domenica 28 luglio 2013

La predicazione degli Apostoli di Massimo Capuozzo

Dopo la morte di Gesù, i primi discepoli cominciarono a organizzarsi e a diffondere il kerygma ossia l’annuncio.
Questo gruppo di persone, di origine eterogenea, decise di stabilirsi a Gerusalemme nella probabile persuasione che da lì a poco sarebbe giunta la fine dei tempi. Il gruppo, ebrei e proseliti, era considerato una delle tante sette giudaiche che allora componevano il variegato mondo religioso ebraico ed era disomogeneo anche nelle convinzioni: è possibile, infatti, riconoscere almeno tre sottogruppi con visioni abbastanza differenti su come intendere il nuovo Vangelo, che peraltro allora non esisteva ancora in forma scritta.
·         Gli Ellenisti, gruppo legato alla figura di Stefano, avevano un atteggiamento piuttosto sovversivo nei confronti delle istituzioni ebraiche, in particolare del tempio e ciò portò a uno scontro con il sinedrio, con la morte di Stefano e l'allontanamento della comunità da Gerusalemme. Essi si trasferirono quindi ad Antiochia e lì cominciarono a predicare anche a proseliti dell'ebraismo di origine non ebraica, costituendo le prime comunità cristiane composte da membri non nati nell'ebraismo.
·         I giudeo-cristiani, gruppo maggioritario, legato prima a Pietro e poi a Giacomo, fratello di Gesù, avevano un ruolo di primo piano nella Chiesa di Gerusalemme: questo ruolo fu affidato a Giacomo da Gesù che divenne il capo della Chiesa di Gerusalemme, dopo la morte di Gesù. I giudeo-cristiani praticavano integralmente la legge ebraica e pregavano regolarmente nel tempio di Gerusalemme; Pietro, però si dovette allontanare ben presto dalla città, dopo che era stato imprigionato da Erode Agrippa I, e Giacomo morì nel 62 per lapidazione su comando del sommo sacerdote Anania.
·         Un terzo gruppo, legato a Giovanni, elaborò una teologia originale su Gesù e sulla sua relazione con Dio, in seguito divenne predominante in tutta la Chiesa, insieme al pensiero di Paolo.
Anche secondo Paolo, la Chiesa di Gerusalemme era basata su tre colonne: Giacomo, Pietro e Giovanni.
Inizialmente, i primi seguaci di Gesù si consideravano parte della Religione ebraica. Certo, avevano alcune pratiche peculiari e nuove come il Battesimo e la celebrazione della Eucaristia e vivevano in una comunità coesa e a sé stante, ma tutti erano certi della propria ebraicità: si comportavano come Ebrei, partecipavano ai culti del popolo ebraico, praticavano le forme tradizionali della religiosità ebraica e osservavano strettamente l'antica Legge ebraica, discesa da Mosè.
Questo primo Cristianesimo si sviluppò dalla Giudea romana e si sparse per tutto l'Impero Romano e oltre cioè nell'Africa orientale e Asia meridionale, fino a raggiungere l'India e, dapprincipio, questo sviluppo fu strettamente collegato ai centri di fede ebraica già esistenti, in Terra Santa e nella Diaspora ebraica.
I primi seguaci del Cristianesimo erano ebrei, noti come timorati di Dio o anche ebrei cristiani: essi erano i membri del movimento ebraico di riforma che più tardi divenne il Cristianesimo vero e proprio. Nella fase più precoce, la Comunità era composta da tutti i giudei che avevano accettato Gesù di Nazareth come una persona venerabile o addirittura il Messia, quindi equivalenti a tutti i gruppi cristiani successivi, che continuavano a osservare le prescrizioni della Legge mosaica dopo la loro conversione al Cristianesimo. Quando il Cristianesimo cominciò ad evolversi e diffondersi, i giudeo-cristiani divennero solo un filone minoritario della comunità cristiana.
Si ipotizza che le Sedi Apostoliche siano state fondate da uno o più apostoli di Gesù, che si pensa siano partiti da Gerusalemme qualche tempo dopo la sua Crocifissione, verso il 26–36, probabilmente dopo il Grande Mandato, la missione divina degli apostoli. I primi cristiani si riunivano in modeste case private, note come chiese domestiche, ma la comunità intera di una città era anch'essa chiamata chiesa – dal greco εκκλησια o Ecclesia che letteralmente significa assemblea, riunione, o congregazione.
Molti di questi primi cristiani erano mercanti, mentre altri avevano motivi pratici per voler andare in Africa settentrionale, Asia minore, Arabia, Grecia e altri luoghi. Oltre 40 di queste comunità furono istituite entro l'anno 100, nelle città intorno al Mediterraneo, comprese due in Nord Africa, ad Alessandria e Cirene, e svariate in Italia molte in Asia Minore. Per la fine del I secolo, il Cristianesimo era già arrivato a Roma, in India e nelle maggiori città dell'Armenia, Grecia e Siria, servendo da base per la diffusione espansiva del Cristianesimo in tutto il mondo.
La storia di come questa piccola comunità di credenti si sparse per molte città dell'Impero Romano in meno di un secolo è una parte considerevole della storia dell'umanità.
Si trattava, però, anche di una comunità in crescita che, inevitabilmente, in almeno due occasioni, aveva ammesso al suo interno persone che non condividevano il background ebraico. Il primo caso era avvenuto in relazione un importante funzionario responsabile del Tesoro della regina di Etiopia. Il secondo convertito era stato il centurione romano Cornelio, che era stato ricevuto nella Chiesa direttamente da Pietro. Ovviamente, questi due episodi dovevano essere solo due esempi di un movimento certamente più ampio ed era logico che tali inglobamenti di esseri impuri, così come l'insistenza dei proto-Cristiani nel predicare la divinità di Gesù, ben presto portassero ad un conflitto aperto con le autorità della Religione ebraica, in particolare i Farisei.
Non a caso per due volte ai seguaci di Gesù fu ordinato di desistere dal loro modo di vivere e, al loro rifiuto, essi furono condannati a morte: la prima persecuzione, a metà degli anni 30, portò alla lapidazione di Stefano, la seconda all'esecuzione dell'Apostolo Giacomo il Maggiore intorno all'anno 44. In seguito a questa importante  persecuzione di Cristiani in Palestina molti Cristiani fuggirono ad Antiochia, importante metropoli, capitale della provincia romana d'Oriente e fondamentale centro della cultura greca.
Fu proprio ad Antiochia che il nome di Cristiani fu dato per la prima volta ai credenti in Cristo e che un numero notevole di persone provenienti da altre religioni, in particolare Greci, ma anche Ciprioti e Romani, accolse l'insegnamento evangelico. Insomma, per la prima volta, verso il 42-45 d.C., la Chiesa cominciò ad apparire come qualcosa di più di una delle numerose sette ebraiche: stava diventando cattolica, ossia universale.
Questo, però, poneva un problema: la grande maggioranza dei Cristiani erano ancora Ebrei e, ad Antiochia come a Gerusalemme, si consideravano tenuti alla circoncisione, a seguire le antiche leggi alimentari e a mantenere la norma che vietava loro di mangiare con i pagani e, poiché l'Eucaristia era celebrata in occasione di un pasto, gli Ebrei ritenevano impossibile concelebrarla insieme con i loro nuovi fratelli Gentili.
Per l'Apostolo Pietro, ebreo osservante, il dilemma era di decidere se un Ebreo doveva rifiutarsi di condividere la Comunione con gli ex – pagani, a meno che essi non si fossero sottomessi completamente, all'atto del Battesimo, ai rituali e alle leggi ebraiche, o se tali leggi dovessero essere sorpassate in virtù del comando di Gesù di diffondere la sua Buona Novella a tutte le nazioni.
Se Pietro era da subito apparso propenso per la seconda soluzione, per molti osservanti Ebrei il Battesimo di non circoncisi era un atto di tradimento verso il Giudaismo e che l'Apostolo alloggiasse e mangiasse con pagani era una cosa sconcertante e contraria alla Legge.

La questione doveva essere risolta, soprattutto perché Ebrei e Gentili convertiti erano sottoposti a forti pressioni anche da parte degli estremisti nazionalisti antiromani, che vedevano nella loro comunanza una sorta di tradimento degli ideali liberazione nazionale.
Massimo Capuozzo

martedì 23 luglio 2013

Gesù e la sua predicazione di Massimo Capuozzo

La predicazione di Gesù[1], durata circa tre anni, intorno al 30 fu di portata rivoluzionaria. Il Vangelo, dal greco lieto annuncio, sovvertiva drasticamente l’impostazione rigida della morale del tempo. Alla sua attività di annunciatore del regno di Dio, Gesù associò un'intensa attività di guaritore e di esorcista: egli, infatti, con la sola forza di una sua parola o con un gesto delle mani, guarì le più diverse malattie e liberò gli indemoniati dal potere di Satana. Queste guarigioni di ammalati e liberazioni di indemoniati accrebbero enormemente la popolarità di Gesù, ma al tempo stesso suscitarono gelosia e preoccupazione nei capi religiosi e politici del popolo d'Israele, in pratica, nelle classi sacerdotali e dell'aristocrazia, appartenenti al partito dei sadducei, strenui avversari dei farisei, ma loro alleati nella lotta contro Gesù.

Non sappiamo con precisione quanto sia durata la vita pubblica di Gesù. Secondo lo schema adottato dai Sinottici, l'attività di Gesù – predicazione in Galilea, viaggio a Gerusalemme, attività in questa città conclusa con la crocifissione – sarebbe durata da sei mesi a un anno. Lo schema dei Sinottici è tuttavia chiaramente artificiale. Perciò è più attendibile storicamente il Vangelo di Giovanni, secondo il quale Gesù sarebbe stato a Gerusalemme per tre Pasque successive: ciò significa che la sua vita pubblica è durata da due anni a due anni e mezzo.

In questo modo, Gesù si trovò di fronte una doppia serie di avversari: da una parte, i sacerdoti e gli anziani del popolo, di tendenza sadducea e dall'altra, i dottori della Legge (gli scribi), di tendenza farisaica. Il contrasto non fu dovuto soltanto alla gelosia per il successo di Gesù presso il popolo; molto più profondamente fu dovuto al fatto che, col suo insegnamento, Gesù sovvertì da cima a fondo la religione tradizionale, quale si era venuta costituendo per opera dei sacerdoti e degli scribi d'Israele e le cui istituzioni principali erano la Torah e il Tempio. Di fatto, lo scontro di Gesù con gli scribi-farisei avvenne sulla Torah, mentre lo scontro con i sacerdoti-sadducei avviene sul Tempio. Questo doppio scontro si finì con la morte di Gesù sulla croce.
Lo scontro sulla Torah avvenne, anzitutto, a proposito del riposo sabbatico che, per gli scribi-farisei era assoluto, mentre per Gesù riguardò le necessità dell'uomo, perché il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato: perciò Gesù guariva anche di sabato e permetteva ai suoi discepoli, che avevano fame, di raccogliere le spighe in quel giorno e mangiarle. Lo scontro avvenne, poi, sulla purità rituale. Gesù rigettava ogni formalismo nella ricerca e nella tutela della purità rituale, dicendo ai farisei: «Voi farisei purificate l'esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di iniquità». Questo formalismo legalista era per lui ipocrisia. Quello che valeva per Gesù era l'impegno per la purità interiore, del cuore, per una religiosità non formalistica ma autentica e per un rapporto di giustizia e di carità verso il prossimo.

Lo scontro sul Tempio avvenne poiché questo, invece di essere un luogo di preghiera, era diventato un luogo di mercato e una spelonca di ladri: di qui il gesto audace e provocatorio della cacciata dei mercanti dal Tempio, che decise la sorte di Gesù.
La predicazione di Gesù – che dunque minava le basi della religione ebraica, come era vissuta dai sacerdoti-sudducei e dagli scribi-farisei, e che perciò poneva Gesù fuori di essa – non poteva che concludersi tragicamente.
Per questo motivo fu osteggiato e infine condannato a morte e crocifisso. Gesù si proclamò come il Messia atteso dagli ebrei e annunciato dai profeti nelle Scritture, predicò una morale fondata sulla totale libertà dell’uomo, piuttosto che sulla rigida osservanza di regole e precetti.
Massimo Capuozzo




[1] Gesù di Nazareth – Il Gesù storico è il tentativo di ricostruzione della figura di Gesù di Nazareth secondo i moderni metodi storici, attraverso l'analisi critica dei testi antichi e il confronto con il contesto storico e culturale del tempo.
Nato a Nazareth negli anni 7-2 a.C., Gesù trascorse la sua infanzia e giovinezza nei territori della Giudea, che all’epoca era una provincia romana.
I vangeli ci hanno restituito testimonianza precise e dettagliate della sua attività di predicatore, esorcista e guaritore.
Secondo la religione cristiana Gesù è l’incarnazione di Dio sulla Terra, il suo Figlio, il Messia mandato a salvare gli uomini dal peccato.
I Vangeli raccontano la nascita di Gesù da Maria e Giuseppe, in una specie di stalla. Per adorare il Figlio di Dio sceso tra gli uomini, pare che siano arrivati a Betlemme alcuni regnanti da ogni parte del mondo (l’ascesa dei Re Magi). I Vangeli focalizzano poi l’attenzione sull’attività di predicazione di Gesù, che si svolge attraverso parabole, discorsi e miracoli.
L’operato di Gesù provocò un grande seguito tra la gente soprattutto fra i più poveri e diseredati. La sua breve vita termina con la morte sulla croce sul monte Golgota. Le autorità ebraiche riunite nel Sinedrio  chiesero che Gesù fosse crocifisso e la decisione finale spettò al prefetto romano Ponzio Pilato, tra l’anno 26 e il 36.

sabato 20 luglio 2013

L'ambiente del Nuovo Testamento di Massimo Capuozzo

Ai tempi di Gesù, il Giudaismo era assai più variegato di quanto non si presenti ai nostri giorni: esistevano, infatti, vari gruppi – diversi per costumi, credenze e interessi politici – spesso in aperto contrasto tra loro.
Se il centro religioso del giudaismo era il ricostruito Tempio di Gerusalemme, a esso si affianca l'istituzione delle sinagoghe, legata alla realtà della diaspora del popolo ebreo. Con la conquista, la distruzione e la deportazione degli abitanti prima del regno del Nord fra il 722 e il 721 a. C., poi di Gerusalemme nel 587, una parte della popolazione d'Israele e di Giuda fu condotta in terra straniera; un altro gruppo si era stabilito a Elefantina, nell'alto Egitto, alla fine del sec. V a. C. Sono le tracce più antiche che abbiamo di quella che si trasformò in un'importante catena di comunità giudaiche fuori della Palestina, per diventare poi, dopo la distruzione finale di Gerusalemme nel 135 d. C., la maggior parte del popolo ebraico.
Tale realtà diede luogo anche alla missione giudaica nel mondo pagano, cosicché a un giudaismo palestinese si aggiunge un giudaismo ellenistico con caratteristiche sue.
L'interpretazione e l'osservanza della Tôrāh, la Legge, ovvero i primi cinque libri della Bibbia, diventarono la preoccupazione fondamentale del giudaismo palestinese e ciò diede luogo, da un lato, alla costituzione di una classe d'interpreti della Legge, gli Scribi, alla produzione di complessi commentari della Scrittura e alla formazione di diverse correnti interpretative di cui le principali furono quelle dei Farisei e dei Sadducei; d'altro lato, l'osservanza della Legge produsse un rigoroso legalismo, che contraddistinse in maniera peculiare la religiosità giudaica. Un'ulteriore caratteristica di questa religiosità era data dalla sua dimensione escatologica, che si espresse tanto in un'attesa di tipo nazionalistico-messianico – portata a conseguenze rivoluzionarie, durante il periodo della dominazione romana, dal partito degli Zeloti – quanto nella speranza di una catastrofe cosmica, che trovava la propria espressione nella letteratura apocalittica.
Il giudaismo ellenistico era caratterizzato, oltre che dal suo esclusivismo etnico ed etico nei confronti del mondo circostante, dalla fusione che d'altra parte realizzò con la cultura filosofico-religiosa dell'ellenismo, donde si sviluppò un tipo di pensiero ebraico nuovo rispetto a quello espresso nella più antica tradizione biblica e nello stesso giudaismo palestinese.
Si osservino ora i gruppi che costituivano la magmatica composizione del giudaismo
·         sadducei erano i membri di un partito politico religioso attivo in Giudea dal sec. II a. C. fino alla distruzione di Gerusalemme nel 70 d. C.; questo partito, composto largamente dagli elementi più ricchi della popolazione, sacerdoti, mercanti e aristocratici, ebbe una notevole influenza sulla vita economica e politica al tempo degli ultimi re giudei, i Maccabei, e ancora più intensamente durante la dominazione romana del Paese. I Sadducei ripudiavano la tradizione orale, rifiutandosi di accettare un precetto che non fosse direttamente basato sulla Torah; non ammettevano la resurrezione dei morti e l'esistenza degli angeli e forse la stessa immortalità dell'anima e di conseguenza l'al di là. Furono più rigidi dei Farisei nell'applicazione della Legge e nella punizione dei crimini soggetti alla pena capitale. I Sadducei si opposero a qualsiasi innovazione anche nel culto sacrificale del Tempio di cui si considerarono i più rigidi e degni conservatori. Anche dal punto di vista teologico c’era differenza tra le due parti: i Sadducei cercavano di avvicinare Dio agli uomini in modo quasi antropomorfico, mentre i Farisei cercavano di elevare l'uomo verso un Dio più spirituale e trascendentale.
·         farisei erano i membri di un partito politico religioso attivo in Giudea tra il II secolo a. C. fino alla distruzione di Gerusalemme nel 70. Non numerosi, i Farisei diressero la loro azione verso le masse, alle quali cercarono d'infondere con spirito di santità gli insegnamenti religiosi tradizionali. I Farisei sostenevano, infatti, il principio d'evoluzione nelle decisioni legali e si dimostravano indulgenti e comprensivi a differenza dei Sadducei, rigidi e attaccati alla lettera del testo scritto. La loro dottrina fu protesa ad abbracciare l'intera vita della comunità, toccandone anche i fondamenti teologici. Il fariseismo, dando vigore alla moralità della legge e mostrando duttilità nel modo di osservare le norme, pose l'ebraismo in condizione di sopportare le vicissitudini e le innumerevoli tribolazioni dei secoli successivi e di riuscire a sopravvivere. La critica moderna ha corretto il giudizio che dei Farisei danno i Vangeli, rivendicando loro un vero spirito religioso. Dal punto di vista dottrinale, credevano in una vita ultraterrena e nella resurrezione dei morti.
·         Gli zeloti erano membri di una corrente politico-religiosa sorta e operante nel I secolo. Praticavano una severa osservanza della Legge, simile a quella dei sadducei e, conseguentemente, un acceso nazionalismo di orientamento messianico politico, che si tradusse nell'opposizione armata contro la dominazione romana della Palestina. Forse inizialmente organizzati da Giuda Galileo che capeggiò un'insurrezione di oltranzisti ebrei contro i Romani in occasione del censimento di Quirinio del 6. Il tentativo di Giuda, come il precedente di Teda, fallì ed egli fu ucciso. Gli zeloti assunsero l'iniziativa dell'insurrezione antiromana che si concluse con la distruzione di Gerusalemme del 70. Una seconda rivolta dal 132 al 135, sotto l'impero di Adriano, si risolse in un insuccesso. Praticavano una tenace resistenza armata contro i romani che occupavano la Palestina.
·         Una nota a parte meritano gli esseni, membri di un altro gruppo settario di tipo messianico, mai nominati nel Nuovo Testamento e diffuso, tra i secoli II a. C. e il I d. C. Il gruppo fu fondato da un sacerdote che, lasciata Gerusalemme, si era recato nel deserto, nei pressi del Mar Morto. Gli esseni vivevano raccolti in comunità di tipo monastico, cui si accedeva a pieno titolo dopo tre anni di noviziato: la vita comunitaria era retta da regole quali la rinuncia alla proprietà privata e, per lo meno nella maggior parte dei casi, al matrimonio. Nelle comunità era ammesso il lavoro agricolo e artigianale, ma si respingeva il commercio, e l'astensione dalla vita pubblica si concretava altresì nel rifiuto di esercitare il mestiere militare o di prestare giuramento. Le dottrine degli esseni, prevalentemente segrete, recano la traccia evidente d'influenze del pensiero orientale e di connessioni con il sincretismo religioso caratteristico dell'epoca, mentre il legame con il giudaismo palestinese si manifesta nella loro rigorosa osservanza della legge ebraica e del sabato, e nei loro contatti con il Tempio; grandissima importanza rivestivano inoltre le pratiche purificatorie e i pasti in comune, ai quali era attribuito un carattere sacramentale. Nuove prospettive sono state aperte allo studio sugli esseni che scomparvero dalla scena storica dopo il 70 d. C.
·         samaritani (abitanti della Samaria) che riconoscevano la sola Torah che interpretavano letteralmente e non esercitavano il culto del Tempio di Gerusalemme e anche se non consideravano i Profeti e gli Agiografi come testi sacri, credevano nel messia e nella resurrezione dei morti dopo il Giudizio Universale. Buona parte delle discordanze fra la versione samaritana del Pentateuco e quella giudaica mira peraltro a stabilire sul monte Garizim, anziché sul Monte del Tempio di Gerusalemme, il vero luogo del culto di Yahweh.
I terapeuti, numericamente meno rilevanti, erano i membri di una comunità giudaica di tipo monastico. La sede della comunità – composta da uomini e donne dediti a realizzare un ideale di vita ascetico e versati particolarmente nell'interpretazione allegorica dell'Antico Testamento – era in Egitto, presso Alessandria. I terapeuti erano affini in qualche misura agli Esseni.

martedì 2 luglio 2013

Il Ritratto d'uomo di Andrea del Castagno di Massimo Capuozzo

Il Ritratto d'uomo di Andrea del Castagno di Massimo Capuozzo

La nuova visione umanistico-rinascimentale impose l’affermazione del ritratto a mezzo busto di tre quarti, o in casi più rari, a figura intera – il Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck datato 1434 o il Ritratto di cavaliere della casa della Rovere di Vittore Carpaccio, firmato e datato 1510 – in cui il personaggio risalta nella sua completezza e tridimensionalità in una più completa presa di possesso dello spazio e della volumetria.

Fra queste due opere si colloca il Ritratto d'uomo di Andrea del Castagno un dipinto autografo a tempera su tavola (54,2x40,4 cm), databile al 1450-1457 e conservato oggi nella National Gallery of Art di Washington, purtroppo estremamente poco studiato dalla critica.

La National Gallery of Art di Washington è uno dei musei più vasti e importanti del mondo, che copre, con le sue collezioni quasi settecento anni di storia dell'arte. La pinacoteca in particolare è la più vasta e completa degli Stati Uniti e, partendo dall'arte bizantina, arriva fino al XX secolo. La National Gallery of Art si formò essenzialmente grazie alle cospicue donazioni di privati, tra cui spiccano quelle di quattro grandi collezionisti americani: Andrew W. Mellon, Samuel H. Kress, Peter A. B. Widener e Chester Dale alle quali hanno fatto poi seguito, nel tempo, altre donazioni e acquisti.

L'opera, attribuita in genere all'ultima fase artistica di Andrea del Castagno, faceva probabilmente parte delle collezioni della famiglia Del Nero a Firenze, che nel XVIII secolo si fuse con i Torrigiani. Nel XIX secolo, fu venduta all'inglese Charles Fairfax Murray, che la immise nel mercato antiquario parigino e, nel 1907, fu acquistata da J. Pierpont Morgan un facoltoso banchiere e filantropo statunitense e trasportata a New York. Ceduta nel 1935 ad Andrew W. Mellon, giunse dopo la sua morte nel 1937 alla National Gallery di Washington tramite donazione.

Andrea di Bartolo nacque intorno al 1421 a Castagno, villaggio nel Mugello e la tradizione vorrebbe che messer Bernardetto de' Medici, proprietario di quei luoghi, nel vedere il ragazzo ritrarre uomini e animali, lo abbia condotto a Firenze e lo abbia posto a bottega da Paolo Uccello, uno dei i principali pittori del momento. Tuttavia non si sa nulla di preciso sulla sua formazione, ipoteticamente si possono fare i nomi di Fra Filippo Lippi e Paolo Uccello, come vorrebbe la tradizione, ma gli artisti che influenzarono sensibilmente lo suo sviluppo del più giovane Andrea furono Masaccio e Donatello per il carattere e per il senso drammatico. Con l'affermarsi della sua personalità artistica le tendenze di Andrea si trovarono in antitesi con quelle di questo sommo maestro del colore e della luce, a cui contrappose le ricerche degli effetti plastici e dei più arditi scorci attraverso la precisione del contorno, il vigore del chiaroscuro, la rigorosa prospettiva lineare, la solidità e nitidezza del colore rilevato da effetti di cangiantismo. Nel 1440, dopo la battaglia di Anghiari, Andrea dipinse, la sua opera più antica, ricordata dalle fonti ma perduta, gli affreschi sulla facciata del Palazzo del Podestà di Firenze, in cui sono raffigurati, impiccati simbolicamente, i membri della famiglia degli Albizzi e dei Peruzzi, colpevoli di tradimento dopo la battaglia di Anghiari. Da qui il soprannome di Andrea de gli Impiccati.

Nel 1442 Andrea era a Venezia dove, nella chiesa di San Zaccaria, eseguì gli affreschi in collaborazione con Francesco da Faenza, successivamente lavorò alla Basilica di San Marco lasciando un affresco con la Morte della Vergine (1442 - 1443).

Tornato a Firenze nel 1444, nel 1447 lavorò nel refettorio di Sant'Apollonia dove dipinse nella parte superiore: la Deposizione, la Crocifissione e la Resurrezione (scene molto rovinate, ma ancora leggibili). Nella parte inferiore dipinse l'Ultima Cena: la scena della rivelazione del tradimento si svolge in un ambiente ricco, caratterizzato dalla decorazione a tarsie marmoree e con richiami all'antico, vedi le due sfingi ai lati della tavolata, nella scena, scorciata con violenza, le figure, in pose pacate e solenni, si allineano seguendo il ritmo orizzontale della tavolata, e convergendo nel gruppo centrale formato dal Cristo, con alla sinistra Giovanni e da Giuda, che si trova seduto, diversamente dalle altre figure nella parte opposta della tavolata. Sempre per Sant'Apollonia dipinge in una lunetta del chiostro l'affresco con Cristo in Pietà sorretto da due angeli (di cui rimane anche la sinopia).

Tra il 1449 e il 1450 dipinge l'Assunta con i santi Giuliano e Miniato per la chiesa di San Miniato fra le Torri (ora a Berlino). In quegli anni lavora per Filippo Carducci alla serie degli Uomini e donne illustri (Villa Carducci di Legnaia)

Al 1450 circa fanno riferimento la Crocefissione di Londra; il David con la testa di Golia e appunto il Ritratto di uomo di Washington.

Il nobiluomo, del quale non si conosce l'identità, è ritratto di tre quarti, una posa molto rara per la ritrattistica italiana dell'epoca, della quale è l'esempio più antico conosciuto. Se nelle Fiandre, infatti, tale rappresentazione era consueta fin dagli anni trenta del XV secolo, nelle corti e nelle città italiane si preferivano ancora i ritratti di profilo, che rievocavano le effigi degli imperatori romani su medaglie e monete classiche come si è visto nelle opere del Pisanello e di Piero.

Il personaggio è raffigurato con una notevole individuazione fisiognomica ed è ritratto nel pieno della maturità, riccamente abbigliato, con una postura eretta e uno sguardo fiero che guarda direttamente lo spettatore. Lo sfondo è un cielo che schiarisce verso l'orizzonte. La luce, attraverso un sapiente uso del chiaroscuro, definisce con incisività le forme del soggetto fino a raggiungere esiti espressionistici e si sofferma a descrivere con minuzia le varie superfici incontrate, dalla morbida stoffa al lucido incarnato, fino alla massa scura dei capelli con un realismo cavilloso ed esasperato. Il rigore plastico è però attenuato da un'attenzione al disegno ed alla linea di contorno ben marcata, che si percepisce soprattutto nei tratti del volto, rivelando la matrice tipicamente fiorentina dell'opera.

Tra il gennaio 1451 e il settembre 1453, Andrea riprese gli affreschi delle Scene della vita della Vergine, lasciati incompiuti da Domenico Veneziano a Sant'Egidio ed oggi purtroppo perduti. A Ottobre Filippo Carducci gli commissionò gli affreschi per la sua villa a Soffiano, di cui rimangono Eva e una Madonna col Bambino molto lacunosa.

Nel 1455, lavorò alla chiesa della Santissima Annunziata (affreschi con Trinità san Gerolamo e due sante e San Giuliano e il Redentore). Di quegli anni dovrebbe essere l'affresco con la Crocifissione in sant'Apollonia.

Nel 1456 Andrea realizzò per il Duomo l'affresco con il Monumento equestre di Niccolò Mauruzi da Tolentino.

Andrea morì di peste il 19 agosto 1457.

Massimo Capuozzo

martedì 25 giugno 2013

La nascita dell'Estetica moderna di Massimo Capuozzo

La nascita dell’estetica moderna: Baumgarten, Burke, Winckelmann e Kant Di Massimo Capuozzo
Nella considerazione dell'arte l'Illuminismo mantenne un grande interesse per le regole tradizionali di composizione, ma operò anche un rilevante spostamento verso il problema del gusto, cioè verso l'ottica di chi fruisce dell'opera d'arte.
Si spiega così come proprio nel '700 si può parlare con il filosofo tedesco Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762) di fondazione dell'estetica come scienza autonoma. Il termine Estetica comparve per la prima volta, nel significato moderno di Teoria del Bello e dell'Arte, nel 1750, come titolo dell'opera Aesthetica di Baumgarten: il termine deriva dal verbo greco αισθάνομαι (aisthànomai) che significa percepire con i sensi, provare sensazioni, ma anche comprendere. Per questo motivo molti hanno individuato con questa pubblicazione il vero atto di nascita dell’estetica come scienza autonoma, tale da raccogliere in modo unitario le diverse riflessioni intorno al bello e alle arti mettendo a fuoco un insieme di concetti nuovi: gusto, genio, sentimento.
L’idea di estetica come scienza moderna è tuttavia un luogo comune. Non c’è dubbio che prima del Settecento si ha generalmente a che fare con osservazioni sparse, non certo con un discorso teorico unitario sull’arte e, pur essendo vero che la cultura estetica è un fenomeno essenzialmente moderno, sei-settecentesco, tale cultura non nacque dal nulla: essa si radicò in un contesto sociale e culturale che almeno dal Rinascimento in poi aveva iniziato a legittimare una determinata esperienza dell’arte. Si pensi ad esempio alla Poetica di Aristotele e ai suoi commenti cinquecenteschi, allo stesso Platone e a Plotino.
Con Baumgarten però il termine estetica fu per la prima volta esplicitamente usato e definito. Esso era già apparso nel 1735, nelle Riflessioni sul testo poetico, al posto dell’espressione, fino allora consueta, di critica del gusto. Nel 1750 Baumgarten diede il titolo a un’opera intera: esso designa quella scienza della conoscenza sensibile che avrebbe come oggetto centrale l’analisi del bello e delle arti. L’estetica è scienza della perfezione della conoscenza sensibile come tale, cioè della bellezza. L’estetica è teoria delle arti perché è nelle arti che tale perfezione si realizza. È proprio in questa identificazione della sfera del sensibile con quella della bellezza, e dell’idea di bellezza con l’idea di arte, che è stato indicato uno dei momenti fondamentali della cultura dell’estetica in quanto scienza moderna. A Baumgarten spetterebbe il primato della fondazione dell’estetica, intesa come specifica disciplina filosofica. Quanto al primato della scoperta dell’estetica, ci si accorge che altri filosofi sono ritenuti altrettanto essenziali. Vico, per esempio, o lo studioso inglese Edmund Burke (1729-1797) che, ne La ricerca filosofica sull’origine delle idee del sublime e del bello del 1755, aveva individuato il sublime come un elemento contrapposto al bello. Si tratterebbe cioè di quel sentimento di sgomento che l’uomo prova di fronte al terrore, all’oscurità, alla potenza, alla privazione, alla vastità, all’infinità, alla difficoltà, alla magnificenza.
Il concetto di Sublime è correlato e contrapposto a quello di Bello. Nell'idea di Burke è Sublime "Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore", il sublime può anche essere definito come "l'orrendo che affascina". La natura, nei suoi aspetti più terrificanti, come mari burrascosi, cime innevate o eruzioni vulcaniche, diventa dunque la fonte del Sublime perché “produce la più forte emozione che l'animo sia capace di sentire”, un'emozione però negativa, non prodotta dalla contemplazione del fatto in sé, ma dalla consapevolezza della distanza insuperabile che separa il soggetto dall'oggetto.
Altra posizione importante è quella dello storico dell’arte tedesco Winckelmann nella cui opera si individua non solo l’inizio del neoclassicismo, ma anche un grande contributo alla nascita dell’estetica.
Nel suo libro più famoso, la Storia dell’arte nell’antichità del 1764 Winckelmann sancì la superiorità dell’arte greca su tutte le altre e vi elaborò l’idea che l’armonia e la bellezza fossero il risultato di un’operazione di razionalizzazione e di controllo delle passioni realizzata dall’artista, sentendo con grande intensità e con vivo entusiasmo e tenne sempre presente, il momento primario e insieme terminale dell’arte che è la bellezza.
Winckelmann, teorizzò il concetto di bellezza ideale, che è una sintesi perfetta di umano e divino e che può derivare solo dal superiore controllo delle passioni e dei sensi, riassumendo le caratteristiche fondamentali dell’arte classica nella seguente formula: “La nobile semplicità e la calma grandezza”. Il primo sintagma si riferisce all’eleganza di quest’arte, che deriva essenzialmente dalla sua semplicità; il secondo, invece, rimanda a un significato più profondo: Winckelmann pensava che l’arte greca trasmettesse sempre un messaggio di tipo etico, quello secondo il quale l’uomo, pur accettando la parte emozionale della sua natura, debba costantemente esercitare un controllo razionale sulle proprie passioni in modo da mantenere equilibrio interiore e serenità d’aspetto. L’artista contemporaneo, quindi, non deve limitarsi a imitare le forme dell’arte classica, ma deve accettare e far propri i suoi valori, sentiti come ancora attuali, ed esprimerli nelle sue opere.
In conformità a tale concezione, l’equilibrio dell’arte classica si propose come modello di fusione tra lo spirito e il corpo. Lo studioso tedesco identifica l’attività dell’artista con un procedimento di autocontrollo che renda l’opera capace di suscitare nell’animo il pathos che ne costituisce l’unicità. Tal eccezionalità prende il nome di “sublime.
Le riflessioni di Burke e di Winckelmann ebbero qualche eco nell’opera di Immanuel Kant (1724-1804), che, nella Critica del giudizio del 1790 sostenne che si ha un giudizio estetico quando, commossi per la contemplazione di uno spettacolo della natura o di un oggetto d'arte, proviamo un piacere che non ha legami con la conoscenza intellettuale. Tale piacere deriva dalla corrispondenza tra il bello cui assistiamo e le nostre più profonde aspirazioni. Il Bello deve produrre armoniosa quiete e Kant distingue fra il semplice bello e il sublime, vale a dire quello che appare in oggetti di potenza e proporzioni smisurate. Di fronte a spettacoli sublimi, l'uomo non può non percepire, da un lato la propria insignificanza ma, dall'altro, la coscienza della propria superiorità morale e del proprio destino soprasensibile. Kant sosteneva inoltre che il bello è dettato da un libero gioco delle facoltà intellettive, per cui al vedere un bel paesaggio proviamo piacere perché è come se esso si adeguasse spontaneamente alle nostre categorie intellettive; per il sublime, invece, Kant – che aveva in mente il cielo stellato, le catene montuose, il mare in tempesta – intende qualcosa di ambiguo, che desta al contempo piacere e senso di smarrimento: l'oggetto in questione – il mare in tempesta, il cielo stellato o le montagne – non si adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute timore perché manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell'uomo; mentre il bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo stesso.
Massimo Capuozzo

martedì 7 maggio 2013

I ritratti di Alfonso d’Aragona: da Mino da Fiesole a Francesco Laurana di Massimo Capuozzo


Il bellissimo bassorilievo raffigurante il re di Napoli Alfonso d’Aragona fu eseguito da Mino da Fiesole fra il 1454 e il 1456. Quando Mino fu chiamato a lavorare per la corte aragonese di Napoli, la fama dello scultore poggiava già sull'amabilità e sulla dolcezza delle sue figure.
Il gusto del busto-ritratto in marmo o in materiali plastici come la terracotta si era sviluppato a Firenze nella metà del XV secolo. Sono ritratti caratterizzati e riconoscibili, spesso di defunti con funzione commemorativa, ma anche dei signori della casa, per legittimare la nobiltà del tempo, consegnando le effigi degli antenati ai discendenti o di giovani donne che hanno lasciato la casa paterna per sposarsi con la funzione di manifestare le virtù di castità, grazie e signorilità della donna. Queste esperienze erano nate dalle indagini plastiche di Donatello, che aveva sperimentato nuove soluzioni sia di resa realistica della figura umana e della sua collocazione nello spazio, sia di restituzione in scultura dei sentimenti e di approfondimento dell’espressività dei volti.
Gli scultori fiorentini cui è maggiormente legato lo sviluppo di questo genere artistico sono Mino da Fiesole, Desiderio da Settignano, Benedetto da Maiano, Antonio Rossellino: i loro committenti sono le principali famiglie fiorentine del periodo e anche alcuni principi e signori italiani, da Federico da Montefeltro al re di Napoli Alfonso d’Aragona.
La prima attività di ritrattista di Mino da Fiesole è attestata dalla sua familiarità con i Medici, per i quali eseguì il busto di Piero, del 1453, figlio ed erede di Cosimo il Vecchio, e il busto di Giovanni, eseguito fra il 1453 e il 1459, custoditi entrambi al Museo Nazionale del Bargello a Firenze. Le fonti riferiscono che Mino aveva scolpito anche il busto di Lucrezia Tornabuoni, moglie di Piero: i tre busti stavano sotto un vano architravato in palazzo Medici.
Il culto per i busti ritratto non si limitò a Firenze e i servigi di Mino furono richiesti a Roma, dove nel 1454 realizzò il busto di Niccolò Strozzi un banchiere esule fiorentino, oggi allo Staatliche Museen di Berlino. Mino era un artista minuzioso, che descriveva senza compiacimenti il personaggio. I ritratti di Piero de Medici e Niccolò Strozzi mostrano la personalità di scultore di Mino da Fiesole e il suo approccio al ritratto in cui il personaggio è raffigurato senza indulgenza ai difetti fisici e di carattere, come lo sguardo cupo di Piero o l’obesità quasi deforme di Strozzi.
Alla corte di Alfonso d'Aragona a Napoli, dove probabilmente lavorò anche all'arco trionfale di Castelnuovo, eseguì il ritratto di profilo del sovrano ed un busto del generale Astorgio Manfredi alla National Gallery di Washington. Due documenti riferiscono esecuzione di una scultura raffigurante S. Giovanni Battista, oggi perduto, e di un Ritratto di Alfonso d’Aragona oggi al Louvre, opere entrambe destinate a Castel Nuovo.
Gli scambi di artisti tra Medici ed Aragonesi, avviati dopo la Pace di Lodi del 1454 furono cruciali per il recupero dei profili all’antica, ma anche del ritratto moderno in scultura. A Napoli giunsero, infatti, dal 1455, oltre a Desiderio da Settignano, anche Donatello – la cui opera era visibile nel sepolcro del cardinale Rainaldo Brancaccio nella chiesa di Sant’Angelo a Nido – e Mino da Fiesole.
Nel Ritratto di Alfonso d’Aragona, 52 cm. x 44 cm, Mino utilizzò lo schema di profilo e il bassorilievo di derivazione antica già apparso nei Dodici Cesari di Desiderio da Settignano, eseguiti per Alfonso d’Aragona, ma anche nelle medaglie che Pisanello, nel suo soggiorno napoletano, aveva eseguito per lo stesso sovrano. Nelle opere di Mino da Fiesole e di Desiderio da Settignano è notevole uno strettissimo legame fra la ripresa di modelli antichi, studiati per riproporre nuove opere classicheggianti, e lo studio realistico della figura, destinato invece a confluire nel ritratto. Modello antico e studio dal vero sono i due poli essenziali nell’arte rinascimentale che in Mino vanno in parallelo.
La lastra che raffigura Alfonso è in discreto stato di conservazione, sebbene una frattura interessi la zona in alto a sinistra, ma non intacca il ritratto. Per realizzarlo, Mino utilizzò la tecnica dello stiacciato, un rilievo bassissimo con variazioni minime, talvolta di pochi millimetri rispetto al fondo, usato da Donatello e dagli scultori di ambiente fiorentino, per dare una riduzione in prospettiva del volume reale dei corpi, conseguendo così un valore pittorico.
All’epoca del ritratto, Alfonso aveva all’incirca sessantadue anni ed era reduce da una guerra durata quasi quattro anni che lo aveva visto opporsi a Renato D'Angiò e trionfare. Dopo lutti, stenti e battaglie combattute porta a porta, Renato era stato costretto ad imbarcarsi per fuggire ed Alfonso aveva celebrato il proprio ingresso nel 1442 in una Napoli sottratta agli Angiò con un trionfo di sapore antico, raffigurato più tardi nell’arco di Castelnuovo da un’équipe di artisti fiorentini o di cultura rinascimentale. In questo ritratto, l’espressione di Alfonso è assorta e serena nello stesso tempo, nonostante avesse ereditato un regno ormai ridotto allo stremo e con le finanze a zero. Lo sguardo è proiettato lontano, per nulla spaventato dall’arduo impegno che lo attendeva. I tratti fisionomici sono eseguiti con molto realismo: le linee della fronte e del naso sono sinuose, il viso sporge in corrispondenza del naso e delle labbra carnose e ben delineate, mentre il mento è sfuggente e a punta, il naso è lungo e la punta volge verso il basso, la forma dell’orecchio è ovale. Le spalle possenti rivelano il guerriero e sono inguainate da una tunica secondo la moda dell’epoca e da un mantello realisticamente panneggiato di vago sapore romano che conferisce a quest’opera l’aspetto di un antico cammeo. La grazia aspra nelle pieghe acute del panneggio contrasta con il passaggio dolce dei piani nel volto: questo ritratto, caratterizzato da una sottile penetrazione psicologica, attesta una conoscenza profonda della ritrattistica romana. Per artisti come Desiderio, Mino, Pisanello era facile passare dalla raffigurazione di sovrani dell’antichità a quella di re contemporanei, appassionati di antichità e collezionisti di medaglie e di pezzi archeologici.
Alfonso fu un grande sovrano: con lui il Regno di Napoli entrò a far parte, come centro principale, della Confederazione di Stati della Corona d'Aragona e in breve tempo la situazione economica cambiò radicalmente. Con la nuova dinastia i traffici e le relazioni politiche si incrementarono, i servizi si accentrarono presso la corte e gli scambi culturali e commerciali tra l'Italia meridionale e le regioni iberiche si accentuarono: la città venne dunque a trovarsi al centro di un vasto e vitale circuito mediterraneo mentre furono realizzate imponenti opere come il restauro o la costruzione ex novo di fogne e di strade, o grandi opere di ristrutturazione.
Da vero principe rinascimentale, egli protesse le arti e favorì i letterati, che credeva avrebbero tramandato la sua fama ai posteri. Il suo amore per i classici fu eccezionale, anche per i suoi tempi: alla sua Corte convennero umanisti celebri come il Panormita (1394  1471), Francesco Filelfo (1398  1481), Bartolomeo Facio (1400 – 1457) e Lorenzo Valla (1405 o 1407  1457). La Biblioteca degli Aragonesi di Napoli, una delle luci più splendide del Rinascimento, fu avviata da Alfonso il Magnanimo subito dopo la sua scenografica entrata in Napoli fu quasi il simbolo di un'epoca di eccezionale splendore culturale per la città. La biblioteca – fino alla fatale inva­sione di Carlo VIII nel 1494 che trasferì in Francia 1140 fra incunaboli e manoscritti – era disposta in una grande sala in vista del mare ed era ricca di migliaia di incunaboli e di manoscritti, spesso capolavori dei calligrafi e dei miniatori più illustri del tempo, che lavoravano espressamente per gli Ara­gonesi. I volumi erano collocati negli scaffali, alcuni più grandi erano su tavolini coperti di tappeti, con rilegature scintillanti. La biblioteca degli Aragonesi divenne ben presto un cen­tro vivo ed originale di cultura, cui facevano capo gli ingegni più elevati del tempo, da Bracciolini a Biondo, da Filelfo a Pontano, da Sannazaro a Poliziano.
Alfonso rifece Castelnuovo, vero e proprio modello di reggia fortificata, sede della sua Corte: danneggiato dalle continue guerre Alfonso ne promosse la ristrutturazione affidando l’opera all'architetto maiorcano Guillermo Sagrera (1380 -1456), operante in Italia dal 1446, dove realizzò il suo maggiore capolavoro. Egli ridisegnò quasi totalmente la planimetria della grande fabbrica angioina, dotandola di una pianta trapezoidale irregolare e trasformò le torri, che avevano pianta quadrata, in pianta circolare e rivestite di piperno, inoltre progettò nella fortezza napoletana alcuni loggiati lungo la facciata principale e lungo quella di destra. Ma l'opera più spettacolare che spetta a Sagrera è la superba sala del trono (chiamata in seguito sala dei baroni) la cui maestosa volta fu concepita secondo un disegno stellare che culmina al centro con un luminoso oculo aperto.
Nel 1453, quando il potere reale poteva definirsi ormai solido, Alfonso decise di dotare il castello di un ingresso monumentale, ispirato agli antichi archi di trionfo romani. Il superbo Arco di trionfo di Castel Nuovo, ritenuto una delle più rilevanti opere del Rinascimento italiano, in marmo bianco, di recente restaurato e restituito al suo originario splendore, si pone a simbolo della sovranità di Alfonso sulla città.
Quest’arco è un'opera straordinaria, nata forse dalla collaborazione tra Francesco Laurana (1430-1502) e Guillermo Sagrera ed è il frutto del lavoro di numerose maestranze di diversa cultura e provenienza che crearono un documento eccezionale per aree di influenza: la componente fiammingo-borgognona accanto a quella iberica e dalmata e a quella toscana diventa in quest’opera una testimonianza storico-artistica di carattere prettamente mediterraneo di altissimo livello e che contribuirono alla contaminazione stilistica dell’opera, spaziando dal rinascimento toscano alle tendenze d’oltralpe e veneziane, tutte volte alla riscoperta della classicità.
L'Arco è composto da due volte sovrapposte, rette da colonne binate e coronate da un originalissimo timpano curvilineo. Il principale maestro dell'arco fu senza dubbio il dalmata Francesco Laurana, la cui opera si ricollega alla corte di Urbino: in questo scorcio tardo del Medioevo, la Dalmazia fu centro di diffusione di forme artistiche, in particolare nella scultura determinata dall’esportazione della pietra locale, attività al seguito della quale si erano formati vari artisti operanti a Venezia ed in altri centri italiani, come ad esempio Urbino, dove l'omonimo Luciano Laurana operò con Francesco.
I rilievi dell'arco di trionfo rappresentano un evento storico, enfatizzato dal riferimento al trionfo imperiale romano: l'ingresso a Napoli del re Alfonso, celebrato il 26 febbraio del 1443 come vincitore di Renato d'Angiò, accuratamente preparato con un preciso cerimoniale elaborato dalla corte reale. Il corteo reale si era svolto tra la porta del Mercato e Castel Nuovo. Il re procedeva su un carro dorato condotto da quattro cavalli bianchi, preceduto dai musici a cavallo, da sette Virtù rappresentate da altrettanti cavalieri e da carri allegorici. Seguivano a piedi il principe ereditario e i nobili aragonesi e napoletani.

Le sculture raffiguravano l'avvenimento storico, ma arricchito di significati universali. Il rilievo del fregio centrale dell'arco inferiore raffigura il corteo trionfale di Alfonso, raffigurato come un imperatore, seduto sul carro condotto dalla Fortuna e circondato dai dignitari della sua corte. La gerarchia è affermata dalla collocazione delle figure del seguito su un registro inferiore a quello del sovrano. L'arco superiore avrebbe dovuto inquadrare la statua equestre del re aragonese, che Alfonso avrebbe voluto far eseguire da stesso Donatello, ma che non fu mai realizzata.
La realizzazione del complesso apparato scultoreo dell'Arco trionfale costituì il laboratorio di formazione di vari artisti rinascimentali, che, dopo quest’opera, lavorando in tutto il Regno di Napoli, riproposero nell'Italia meridionale le innovazioni rinascimentali. Da qui è nata l’espressione clima dell'arco per questa prima diffusione dei nuovi modi artistici.
Sebbene non abbia saputo ingraziarsi l'animo di tutti i Napoletani – Alfonso morì, non amato dai partenopei, visto sempre come straniero e conquistatore a differenza degli amati e coccolati Angioini – Alfonso riconobbe a Napoli un'importanza primaria rispetto alle altre città del suo regno facendo di essa una vera e propria capitale mediterranea, profondendo somme immense per abbellirla ulteriormente, proteggendo le arti e le industrie. Il nuovo sapere restò però essenzialmente confinato alla corte, mancando ad esempio un'attenzione del sovrano all'Università, che avrebbe potuto diffondere la nuova cultura nel regno.
Massimo Capuozzo

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