati dagli intellettuali illuministi si fa largo quello della nazione italiana. Già nel primo Settecento, la parola «nazione» tendeva ad applicarsi prevalentemente all'Italia intera. Per gli intellettuali del primo Settecento si trattava, tuttavia, di una nozione priva di qualsiasi contenuto politico: nazione italiana era per loro l'insieme delle persone colte che intendono e parlano la lingua letteraria nata nel Trecento e codificata nel Cinquecento. In tal modo, comunque, si allargava il concetto di società italiana da quello ristretto di comunità dei letterati, che scrivono nella lingua di Dante, e del ristrettissimo pubblico delle corti a quello, più ampio, di «nuova classe colta nobiliare e borghese».
Ciò avvenne anche sotto lo stimolo del contatto e del confronto con la cultura francese che si dimostrava più compatta di quella italiana, grazie al supporto dell'unità statale.
Con l'Illuminismo l'idea di nazione italiana si evolse ulteriormente. Ora si tendeva a considerare italiani tutti gli abitanti della penisola, anche se non parlavano italiano – sebbene stravagante come concetto, perché non si sa bene in che senso essi fossero italiani – e la parola patria che, ancora all'inizio del secolo, era riferita al luogo d'origine, cominciava ad estendersi all'intera penisola ed acquistava progressivamente una valenza politica. Non siamo d'altra parte, ancora, alla rivendicazione di uno Stato indipendente per la nazione italiana così di recente scoperta. È opportuno, infatti, ricordare che gli illuministi erano strettamente legati ai principi e in generale tutti professavano assoluta lealtà allo Stato particolare cui essi appartenevano e che servivano. Ma quando la collaborazione coi principi venne meno ed i soldati di Napoleone esibirono, armi alla mano, l'esempio trascinatore della «grande nation», l'idea nazionale in senso moderno (patria = nazione = Stato) nacque nella pubblicistica giacobina per poi consegnarla alle generazioni risorgimentali.
Per almeno due o tre decenni la collaborazione fra intellettuali e governi sembrava rafforzare nei secondi il senso della loro importanza ed indispensabilità. Per tutto questo periodo, come funzionari, consulenti, pubblicisti ascoltati, gli intellettuali collaborano attivamente coi governi più dinamicamente impegnati sul terreno delle riforme – cioè quelli di Milano, Parma e Piacenza, Firenze, Napoli – contribuendo agli sforzi intesi a superare le sopravvivenze dello Stato «cittadino» e feudale, a favorire lo sviluppo agricolo e le finanze pubbliche e ad affermare definitivamente il principio della laicità dello Stato contro le pretese della Chiesa. Questa partecipazione diretta degli intellettuali alla politica delle riforme spiega il relativo moderatismo degli illuministi italiani rispetto ai philosophes francesi, i quali, impossibili­tati a partecipare in prima persona alla vita pubblica, erano più facilmente tentati di assumere atteggiamenti estremistici.
Ciò è provato dal fatto che dove quella partecipazione e collaborazione coi governi non era possibile, lì si manifestavano le posizioni illuminate più radicali. È il caso del Piemonte dove «le punte più avanzate di quella cultura, Radicati, Giambattista e Dalmazzo Vasco, a differenza dei Verri e dei Beccaria – scrive Vitilio Masiello in Intellettuali e società nella tradizione culturale nazionale: modelli tipologici e codici assiologici del 1991 – si vedono relegati ai margini della vita associata [...]. E forse è proprio in questa loro posizione di intellettuali "sradicati" ed isolati la condizione dialettica così dell'estremismo e del radicalismo delle loro ideologie come di quella carica di amarezza e di ribellione che li caratterizza»; fin dopo gli anni '20 del secolo, Radicati aveva sottoposto a Vittorio Amedeo II un progetto che prevedeva «l'abolizione di ogni proprietà, le comunità dei beni, l'abbattimento di ogni autorità»; Dalmazzo Vasco, dal canto suo, cercava di realizzare una repubblica semisocialista nella Corsica insorta di Pasquale Paoli; suo fratello Giambattista scriveva un saggio in cui sosteneva calorosamente la necessità di distribuire la terra ai contadini.
Allo stesso terreno culturale appartiene anche l'astigiano Vittorio Alfieri, la cui appassionata ostilità al dispotismo regio però, più che eco dei nuovi tempi, è da considerare un fatto di attardato orgoglio nobiliare: «orgoglio e coscienza aristocratica – continua ancora Masiello –, senso della superiorità sua e della sua classe, classistico dispregio dei valori borghesi del vivere (associato all'indifferenza per i problemi concreti, sociali, economici e giuridici), spasmodica volontà di grandezza sono la base del titanismo alfieriano».
Diversa è la situazione degli illuministi della vicina Lombardia che, dopo «la fase astrattamente polemica e programmatica del Caffè», parteciparono in prima persona alla politica riformatrice dei funzionari asburgici. Se ne trovano i nomi più famosi fra quelli degli alti funzionari dello Stato: Pietro Verri e Cesare Beccaria facevano parte del Supremo consiglio di economia, Gianrinaldo Carli ne era presidente ed, in tale veste, possono mettere in atto e seguire le riforme da loro ideate e propugnate. «Chi lo avrebbe detto mai — commenta con compiacimento sorpreso Verri — che Pietro Verri, capo dell'Accademia dei Pugni [...] doveva essere successore di quei Magnifici to­gati!».
Anche chi come Parini si muoveva su un terreno strettamente letterario non si sottrasse agli impegni pubblici, come fece appunto l'autore del Giorno che, nel 1791, accettò di reggere la sopraintendenza delle scuole pubbliche. Ma anche Parini diede un tono decisamente moderato alla sua battaglia antinobiliare, poiché «il Giorno – dichiara Lanfranco Caretti in Parini e la critica: storia e antologia della critica del 1953 – non volle essere un atto di rottura col mondo aristocratico, con la società nobiliare, a cui in effetti era indirizzato e a cui offriva una terapia di riscatto e di salvazione».
Non meno direttamente impegnato — se non di più — il gruppo degli illuministi della Toscana dove Pietro Leopoldo I (1765-1790) sembrava intenzionato a spingersi fino alle soglie di un vero e proprio governo costituzionale. L'eccezionale buona disposizione del principe fece sì che quello toscano fosse un «illuminismo riformatore – scrive Franco Venturi in Da Muratori a Beccaria. 1730-1764 del 1969, primo volume della sua poderosa opera Settecento riformatore completata nel 1990 – pervaso dalla coscienza e dalla convinzione di avere nelle mani gli strumenti adatti all'opera» e che in Toscana la schiera degli illumi­nisti sia eccezionalmente nutrita. «La Toscana – scrive Guido Quazza in “La decadenza italiana nella storia europea. Saggi sul Sei-Settecento” del 1971 – è indubbiamente il vivaio più ricco fin dall'età precedente le Riforme, di "tecnici" intellettuali-amministratori, capaci di applicare la propria preparazione culturale all'attività quotidiana di governo» rispetto ai quali i letterati veri e propri rappresentano una categoria pressoché inesistente. È l'Illuminismo di Pompeo Neri che, dopo aver attuato a Milano il famoso catasto di Maria Teresa nel 1760, come consigliere di reggenza per le finanze giunge ad attuare la liberalizzazione del commercio dei grani, il censimento generale della popolazione, la legge sulle amministrazioni locali, la soppressione degli asili ecclesia­stici e delle manomorte; di Francesco Gianni, il più influente fra i consiglieri di Pietro Leopoldo che prosegue l'opera di Neri, di altri minori — Fabbroni, Rucellai, Tavanti, Paoletti — tutti più o meno ufficialmente inseriti nelle file dell'amministrazione leopoldina. Man­cano invece nella terra madre della poesia italiana dei letterati stricto sensu, il che denuncia una situazione ormai cronica di «scarsa fertilità della letteratura toscana – come scrive Walter Binni in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento del 1963 –, che rimane anco­rata ad una felicità di buona lingua e buona scrittura ... e resta chiusa a movimenti più forti del nuovo gusto fra Settecento-Ottocento, men­tre invece, con un singolare squilibrio fra cultura e letteratura, la Toscana appare fortemente impegnata nella prassi riformatrice di origine razionalistica e illuministica».
A Napoli la figura centrale della nuova cultura fu Antonio Genovesi che, dalla cattedra universitaria di economia, impartiva agli intel­lettuali meridionali una lezione di concretezza (il «vero fine della filosofia e delle lettere ... è di giovare alle bisogne della vita umana»). Attorno a Genovesi si formò un ampio gruppo di discepoli, il «partito genovesiano», che presentava al suo interno due orientamenti diversi, uno più moderato e direttamente impegnato nell'opera di riforma promosso dai Borbone e dal ministro Tanucci (G. Palmieri, G.M. Galanti, M. Dèlfico), l'altro detto degli utopisti, che nelle sue file ebbe come figure di maggiore spicco Gaetano Filangieri, il più vigoroso e deciso nella polemica antifeudale, convinto assertore della libertà e dell'eguaglianza. Da questo secondo orientamento uscì il generoso manipolo di intellettuali che diede vita alla repubblica partenopea spenta tragicamente nel sangue.
La collaborazione fra principi illuminati e intellettuali durò felicemente una ventina d'anni, poi entrò in crisi. Verso il 1775 i sovrani illuminati mostrarono una maggiore tendenza a fare da sé ed a trascurare la collaborazione degli intellettuali. Ora questi ultimi si accorsero che il loro potere contrattuale era, malgrado le illusioni, assai modesto e che, come sempre, essi sono dei profeti disarmati. Già quando Dalmazzo Vasco era stato arrestato a Roma, nel 1768, Pietro Verri aveva com­mentato amaramente: «La filosofia se non è armata di autorità deve celarsi e, se non lo fa, la persecuzione è sempre pronta». Ora la sensazione della propria impotenza si generalizzava.
In effetti, dietro gli illuministi non c'era il sostegno di una qualunque forza sociale. Essi non erano espressione di una classe – definita da W. Maturi in Interpretazioni del Risorgimento del 1962 «varia la composizione sociale e la maggior parte veniva dal medio ceto, ma vi erano anche nobili, preti, popolani: ciò che li univa era la cultura» – né volevano esserlo, nutrendo piuttosto l'ambizione di porsi come gli interpreti dei più veri interessi di tutte le classi e di tutti gli uomini: «Spogliatevi di ogni idea di ceto — aveva ammonito Verri — ; il ceto d'uomo dabbene è il genere umano». Le classi medie, peraltro le reali beneficiarie delle riforme, erano ancora troppo deboli e troppo poco consapevoli di loro stesse per contare qualcosa come forze sociali unitarie e per difendere l'inizia­tiva dei «filosofi». La nobiltà era ovviamente ostile e la massa anche, per motivi meno ovvi. In definitiva la forza di questi ultimi stava unica­mente nel bon plaisir dei principi e quando questo venne a mancare lo spazio dell'Illuminismo riformista si chiuse.
Del resto anche il successivo abbandono da parte dei principi delle velleità riformiste fu più un effetto della loro sostanziale debolezza sul piano degli equilibri sociali che non di sovrana volubilità. Certamente i sintomi e i presagi della bufera rivoluzionaria, che si preannunciava e si avvicinava dalla Francia, dovettero aver raffreddato più d'un entusiasmo, ma è anche vero che in taluni Stati, come a Napoli, la spinta riformista durò oltre 1’89. La verità è che i principi riformisti avevano preteso di rifondare i loro Stati senza assicurarsi il consenso di alcune forze sociali: avevano dato addosso al privilegio aristocratico, perché gelosi del loro assolutismo, senza stimolare una presa di coscienza e un sostegno consapevole da parte delle classi medie ed avevano finito per avere contro tutti, anche le masse popolari danneggiate dalla spinta capitalistica nelle campagne, dall'abolizione degli usi civici nelle terre ecclesiastiche e comunali e sobillate dalla propaganda reazionaria del clero.
Rimasti privi dell'appoggio dei principi, gli intellettuali si dimostrarono incapaci sia con le loro associazioni, clandestine e no – le accademie, la massoneria – sia con le loro asfittiche riviste a dar vita a un movimento politico in grado di proseguire il programma di ri­forme anche contro la volontà dei principi. Non mancò da parte loro l'appello all'«opinione» attraverso i giornali, e che questa «opinione» ci fosse davvero, che «il pubblico cioè rappresentasse ormai una realtà che era impossibile trascurare o ignorare», è provato dal fatto che i governi si videro costretti a rispondere con le stesse armi. Così «dal 1792 in poi, – come scrive Cesare De Michelis in Il mercato della letteratura in Con felice esattezza del 1998 – superata la sorpresa della rivoluzione, soppresse le voci scopertamente filofrancesi, si diffonde in Italia una vasta pubblicistica controrivoluzionaria, alla quale non manca, in più di qualche occa­sione, l'appoggio di settori più moderati dell'intelligenza illuministica e riformatrice». Così a questo punto l'illuminismo italiano svela la sua duplice anima, quella moderata—riformata e quella utopistica—rivoluzionaria. La prima nei travagliati anni che seguirono assunse una gamma di posizioni che andarono dalle posizioni francamente reazionarie di un Gianrinaldo Carli ad altre cautamente innovatrici, come quelle di Parini e di Verri che sedettero fra i moderati nella futura municipalità milanese. La seconda anima nutrì di sé i numerosi esperimenti giacobini del triennio 1796-99.
La stagione giacobina in Italia fu il frutto di un'illusione disperata: i rivoluzionari italiani pretendevano di vincere la loro rivoluzione «proprio quando la svolta del Direttorio stracciava definitivamente il giacobinismo francese». Ma non era comunque una battaglia assurda. Contrariamente a quanto suggeriva l'accusa autocritica di astratti­smo che Vincenzo Cuoco lanciò in seguito, la parte più intelligente degli intellettuali rivoluzionari comprese la necessità di associare le masse al loro sforzo rivoluzionario. Sul «Termometro politico della Lombardia» un «buon patriotta» ripeterà, con accenti che precor­rono quelli di Pisacane «finché avrà fiato: se volete far dei buoni patriotti nella gente ignorante e povera, adoperate lo specifico dell'interesse, non vi è altro mezzo al presente. Il metodo dell'educazione è eccellente, ma è troppo lungo»; mentre a Napoli Eleonora Fonseca Pimentel afferma la necessità di stabilire un collegamento con le plebi cittadine nella cui incomprensione vedeva «la ragione di nostri ultimi mali»: «la plebe diffida de' patrioti perché non gli intende». Della volontà di «andare verso il popolo» è testimonianza la fioritura del cosiddetto teatro giacobino, promossa da numerosi letterati rivoluzionari fra cui in primo luogo Matteo Galdi e Francesco Saverio Salfi in base alla convinzione, come afferma lo stesso Salfi, che i teatri andavano «considerati come gli organi più efficaci della pubblica istruzione».
È legittimo in definitiva parlare di un giacobinismo italiano che cercò l'alleanza con le classi subalterne e in particolare coi contadini e che «se non fosse stato conculcato dalla Francia direttoriale e napoleonica – scrive Armando Saitta in Ricerche storiografiche su Buonarroti e Babeuf del 1986 – avrebbe potuto realizzare la sua rivoluzione agraria».
Ma i francesi preferirono, appunto, mettersi d'accordo coi moderati; poi la fulminea riconquista austro-russa, sebbene effimera, giunse a fare strage del fior fiore del giacobinismo della penisola, quello napoletano.
Il quindicennio successivo, quello della dominazione napoleonica, fu per i letterati italiani un periodo di incertezza e di dubbio. Privi di autonomia, divisi sul giudizio da dare sul nuovo ordine politico e sull'uomo che lo personifica, sull'opportunità di opporsi o di collaborare, essi persero per alcuni anni la propria capacità di iniziativa. Fra i letterati la figura dominante fu quella di Foscolo che riassunse in sé le incertezze e le contraddizioni di tutti loro. La vita a Milano, centro focale dell'Italia napoleonica, non chi certo facile per chi, come lui, sapeva solo maneggiare la penna e la spada. Sebbene la capitale lombarda fosse una città culturalmente molto vivace l'ingegno letterario non diede da vivere a Foscolo. Perciò egli fu costretto a vivere del mestiere di soldato che lo coinvolse in vari fatti d'arme e lo obbli­gò a spostarsi in Italia e fuori d'Italia, sempre a corto di soldi perché la paga era scarsa, lo stile di vita megalomane e sregolato e, per di più, gravato dalle spese per l'edizione di opere che non si vendevano. Anche in questo la figura di Foscolo è esemplare della condizione del letterato, che comincia ora a liberarsi, ma ci riesce solo in parte, della sua secolare condizione di dipendenza economica. Foscolo potrebbe ingraziarsi il potere dispotico di Napoleone e dei suoi rappresentanti in loco. Il «regime» mostrava un atteggiamento benevolo verso gli intellettuali malleabili. La costituzione della repubblica italiana (poi regno d'Italia) prevedeva perfino che «l'organo primitivo della sovra­nità nazionale sia l'insieme di tre collegi elettorali, uno di "possiden­ti", uno di "commercianti" e uno di "dotti"». Ma Foscolo non era malleabile e nei Sepolcri c'è una trasparente satira contro i tre collegi:
«Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno
nelle adulate regge ha sepoltura
già vivo...»

e, già in sospetto per le sue idee radicali, continuò a rendersi sgradito per il suo spirito indipendente e per i suoi atteggiamenti di dissenso più o meno palese. In realtà le sue vedute politiche erano venute cambiando con gli anni e se in gioventù aveva nutrito idee democratiche ed ugualitarie, ora esse erano dileguate e, sebbene egli restasse convinto che le società siano sempre divise fra «gli oppressori e gli oppressi», fra «un aggregato di pochi che comandano per mezzo della spada e delle opinioni e di molti che servono», egli rinunciò a prendere le difese dei deboli ed affidò al letterato il compito di «dire il vero» perché ciò giova a rappacificare gli interessi degli individui (quindi, in definitiva, il letterato fa opera utile per il potere). L'ideale politico cui Foscolo restò più tenacemente affezionato fu quello della patria italiana, una e indipendente, sicché, a giusto titolo, la successiva generazione risorgi­mentale guardò a lui e ad Alfieri come ai propri precursori e padri spirituali.

domenica 23 ottobre 2011

Il ‘700: secolo della Ragione, della Tolleranza, delle Libertà di pensiero si chiude con la Rivoluzione francese di Massimo Capuozzo

Il Settecento, per tanti aspetti, segnò la nascita del mondo moderno, infatti, alcuni eventi aprirono nuove prospettive storiche e culturali: la rivoluzione industriale, il trionfo della ragione illuminista, la crescita della borghesia, la rivoluzione francese. Le grandi conquiste del pensiero scientifico e filosofico, rimasti nel Seicento fenomeni d'elite, ora rompono le barriere ideologiche e le diffidenze e divengono un patrimonio culturale comune.
L'opera di Newton fu decisiva: la sua formulazione della legge di gravitazione universale fu la base per un'idea che dominò nel Settecento, quella dell'universo-macchina, nel quale ogni elemento, fenomeno, fatto è un ingranaggio che è mosso e fa muovere altri ingranaggi. Il pensie­ro di Newton si diffuse rapidamente in Europa, anche attraverso opere divulgative indirizzate al pubblico più largo. Altre idee nuove nacquero dalle tesi del filosofo inglese John Locke, dal dibattito sulla tolleranza e dal pensiero politico di Montesquieu. Questi rielaborò la teoria contrattualistica – secondo la quale lo Stato traeva il potere da un contratto stipulato fra gli individui che ne fanno parte – e affermò il principio dell'indipendenza dei poteri legislativo, esecutivo, giudiziario.
Progressivamente, nel corso del secolo si diffuse un atteggiamento razionalisti­co nell'affrontare ogni problema che coinvolse strati rilevanti della borghesia europea e determinò il «tono» generale di tutta la cultura: nacque così l'illuminismo, il movimento europeo che co­nobbe il massimo sviluppo nei decenni tra il 1750 e il 1780. Esso trasse il nome dal compito chia­rificatore affidato all'uso critico della ragione: la ragione, patrimonio di tutti gli uomini, è in grado di sottoporre la realtà a un'analisi libera dai condizionamenti della religione, dell'autorità attribuita agli antichi o della tradizione, e può avviare un'azione di progresso per assicurare la «felicità pubblica». L'Illuminismo operò una rifondazione del sapere: le scienze che studiano la società, l'uomo, la natura e la tecnica conquistarono il centro dell'interesse. In nome di questi convincimenti gli illuministi lottarono per le riforme, la diffusione del sapere, il miglioramento delle condizioni di vita e per l'emancipazione da ogni atteggiamento dogmatico, dalla superstizione, dal fanatismo, dal pregiudizio. Essi portarono a compimento il processo di laicizzazione della cultura iniziato nel Rinascimento.
Su queste nuove basi teoriche si studiarono sia il corpo che le facoltà dell'uomo, le passioni, la vi­ta psichica; si «scoprì» l'infanzia, nel senso che si riconobbe il bambino come possessore di una propria personalità, con esigenze, bisogni, diritti diversi da quelli dell'adulto. Di qui l'ampio di­battito sul problema dell'educazione, nel quale emerse il pensiero pedagogico di Jean-Jacques Rousseau.
Protagonista dell'Illuminismo fu una nuova figura di intellettuale, il «philosophe» (semplice­mente «filosofi» vollero chiamarsi i pensatori illuministi), che riassume in sé gli elementi del nuo­vo ideale umano, le qualità morali, le virtù civili, la curiosità e la disposizione ad esplorare nuo­vi campi del sapere, l'indipendenza di giudizio.
Al centro dell'esperienza illuminista c'è la grande impresa dell'Enciclopedia di d'Alembert e Diderot, l'opera che illustra e riassume le nuove idee, alla cui realizzazione collaborarono tutti i maggiori intellettuali francesi dell'epoca.
La diffusione dell'Illuminismo va messa in relazione con la parallela crescita della classe borghese in Europa, divenuta nel corso del secolo protagonista del progresso economico, ma anche punto di riferimento nella progettazione di una nuova società.
Dal 1780 la forza innovativa dell'Illuminismo cominciò ad esaurirsi; la crisi si manife­stò con gli sviluppi della rivoluzione francese: mentre la «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino» del 1789 riprende idee già diffuse dagli illuministi, gli eventi successivi metto­no in crisi l'ideologia delle riforme.

lunedì 29 agosto 2011

Il primo soggiorno di Caravaggio a Napoli di Massimo Capuozzo

Agli inizi del secolo, mentre vigeva ancora il gusto per forme intellettualistiche e idealizzanti care allo spirito della Controriforma, caratteristiche dell'ultimo Manierismo più ritardatario e provinciale ed espresse in una stanca koinè e quasi del tutto priva di voci dominanti – da Francesco Curia a Girolamo Imparato, da Fabrizio Santafede a Belisario Corenzio e Luigi Rodriguez – quasi per incanto, apparve improvvisamente Caravaggio compare e scompare due volte dalla scena napoletana.
Caravaggio, con una modernissima intuizione, aveva cominciato a diffondere nell’arte un nuovo verbo, basato sull'impatto drammatico di una pittura tratta dal naturale, ossia dalla visione in presa diretta della realtà, attraverso il guizzo ora descrittivo, ora violento della luce nell'attimo in cui essa si rivela. Ma il senso della rivoluzione caravaggesco non stava solo nell’aspetto tecnico della camera oscura quanto nel suo particolarissimo ed inusitato modo di narrare: nelle sue opere i popolani, infatti, non sono, come era accaduto in tanta pittura italiana della Controriforma, spettatori che pregano, infelici appestati, accattoni e poveracci, plebe verso la quale la pittura aveva rivolto uno sguardo pietoso, ma diventano i protagonisti. Uomini e donne del popolo sono travolti dall’infinita oscurità dell’universo e della Storia. Caravaggio nella pittura opera una rivoluzione, al pari di quanto fa Galilei nella scienza, attribuendo dignità di cultura al sapere per esperienza sensibile, alla verità affermata in base ai fatti e non in base all'autorità e rapportando i sacri misteri alla realtà dolorosa degli eventi comuni di ogni giorno.
Caravaggio soggiornò solo pochi mesi a Napoli, ma tanti bastarono per lasciare un impatto sconvolgente sulla pittura napoletana, per certi versi stagnante, che, dal tranquillo corso tardo-manierista, fu deviata alle durezze del suo straordinario naturalismo. La sua presenza catalizzò le energie locali impegnate già con gran fervore nell’ammodernamento di tutta la Napoli sacra, costituita da innumerevoli chiese e conventi, che si allargavano e che si innovavano senza sosta alla ricerca di sempre maggiori fasti e onori.
L’arrivo di Caravaggio a Napoli non fu tuttavia fortuito: Caravaggio fuggiva, una fuga che lo accompagnò fino alla morte. Alla fine di maggio del 1606, durante una rissa scoppiata per futili motivi, il maestro era stato ferito, ma aveva ucciso a sua volta uno dei contendenti, Ranuccio Tomassoni. Era passato solo meno di un anno da quando Caravaggio era fuggito a Genova, ma adesso si trovava in una situazione disperata non era la solita zuffa, questa volta l’aveva fatta grossa. Non si trattava di una comune rissa, ma di un omicidio e nemmeno di un omicidio qualunque: Ranuccio, infatti, era il figlio dell'ex colonnello Luca Antonio Tomassoni, una figura di spicco di cui l'aristocrazia filospagnola si ricordava bene per i servizi militari prestati ai Farnese e la morte di un Tomassoni era particolarmente sgradita per il nuovo papa, schierato con gli spagnoli, ed i Tomassoni avevano un'influenza politica. La modalità della morte – «Caduto a terra Ranuccio», racconta Baglione, «Michelagnolo gli tirò una punta, e nel pesce della coscia feritolo, il diede a morte» – contribuì ad indurire il cuore di Paolo V Borghese, un papa moralizzante nei confronti di Caravaggio, ed a rendere implacabile la famiglia Tomassoni nel volere la morte dell'assassino. Giustizia pontificia e vendetta familiare rendevano Caravaggio una presenza compromettente perfino nella casa della persona più potente. Ricercato dalla giustizia pontificia, scappò precipitosamente, trovando protezione presso i principi Colonna, da sempre suoi protettori, nello specifico presso il principe Martino Colonna, che lo aveva accolto dopo essere fuggito da Roma e per il quale dipinse la Cena di Emmaus. Già in questa tela le figure umane, emergendo dall'ombra, mostrano tutto il sofferto carico interiore di passioni e di emozioni, caratteristico del periodo trascorso al Sud, passato sempre in fuga nell'ansia e nella speranza di poter un giorno tornare a Roma.
Caravaggio giunse a Napoli nel settembre 1606, dove rimase per circa un anno, preceduto dal clamore e dallo scandalo sociale e morale delle opere prodotte a Roma. A Napoli la sua fama era già ben nota a tutti: i Colonna lo avevano affidato ad un ramo collaterale della famiglia, i Carafa-Colonna, importanti membri dell'aristocrazia napoletana. Napoli, per un artista famoso, significava committenze, quindi lavoro assicurato. Era la capitale di un regno parte del grande impero spagnolo, in cui si concentrava la ricchezza attraverso i tributi e i redditi dell’aristocrazia feudale ed era la sede privilegiata dei grandi affari.
La Napoli che lo accolse fuggiasco, era una città enorme e babelica. Era la Napoli spagnola e, in quel periodo, governava, con la consueta politica di sfruttamento, il viceré spagnolo Pimentel de Herrera, conte di Benavente: la città contava circa 350.000 abitanti e, dopo Parigi, era la più popolosa d’Europa, una città in evoluzione veloce e violenta, una città militarizzata nei cui Quartieri spagnoli o nel cui porto allignavano la prostituzione e gli altri tipici mondi paralleli a quello delle armate – luoghi in cui il disagio sociale e la povertà si tingono di un colore nuovo, quello della violenza urbana, percepita coscientemente da parte delle istituzioni, che tentavano di dare risposte al malessere della plebe. Nella città dilagavano delinquenza, contrabbando, prostituzione, estorsioni: dai quartieri spagnoli col loro carico di lenoni e di gente di vita, con le risse fra Nazione spagnola e Nazione napoletana, con stranieri che arrivano al porto da tutto il Mediterraneo, provengono i personaggi ed il clima narrativo delle Sette opere di Misericordia e lì possono essere stati visti gli aguzzini della Flagellazione. In questa Napoli il conte di Benavente tirava avanti con tasse e con quella taciturna quanto sorda tolleranza nei confronti dei soprusi dei baroni e dei feudatari, in un clima di religiosità ossessiva, cui però la povera gente le affidava le proprie speranze, proprio così come questa povera gente appare nella Madonna del rosario.
In questa Napoli, caotica e proteiforme, Caravaggio visse un periodo felice e prolifico per quanto riguarda le commissioni, lavorando instancabilmente: i Colonna lo aiutarono, facendogli ottenere contatti e referenze, ma il suo nome e la sua fama erano ben noti anche a Napoli. Presto Caravaggio ricevette commissioni dagli imprenditori lombardi operanti in città, tra cui Fenaroli che gli richiese tre tele destinate alla cappella Fenaroli nella chiesa di S. Anna dei Lombardi, raffiguranti la Resurrezione di Cristo, San Francesco che riceve le stimmate ed un San Giovanni Battista: le opere purtroppo sono andate perdute durante il terremoto del 1805, che distrusse la chiesa e la cappella che le custodiva.
Eseguì la Madonna del rosario, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Controversa è la committenza dell’opera, infatti, secondo alcuni, il committente sarebbe stato Nicola Radulovic, un ricco mercante di Ragusa in Dalmazia, ed all'inizio la composizione avrebbe dovuto comprendere la Madonna in trono con i Santi Nicola e Vito, ma rifiutato dal committente, il quadro sarebbe stato poi modificato nella struttura per espressa volontà dei Domenicani. Secondo altri invece, ed è questa l’ipotesi più percorribile, il quadro fu probabilmente eseguito per decorare la cappella di famiglia nella chiesa napoletana di San Domenico Maggiore, su committenza di Luigi Carafa-Colonna, parente di Martino Colonna. A suffragare questa ipotesi, il rimando alla famiglia Colonna starebbe, appunto, nella grande colonna a sinistra alla quale è legato il grande drappo rosso che sovrasta la scena quasi come un sipario. Il tema trattato nella tela è prettamente domenicano. San Domenico ed i suoi frati avevano diffuso la devozione del rosario e la Madonna, iconograficamente rappresentata come Regina Coeli, indica il santo alla sua destra che tiene fra le dita dei rosari; alla sua sinistra San Pietro Martire domenicano ed accanto a San Pietro Martire, San Tommaso d'Aquino, il più famoso di teologi Domenicani. Madonna, Bambino e santi formano un triangolo sacro celato classicamente dai supplicanti disposti frontalmente inginocchiati in preghiera con le braccia stese verso San Domenico, mentre un gentiluomo, probabilmente il committente, guarda verso l'osservatore.
Sempre in questo periodo realizzò una delle sue opere più importanti, che si rivelò un cardine per la pittura nel sud Italia e per la pittura italiana in genere, la cui composizione, rispetto alle pitture romane, è più drammatica e concitata, non esistendo più un fulcro centrale dell'azione. Proprio quest’opera sarà di grande stimolo per la successiva pittura barocca partenopea: Caravaggio il 9 gennaio 1607 consegnò al Pio Monte le Sette opere di Misericordia, oggi esposto accanto a dipinti di Battistello Caracciolo, Fabrizio Santafede, Luca Giordano.
La Congregazione del Pio Monte della Misericordia comprendeva tra i suoi aderenti anche Luigi Carafa-Colonna ed aveva commissionato al maestro la tela delle Sette opere di Misericordia per l’altare maggiore della Chiesa dell’istituzione caritatevole napoletana. In relazione a quanto richiesto dalla committenza, Caravaggio fece riferimento alle opere di misericordia corporali, interpretando il tema evangelico in maniera personale e realizzando una tela di grandi dimensioni (390×260 cm). Ancora una volta Caravaggio realizza un’opera rivoluzionaria in cui le azioni di misericordia e di solidarietà si attuano simultaneamente nel vicolo: la luce dell’imbrunire mette in movimento e ferma come in un fotogramma una folla gesticolante che rappresenta un'umanità costituita dalle diverse classi sociali in atto in un quadrivio napoletano. La stessa inclusione della Madonna della Misericordia col bambino e gli angeli per volere della committenza non diminuì la capacità del pittore di esprimersi in maniera personalissima e Caravaggio, allontanandosi dall’iconografia tradizionale che voleva la Vergine raffigurata col mantello sotto il quale doveva accogliere l’intera comunità di fedeli, attribuisce alla Madonna le sembianze di una dolcissima popolana, forse ripresa dalla verità nuda di Forcella, come popolani sono quegli angeli lazzari che fanno la voltatella all'altezza dei primi piani e che sorreggono il bambino.
La composizione è scandita in due gruppi, ancora una volta sacro e profano, come nell’immediatamente precedente Madonna del rosario. Nella parte in alto la Vergine col Bambino, che con volto sereno e tranquillo, guarda verso il basso quasi per mostrare materno consenso ed umana simpatia alle figure sottostanti. E poi, anch’essi rivolti alle scene sottostanti, i due angeli, quasi abbracciati, ma è solo uno dei due che sostiene l’altro, circondandolo con le braccia.
Sotto sono rappresentate le sette opere, in una sintesi possente e quasi senza soluzione di continuità. Visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati sono sintetizzate in un’unica immagine, che rappresenta una figlia che, di nascosto, nutre con il suo latte il padre – in riferimento a quanto scrive Valerio Massimo nel De pietate, che il vecchio Cimone era rinchiuso in carcere e che non gli davano da mangiare e sua figlia Pero ottenne di visitarlo e di nascosto dai carcerieri lo nutriva col latte del suo seno. In seppellire i defunti si vedono appena i piedi lividi e le gambe di un cadavere portato a sepoltura: la figura dietro la donna che nutre il padre col suo latte, è un sacerdote che regge una torcia accesa che illumina il viso e la veste bianca della donna, un particolare rilevante perché unico esempio di una sorgente luminosa in un quadro del pittore mentre in tutte le altre opere il fascio di luce viene da una sorgente posta all’esterno della scena. Sulla destra il gruppo gemina dalla figura di San Martino, rappresentato come un giovane gentiluomo che, in vestire gli ignudi, dopo aver diviso in due il suo mantello, ne dà una metà ad un uomo seduto per terra ripreso di spalle in una struttura fisica michelangiolesca; proprio immediatamente dietro il giovane con il mantello, Caravaggio raffigura un signore benvestito indica la sua casa ad un pellegrino che simboleggia ospitare i pellegrini, e sempre a San Martino è collegata la figura in basso dello storpio che rappresenta curare gli infermi. A culmine del gruppo di sinistra dare da bere gli assetati, che parte della critica ravvisa la figura di Sansone nell’uomo che beve dalla mascella di un asino, perché nel deserto bevve l’acqua fatta sgorgare miracolosamente dal Signore: l’eroico Sansone non sta compiendo un atto di misericordia, invece è lui che è salvato dalla grazia di Dio.
Con quest’opera dalla composizione serrata, che concentra in una visione d'insieme diversi personaggi, Caravaggio abbandona ogni schema tradizionale ed attua una vera e propria rivoluzione, rappresentando con estremo realismo e con perfetto sincretismo talune scene bibliche, storiche ed altre di tipo quotidiano con alcuni rinvii mitologici. Il naturalismo caravaggesco trova qui il suo compimento: sebbene stilisticamente il dipinto si avvicini alle ultime pitture di Caravaggio a Roma, in particolare al Martirio di San Matteo per la soluzione compositiva di un gruppo di figure variamente atteggiate che si dispongono lungo delle direttrici a raggiera, esso se ne differenzia per l'utilizzazione di una luce che scolpisce le forme attraverso un chiaroscuro più netto e frantumato in cui la scelta di soggetti reali e l'alto livello di simbolismo sono condensati in un'unica scena. Il significato morale di fondo è il rapporto tra le opere misericordiose che uomini compiono come avvicinamento a Dio e la misericordia della Grazia che Dio rende agli uomini, un tema inevitabile in una pala destinata ad una congregazione dedita a questo tipo di attività caritativa.
L'artista lavorò poi alla Flagellazione di Cristo per la cappella de Franchis in San Domenico Maggiore: la lavorazione, realizzata fra il 1606 ed il 1607, fu abbastanza travagliata infatti nella parte inferiore, soprattutto all'altezza del perizoma del torturatore di destra sono evidenti segni di pentimenti e rimaneggiamenti, rivelati dagli esami radiografici che hanno rivelato una testa d'uomo, probabilmente il committente, successivamente cancellata, in obbedienza alle precise ragioni della committenza che volevano evidenziare la crudeltà degli aguzzini, profondamente diversi da quelli raffigurati come uomini semplici costretti ad un lavoro faticoso nella Crocifissione di San Pietro della chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.
Il quadro (286 x 213) mostra il luminoso torso di Cristo, legato alla colonna, con intorno tre aguzzini, che sembrano scaricatori del porto, che affiorano e, immergendosi a turno nell'ombra, organizzano una girandola di tormenti che sembra non poter avere fine. Al centro della composizione campeggia la figura di Gesù, legato a una colonna: è un corpo bellissimo, tornito classicamente dalla luce, anatomicamente perfetto, in torsione, un corpo muscoloso che contrasta col volto rassegnato, dolente, malinconico sembra fluttuare in un movimento danzante di memoria manierista.
Tuttavia la violenza espressa dai carnefici, è sapientemente inquadrata in un contesto pittorico caratterizzato dalla consueta razionalità dello spazio e della luce. Staccati dalla colonna centrale i personaggi si distribuiscono in maniera sintetica ad eccezione del più lontano, chino e quasi completamente immerso nell’ombra. Lo sfondo è nero o scurissimo e le espressioni di malvagità sono appena visibili, ma eloquenti sui volti degli aguzzini nerboruti, intenti a procurare martirio sulla carne di Cristo, così debole eppure sensuale nella rappresentazione di un corpo magnifico ed illuminato.
La bellezza di Cristo appare esaltata, anziché impoverita, dalle violenze patite, secondo una descrizione non nuova per Caravaggio: abituato a proporre il paradosso a lui molto caro, accentua i movimenti rozzi e brutali dei modelli tratti dal popolo per dare maggiore risalto al candore protagonista, a sua volta sconcertante per la capacità di comunicare un impulso di carnalità profana.
Qui Caravaggio continua il suo percorso di approfondimento nella rappresentazione del pathos: il dolore non esplode violentemente, non è gridato, è dominato, è contenuto, e perciò è tanto più intenso, sentito e comunicato allo spettatore. L’immagine coglie l’attimo che precede il culmine del dramma, quando il corpo di Cristo cede spossato alla forza bruta dei due carnefici che lo stanno legando. Gli aguzzini si accaniscono violentemente nei confronti del corpo inerme di Cristo. La luce investe e modella il corpo di Gesù, svelandone la perfezione e l’eroica purezza, in contrasto con la sudicia e scarna anatomia dei torturatori. Il pittore propone in Cristo una fisicità atletica che però è mortificata dall’atteggiamento di umiltà del capo reclino e delle gambe leggermente piegate, ad indicare l’atteggiamento psicologico e spirituale di volontaria sottomissione alla Passione. Gesù è immerso nell’atmosfera buia, interrotta solo dall’intenso bagliore della luce riverberata sulla sua figura. L’immagine torturata sembra così emergere dalla cortina di buio, suggestiva come un’apparizione, favorendo la concentrazione e la commozione del fedele inginocchiato e in preghiera. Il modellato delle anatomie è robusto e corposo come in tutte le opere meridionali del maestro.
Tuttavia sembra che Caravaggio non riesca a trovar pace neppure a Napoli. Bellori narra che sia stato il desiderio «di ricevere la Croce di Malta solita darsi per gratia ad huomini riguardevoli per merito e per virtù» a spingere Caravaggio ad imbarcarsi per Malta ed è probabile che l’artista, entrando a far parte del Sacro Ordine Gerosolimitano, sperasse di potersi mettere al sicuro dal “bando capitale” emesso dal tribunale pontificio. Sempre per intercessione dei Colonna, si trasferì a Malta: a condurlo sull’isola potrebbe essere stato un altro esponente della famiglia che lo protegge, quel Fabrizio Sforza Colonna – figlio della marchesa di Caravaggio e generale della flotta maltese – che proprio nell’estate del 1607 fece scalo a Napoli proveniente da Marsiglia.
Massimo Capuozzo

giovedì 25 agosto 2011

Chiesa e Reale Monastero di San Bartolomeo a Castellammare di Stabia

Secondo la tradizione, ai tempi di Carlo I d'Angiò fu fondato presso l'attuale chiesa della Madonna della Sanità, una chiesa ed un monastero, ma a tutt’oggi è ignoto l'anno preciso della fondazione.
Questo monastero era esposto a continue incursioni di fuorilegge, perché situato fuori della città e, in seguito alle disposizioni del concilio di Trento, il vescovo Maiorana decise di costruire un nuovo complesso entro le mura cittadine; per questo nel 1576 furono comprate la casa di Roberto de Marchese alla Dohana vecchia e quella di Nicola Vaccaro a Campo di Mola ed iniziarono i lavori e s'innalzò dalle fondamenta una nuova chiesa nella strada Dogana, poi detta S. Bartolomeo. Il 18 luglio 1583 le suore accompagnate dal vescovo si trasferirono dall'antico nel nuovo monastero, con disappunto degli abitanti del sito dove esse abitavano che, rivoltandosi, ostacolarono la levata delle campane della antica chiesa. La nuova chiesa fu benedetta il 21 agosto 1673 dal vescovo Pietro Gambacorta.
Il monastero fu sempre governato dai Frati Minori Riformati da un guardiano e da un procuratore secolare. Anticamente in questo monastero si potevano monacare solo fanciulle nobili e la più antica Badessa di cui si ha memoria è la nobile Chiara Cannavacciuolo sul finire del secolo XV. Quando il vescovo andava in visita al monastero, era consentito solo al sindaco dei nobili entrare col vescovo nella clausura; essi erano attesi dalle suore all'ingresso della clausura, dove veniva intonato il Te Deum e poi processionalmente, preceduti dalla croce, si portavano nel coro dove, dopo l'orazione allo Spirito Santo, la Badessa, la Vicaria e le suore prestavano la prescritta obbedienza al vescovo, leggevano le regole del monastero e la funzione terminava con la visita alle reliquie di S. Bartolomeo e di S. Gennaro.
Nel 1684 oltre l'altare maggiore sono annotati i seguenti altari: Altare di S. Bartolomeo, di S. Maria del Soccorso, di S. Tommaso, del Crocifisso, di S. Michele Arcangelo.
Nella seconda metà del sec. XVIII la chiesa fu rimaneggiata: nel 1780 furono costruiti gli otto coretti e nel 1792 l'atrio ed il cancello di ferro avanti la chiesa.
La chiesa si presenta oggi a navata unica ed è preceduta all'esterno da atrio chiuso da cancelli di ferro, affidati a pilastri di pietra piperno.
Presenta sull'altare l'altare maggiore di marmo, con ciborio una tela del 1700 raffigurante Il martirio di S. Bartolomeo, opera di Francesco Landini, donato nel 1782 alle suore dalla regina Maria Carolina di Napoli. Davanti all'altare maggiore è una balaustra di marmo con portelli di ottone; all'interno, ai lati dell'opera del Landini, sono conservati due grandi quadri ad olio dedicati al santo.
Le quattro cappelle laterali con altari di marmo, sono dedicate, a sinistra, al S. Crocifisso, con crocifisso bizantino ligneo del 1111 restaurato nel 1836 e alla Vergine Immacolata; a destra a S. Francesco d'Assisi e a S. Ludovico. Ciascuna cappella è dotata di quadro ad olio con raffigurazione del santo cui è dedicata.
Presso l'altare di S. Francesco è esposta una copia dell'Immagine di Maria S.S. della Speranza. Presso l'altare di S. Ludovico si trova la statua della vergine di Fatima; presso quella di S. Francesco è una statua di S. Catello e presso l'altare del crocifisso una di S. Giuseppe.
Lo splendore e le ricchezze di questo monastero terminarono alla soppressione degli ordini religiosi ed il monastero passò in proprietà del Comune di Castellammare.
Nel 1924, l'amministratore Apostolico Luigi Lavitrano, arcivescovo di Benevento affidò alle suore adoratrici della provincia napoletana. Il 14 settembre 1924 si riaprì questo monastero.
Sul lato destro c'è il campanile, accessibile dal monastero, dotato di tre piccole campane.
Sempre sul lato destro è la sacrestia, di regolare ampiezza, illuminata da due vani di finestrini con cancelli fissi di ferro, rete e telaio di lastra sulla Strada S. Bartolomeo.
Presso la porta maggiore della chiesa vi sono due lapidi in marmo: quella a destra ricorda la consacrazione della chiesa nel 1821, quella a sinistra si riferisce al trasferimento del monastero dalle alture della città e ricorda le reliquie di S. Bartolomeo e S. Gennaro, conservate nel monastero stesso.

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