mercoledì 4 dicembre 2013

Oschi, Etruschi, Greci e Sanniti nei Monti Lattari di Massimo Capuozzo

Il rinvenimento di reperti archeologici risalenti all’epoca preistorica, in tutto il territorio dei Monti Lattari, comprendente Nocera, Sorrento, Positano, Capri fino a giungere all’ager stabianus, ha, infatti, accertato storicamente che l’area circostante dei Monti Lattari è stata abitata fin dai primordi dell’umanità.
Nel territorio stabiano fino ad ora è stato rinvenuto un reperto che testimonia nel paleolitico la presenza dell’uomo nell’ager stabianus, in particolare nel Vallone Scurorillo una selce foggiata a raschiatoio, risalente ad un’antica cultura paleolitica, presente nel territorio stabiano in un periodo di tempo compreso tra 300.000 e 40.000 anni fa. Ulteriori conferme della presenza di insediamenti primitivi nell’area dei Monti Lattari ci é data dai reperti rinvenuti nella Grotta della Conca, nella Grotta delle Noglie, ma soprattutto nella Grotta La Porta e nelle altre intorno a Positano, una prova inconfutabile che la Penisola sorrentina fu abitata con continuità dal neolitico al bronzo da popolazioni primitive fin dai tempi più remoti.
Per ricostruire la successione e l’evoluzione delle varie popolazioni che si sono man mano succedute nell’area, ci sono fonti archeologiche, costituite da reperti di vario genere, fra cui primeggiano quelli epigrafici e numismatici, e fonti letterarie, che sono naturalmente di epoca molto successiva.
Grazie ai più cospicui rinvenimenti di insediamenti archeologici ed alle fonti epigrafiche e storiografiche si è giunti, ancora, a conoscere sia l’epoca di fondazione delle città circostanti i Monti Lattari, sia le varie popolazioni che nel corso dei secoli si sono succedute in esse, sulla costa e lungo la valle del Sarno. Fino ad oggi, dunque, gli studi di archeologia e l’esegesi delle fonti letterarie dimostrano che l’area è stata, nel suo complesso territoriale, abitata fin dai primordi. Ma per individuare la nascita in tale area dei primi veri insediamenti urbani, nell’accezione di centro cittadino, sia pure organizzato in forma rudimentale, bisogna partire solo dal VII secolo a.C., secolo in cui, infatti, le fonti attestano la presenza nell’area di veri e propri insediamenti, sia pure rudimentali, ma che già lasciavano presagire le nostre attuali città.
Anche nel territorio dell’agro nocerino sono state rinvenute tracce della presenza umana fin dai primordi: nella zona montuosa della sua area, infatti, sono stati rinvenuti manufatti neolitici sulle pendici circostanti nella zona montuosa di Nuceria, mentre mancano nella zona pianeggiante del territorio riscontri di ritrovamenti che attestino la presenza di insediamenti umani di età preistorica, perché millenni di alluvioni e di eruzioni vulcaniche hanno evidentemente cancellato ogni traccia più antica della presenza umana.
Della presenza di queste popolazioni preistoriche nell’area dei Monti Lattari non si sa tuttavia ancora molto, salvo il reperto rinvenuto nel territorio dell’ager stabianus: i reperti archeologici attestano la presenza di popolazioni paleolitiche nell’area dei Lattari, ma solo lungo le coste e a Capri.
Dai reperti archeologici rinvenuti nell’area circostante ai monti è stato dunque possibile stabilire la presenza di insediamenti umani nell’area fin dal Paleolitico.
Riguardo invece la presenza delle popolazioni dall’età del bronzo fino al VII secolo a. C. sono state invece rinvenute molte tracce, che attestano la presenza dei primi insediamenti urbani in età protostorica.
Dalle fonti storiche è infatti possibile stabilire con certezza la popolazione che ha originariamente fondato Nuceria, Stabia, Marcina, Surrentum ed Aequa e più in generale ha abitato le aree circostanti nonché le varie fasi in cui poi successivamente tali comunità si sono sviluppate.
Dall’analisi delle origini e delle successive evoluzioni di queste città, si vede come esse siano nate già figlie di un intreccio sinergico di culture tra loro diverse, come diverse sono le culture osche, etrusche, greche e sannita, e dalle quali ognuna di queste città ne ha assorbito l’essenza.
Procedendo dunque alla scoperta della nascita delle nostre odierne città fin dalla loro fase embrionale, ci si accorge che esse, già nella fase preromana stessero lì, come ad aspettare qualcuno ed appaiono come territori in cerca d’autore. Grazie alla loro ineguagliabile grazia orografica naturale, fatta di insenature ospitali, di colline e di pianure fertilissime, strategicamente posizionate in modo perfettamente strumentale al commercio sul Mediterraneo, questo territorio era molto appetibile per le popolazioni straniere cui la natura non aveva donato così munificamente.
Nell’analisi di ogni città dell’area, della loro origine e dei loro primi sviluppi politici, civili, economici e culturali delle loro comunità, si tengono sempre in considerazione le varie influenze culturali delle popolazioni che esse, nel corso dei secoli e precisamente dal VII secolo a. C. fino alla eruzione del Vesuvio 79 d. C. hanno subito.
Questo viaggio geografico della storia di quest’area parte da Noukria, il nome più antico di Nuceria, che, come ogni città del mondo antico, sorgeva su una lieve collina in una conca circondata da rilievi a tratti anche aspri, nel bacino del fiume Sarno che sfocia nel Golfo di Napoli, poco lontano da Stabia e da Pompei.
La sua fondazione attesta che anche il versante interno dei Lattari sia stato abitato: le fonti letterarie sulle sue origini attribuiscono, infatti, la fondazione di Nuceria ai Sarrasti, una popolazione protoitalica, discendente dai mitici Pelasgi ed insediata nell'ampia vallata del bacino del Sarno.
Allo stato attuale delle indagini archeologiche, non si conoscono ancora resti strutturali dell’area urbana riferibili all’età prearcaica, tuttavia, le ricerche hanno permesso di chiarire almeno le caratteristiche fondamentali della struttura urbana della Nuceria arcaica, localizzata nell’odierna località di Pareti. Tali ricerche provano, inoltre, che, in età arcaica, anche Nuceria, come altri centri campani in generale e dei Monti Lattari, fu caratterizzata da elementi di cultura indigena fortemente influenzati da genti etrusche. Ciò fu dovuto al notevole dinamismo del mondo sud-etrusco: la capacità degli Etruschi di penetrare saldamente nel tessuto politico e socio-economico delle fertili terre agricole campane, lascia infatti presagire che forse essi fossero già presenti in Campania, quindi anche nella zona bacino del Sarno fin dalla prima età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.).
Le stesse fonti letterarie presentano significativamente la Nuceria delle origini a volte centro Osco, l’antica popolazione italica della Campania dell'Italia preromana, identificabili con i suoi remoti abitatori non Greci e non Etruschi, sopraffatti successivamente dai Sanniti dal V secolo a.C. in poi e con essi successivamente amalgamati, a volte come città etrusca.
Per questo, anche sulla base di confronti istituibili con insediamenti vicini a Nuceria è verosimile ritenere che Nuceria, pur con il necessario coinvolgimento delle elite campane nella gestione del potere, rientrasse nel gruppo di centri controllati in età arcaica dagli Etruschi: disposta sul percorso più breve tra l’agro sarnese, Salerno e la piana del Sele, Nuceria riservava tra l’altro anche notevoli vantaggi di natura strategica, trovandosi, infatti, a breve distanza da essa il varco più comodo per passare dal comprensorio vesuviano all’agro picentino e quindi anche per tale motivo essa rappresentò una delle teste di ponte dell’occupazione etrusca della Campania in direzione della penisola sorrentina, nell’entroterra a metà fra la settentrionale Cuma e la meridionale Poseidonia, a ridosso dell’enclave greca che aveva distribuito le proprie colonie lungo la costa. Ciò è ricordato anche da Filisto, mentre Strabone, citando la misteriosa Marcina, indica come questa si trovasse a circa centoventi stadi da Pompei, solcando l’istmo proprio attraverso Nocera.
Alla fine del periodo Orientalizzante, la stessa Valle del Sarno, in particolare verso la prima metà del VI secolo a.C., con la nascita del centro urbano di Nuceria, centro in cui parzialmente confluivano gli insediamenti sparsi nel territorio della valle,  perse la sua fisionomia culturale, amalgamandosi nella Campania oramai etruschizzata.
Questo prova da un lato che l’interesse degli Etruschi per Nuceria era dovuto essenzialmente alla sua posizione strategica ed alle notevoli potenzialità agricole del suo territorio e dall’altro che i centri minori dell’interno furono abbandonati a favore dei siti costieri ai quali sembrerebbe che fosse affidato un ruolo fondamentale per il commercio e per lo scambio a favore della più arretrata Nuceria, diventata punto nodale della nuova geografia e della quale Marcina e soprattutto Stabia sarebbero divenute ben presto gli sbocchi sul mare.
Al di là di Nuceria, con i vicini Monti Lattari, terminava la Campania nell’accezione territoriale conferita dagli autori antichi e si estendeva l’Agro Picentino.
Secondo la ricostruzione di Werner Johannowsky, è probabile che la posizione delle coeve necropoli fuori del circuito murario rispecchi una coincidenza tra lo schema urbanistico dei secoli VI-V a.C. e quello del IV secolo, ancora immutato nella ricostruzione post-annibalica e giunto in parte fino ai nostri giorni.
Nuceria era molto estesa ed aveva un perimetro di forma quasi rettangolare, con strade che dovevano incrociarsi ad angolo retto. Secondo le fonti più attendibili ed in base alla stessa ricostruzione di Johannowsky, l’originale impianto urbano di Nuceria, oggi coperto dalla città moderna, risale probabilmente all’età arcaica (VI secolo a.C.), contestualmente al rafforzarsi della presenza egemone etrusca in Campania. Molto probabilmente, il centro nacque e si sviluppò, accogliendo anche i Sarrasti, antichi abitatori dell'Agro, come insediamento etrusco intorno alla fine del VII secolo a.C. e si sviluppò rapidamente, aprendosi anche alla civiltà greca.
Questi dati, validi per lo più per l’epoca del dominio romano, sono rafforzati anche dalla scoperta di alcuni tratti degli antichi percorsi viari, fra i quali si possono individuare le tracce del decumano massimo, corrispondente al tratto urbano della Via Popilia, venute in luce presso il battistero paleocristiano. A testimonianza della sua fioritura ci sono le ricche necropoli e l'uso di un proprio alfabeto, attestato da brevi iscrizioni.
La ricostruzione della comunità di Stabia è sostanzialmente affidata allo studio dei corredi funerari rinvenuti nella necropoli di Santa Maria delle Grazie, che testimonino la vivacità culturale ed economica dell’oppidum nelle fasi della sua vita arcaica e preclassica: i nuclei tombali coprono infatti un arco di tempo che si estende dal VII fino al IV secolo a.C.. Le ceramiche di importazione corinzia, etrusca, calcidese ed attica, testimoniano infatti il ruolo primario svolto da Stabia nel commercio ed attestano una situazione evoluta dell’insediamento urbano.
L’antichità di Stabia rispetto agli altri insediamenti dell’area dei Lattari è dimostrata e documentata anche dal rinvenimento di alcune tombe risalenti all’età del ferro. C’è tuttavia da sottolineare che la ricostruzione storico-archeologica di Stabia, in base a documenti certi, può partire solo dal VII secolo a.C., epoca cui risalgono i più antichi reperti, rinvenuti nella necropoli di Santa Maria delle Grazie, oggi territorio di Gragnano.
Dall’esame dei reperti emerge un profilo della comunità, in cui l’elemento indigeno e quello etrusco convivevano, come del resto è evidenziato dalla stessa distribuzione topografica delle sepolture e delle caratteristiche culturali che la necropoli lascia trasparire: in etrusco sono state rinvenute anche alcune iscrizioni, come quella di Thanachvil Vinumai.
L’ager Stabianus era estremamente ampio perché se ne possa localizzare con certezza l’insediamento urbano: esso, infatti, includeva ville rustiche degli attuali territori di Gragnano, di Casola di Napoli e di Santa Maria la Carità. Proprio a Santa Maria la Carità, una località collocata lungo la via che univa Stabiae a Pompei, è stata ritrovata l'antica necropoli.
Il centro stabiano, come quello di Nuceria, conobbe una fase di notevole prosperità tra la fine del VII secolo e la metà del VI e, da alcuni ricchi corredi tombali, si deduce l’immagine di una società opulenta nella quale la prosperità di un ceto sociale privilegiato traeva vantaggio dai traffici commerciali.
Tra i vari fattori di sviluppo dell’antico abitato stabiano, oltre alla favorevole posizione della città vi è certamente l’apporto di ricchezza basata su di un’economia agricola fiorente, alimentata dalla fertile piana circostante e sul potenziamento degli scambi commerciali con l’entroterra campano, movimentato attraverso il proprio porto. Per quanto riguardava la viabilità, Stabia era posta sulla via che da Pompei si dirigeva a Sorrento: inoltre, a Stabia si staccava una diramazione per Nuceria, situata a sua volta su importanti direttrici di traffico.
Stabia, dunque, sebbene allo stato delle ricerche non sia ancora possibile dimostrarlo con un alto margine di certezza, sembra avere le origini più antiche di tutti gli altri insediamenti urbani presenti nell’area dei Monti Lattari.
Il suo toponimo, probabilmente di origine osca, è collegabile al latino stabulum, cioè stalla: un’interpretazione che rimanda alla felice condizione agricola della zona.
Stabia fu città osca, greca, etrusca, sannitica e, dal 340 a.C., romana con il nome di Stabiae. Il toponimo plurale, Stabiae, induce a ritenere che in una fase molto remota vi fosse stata un’aggregazione di più villaggi con il consueto sistema del sinecismo, tipico della storia arcaica greca ed italica.
Diversamente da Nuceria, del centro urbano di Stabia, prima della distruzione di Silla nell’89 a.C., si conosce solo qualche elemento: alcuni tratti delle mura sannitiche a circa 200 metri dalla Villa di San Marco, il ritrovamento di abitazioni decorate nel I stile pompeiano in proprietà Bottoni, il rinvenimento di frammenti ceramici del VII e del VI secolo a.C. che fanno ritenere plausibile l’ubicazione dell’abitato nella zona di San Marco ad est dell’odierna Castellammare, sulla collina settentrionale di Varano, un tempo a picco sul mare al cui piccolo porto si giungeva attraverso un sistema di strade a rampe e di scale.
Il territorio cui Stabia oggi appartiene, infatti, si qualifica anzitutto per la felice posizione geografica, in prossimità di un’insenatura naturale che garantiva un facile approdo marittimo.
Sul versante terrestre, Stabia sorgeva in un punto che le consentiva il controllo dello sbocco del Sarno e di una via pedemontana che conduceva, da un lato, verso l’entroterra di Nocera e, dall’altro, verso Sorrento e verso gli altri centri della costa settentrionale della Penisola Sorrentina.
In fase arcaica, Stabia aveva condiviso il destino storico dei centri di cultura indigena osco-campana della valle sarnese, lambiti già nell’VIII secolo a.C. dalle prime forme di penetrazione etrusca, come attestano i ritrovamenti delle necropoli dell’agro stabiano.
Gli Etruschi furono evidentemente attratti dall’importanza strategica e commerciale di Stabia: essi costituirono certamente uno degli elementi propulsori dello sviluppo dell’abitato fin oltre la conclusione dell’epoca arcaica, anche se non vanno dimenticati i contributi della cultura indigena e gli influssi provenienti dalle vicine città magnogreche.
La zona era per gli etruschi di estremo interesse nel quadro delle vie di comunicazione della Campania antica, da una parte in collegamento con Pompei e Napoli, con il territorio nolano e la valle del Calore, dall’altra con Salerno e ancora con l’Irpinia. Si tratta di un’area che accoglie una compagine etnica molto complessa.
Lo dimostra già nelle fonti antiche la diversa appartenenza della città ora agli Opici in Stefano Bizantino che la definisce anche città etrusca, ora ai Pelasgi.
Dal V secolo fino al II secolo a.C., si assiste a Stabia all’alternarsi di genti etrusche e greche interessate sia ai vantaggi economici del porto, sia all’asse viario che collegava l’importante città di Nuceria al mare. Se la collocazione cronologica dell’epoca in cui è possibile situare la nascita dell’insediamento stabiano è abbastanza definita, ciò non si può dire riguardo all’esatta ubicazione urbana.
Nell'antichità, presumibilmente, la pianura stabiana si presentava molto più esigua di oggi, per questo i suoi primi abitatori edificarono le proprie abitazioni proprio sulla collina: gli scavi effettuati hanno, infatti, riportato alla luce antichi reperti proprio a Pozzano, alle Fratte, a Quisisana, a Monte Coppola e, soprattutto a Varano. L’analisi archeologica del territorio stabiano, infatti, non ha ancora definitivamente risolto il problema della sua esatta ubicazione urbana, prima della distruzione di Silla.
All'inizio dell'altro lato del golfo, in posizione riparata, cresceva e prosperava un’altra città di origine etrusca, la chimerica Marcina. Secondo il mito, Marcina fu fondata da Giasone che vi edificò un tempio dedicato ad Hera Argiva.
Ma questo è il mito: le fonti storiche, invece, come per Stabiae e Nuceria, anche per Marcina, collocano la nascita del primo insediamento, definibile urbano, nel VII - VI secolo a. C..
Le fonti, in particolare Strabone, attestano che gli Etruschi, intorno al VII sec. a. C. vi impiantarono il primo insediamento marittimo e lo chiamarono Marcina, la cui nascita, localizzabile dove oggi è Marina di Vietri, fu dovuta al particolare periodo di floridezza che accompagnò gli Etruschi dal VII al IV sec. a.C.
La posizione del sito, raccolta e facilmente difendibile, e l'abbondanza di acque convinsero gli Etruschi a fermarsi in questo seno, fondando la città, come avamposto per i loro commerci. Il luogo, inoltre, offriva numerosi vantaggi, tra cui quello di trovarsi in un’insenatura riparata dai venti dove sfociava il piccolo fiume Bonea, punto di saldatura tra la catena dei monti Lattari ed il più interno sistema di monti Picentini, oltre al fatto che l’entroterra collinoso di quel lembo di costa era fertile ed abbondava di un materiale per gli Etruschi preziosissimo, la morbida argilla con la quale potevano potenziare la loro industria ceramica. Si è anche pensato ad una funzione prevalentemente mercantile di Marcina, come scalo marittimo a servizio di Nuceria.
Nel corso degli anni si sono costituite due opposte tendenze quanto alla localizzazione di Marcina. Secondo alcuni, infatti Marcina dovrebbe essere identificata con Cava de’ Tirreni o con Vietri mentre altri propendono per attribuire al sito di Fratte il toponimo Marcina.
Strabone riferendosi a Marcina la dice posta nel tratto di mare tra le Sirenuse e Poseidonia, proprio allo sbocco di quell’istmo che congiunge Nuceria Alfaterna al mare, occupata successivamente dai Sanniti, abitata dai Romani.
La testimonianza di Strabone lascia tuttavia ancor oggi in disaccordo gli studiosi che hanno pochi elementi per individuare con certezza il sito di Marcina di cui il geografo greco nota l’importanza strategica per la posizione e l’opulenza delle attività commerciali.
Come per Marcina, il nome e le origini di Surrentum si perdono tra mito e storia[1].
Fondata probabilmente dai Greci[2], testimonianze sicure della grecità della penisola sorrentina sono i culti delle Sirene, venerate in un santuario presso Sorrento, e di Atena nel santuario di Capo Ateneo[3] ma nelle sue radici dobbiamo segnalare elementi dei popoli Fenicio ed Etrusco.
La ricostruzione storica in base ai ritrovamenti d’insediamenti rupestri, utensili e vasellame nelle grotte lungo tutto il suo territorio, dimostra che la vita di Surrentum è cominciata dall’età Neolitica.
Le fonti antiche identificano nella zona dell’attuale Sorrento il luogo dove sorgeva l’Athenaion, ossia il Tempio di Athena, uno dei santuari più famosi della costa tirrenica, testimonianza della suggestiva memoria archeologica della Penisola Sorrentina e dell’esistenza, fin dall’epoca arcaica, di un importante culto di Atena e quindi un tempio a lei dedicato. È difficile stabilire la sua localizzazione esatta in quanto il luogo è esposto all’azione distruttiva degli agenti atmosferici e per questo le tracce ancor oggi visibili sono pochissime. Le citazioni degli scrittori greci e latini, i rinvenimenti ceramici ed epigrafici, le sopravvivenze di alcuni toponimi, hanno fatto concordare gli studiosi moderni nel collocare l’Athenaion proprio sull’estremità del promontorio.
L’impianto urbanistico di Surrentum, e come dimostrano anche i resti della cinta muraria greca di Porta Parsano, e di Porta di Marina Grande, oltre al grande santuario in cui si celebrava il culto di Atena, attestano che Sorrento, sebbene fosse stata sottoposta alla dominazione degli Etruschi, subì una forte influenza da parte della cultura greca.
Tutti questi elementi potrebbero far pensare ad una forte presenza dei Greci nel periodo fra il 474 ed il 420, quando Sorrento e le regioni costiere subirono l'influenza dei Siracusani, dopo la battaglia di Cuma.
Di Aequa, attuale Vico Equense, si hanno poche notizie, sia dalle fonti storiche sia dai reperti archeologici, ma, a conferma della sua an­tichità, parte di una necro­poli, ricca di cor­redi fune­rari risa­lenti fino al VII secolo, ha re­stituito, in più riprese tracce e testimonianze. Per molto tempo Aequa è stata, infatti, una zona di difficile collocazione cronologica, di essa non si conosceva l’origine dei primi insediamenti urbani. Ma poiché i docu­menti individuano concordemente il sito di Aequa sulla piana del mare, non è verosimile considerare che il primo nucleo abitativo fosse insediato sulla piattaforma in­clinata e che avesse tale denominazione.
In effetti, ciò è possibile perché, in gran parte, Aequa ha con­servato nel corso degli anni il suo antico per­corso via­rio ed antiche testimonianze urbanistiche ed archeologiche inducono ad ipo­tizzare che il primo nucleo abitato di Aequana, questo il nome più antico a noi noto, si affacciava sul mare della Penisola Sorrentina, su di un pianoro tufaceo strutturato in forma di impianto ippodameo sul vicino pianoro incli­nato.
Il primo impianto abitativo sovrastava precedentemente l’Ae­quana cui Silio Italico fa riferimento nelle sue Puniche. Di questo antico abitato non è rimasta traccia, molto probabilmente perché esso fu assorbito in quello romano: esso doveva insediarsi su un’altura terrazzata a mare, provvisto di una insenatura naturale che agevolava l’approdo delle navi.
Proprio in virtù di questa sua conformazione orografica, fatta a forma di insenatura naturale, sembrerebbe lecito supporre che, accanto alle risorse agricole, le attività primarie di Aequa fossero dunque quelle connesse alla marineria. Anzi, siccome il borgo Aequana era caratterizzato dalla presenza di uno scalo commerciale piuttosto importante, è molto probabile che questa fosse la fondamentale connotazione del borgo, soprattutto se si valuta, poi, l’intera situazione dei centri della penisola sorrentina e il loro carattere etrusco-campano.
Se ciò fosse vero, sarebbe verosimile ipotizzare la presenza degli Etruschi anche nel borgo Aequana. Benché non sia del tutto evidente come dovesse configurarsi la gestione di questi scali marittimi, se da parte delle popolazioni locali, degli Etruschi o congiuntamente da entrambi in un’armonica convivenza, la presenza etrusca in questa parte della Campania è giustificata anche in ragione di una strategia di natura essenzialmente commerciale, piuttosto che prioritariamente politica.
Altro dato che conferma la dialettica culturale di queste due componenti in Campania si evince dalla presenza, accanto alle manifatture indigene, di materiale di produzione etrusca risalente all’ultimo quarto del VII secolo.
Come è agevole notare, questo piccolo insediamento presenta tutte le caratteristiche che riportano alla fisionomia di altri centri della Campania meridionale a cultura mista, di tipo etrusco-indigena, ed in particolare di Pompei, con la zona residenziale ubicata su un pianoro e la zona marina occupata dalle strutture portuali.
Quanto alle popolazioni locali, il rinvenimento d’iscrizioni in lingua italica ed etrusca, come l’alfabeto nucerino, su un’oinochoe della prima metà del VI secolo e alfabeto etrusco, sembrano illuminare, sul piano culturale e sociale, una pacifica convivenza praticata da queste due diverse compagini etniche già dalla prima metà del VI secolo. Questo dato ci fa dire con certezza dunque che la componente etrusca sia stata presente stabilmente nel borgo Aequana già dalla prima metà del VI secolo.
È opportuno però precisare che la ricostruzione territoriale ed urbana di Aequa si basa su reperti archeologici, attraverso cui è stato possibile risalire, con certezza, alla presenza nella zona Aequana di insediamenti risalenti al VII e VI secolo a.C.
Una ricostruzione però molto più attendibile basata su fonti storiche per il borgo di Aequa è possibile effettuarla solo a partire dal III secolo a. C.. Sebbene diversi studi abbiano infatti portato a credere che ci fosse precedentemente un altro nucleo abitativo che sovrastava Aequana, in realtà, le prime testimonianze storiche dell'antica Aequana, l’attuale Vico Equense, risalgono solo al III secolo a. C, precisamente al 217 a.C. Silio Ita­lico nel poema Pu­nica, nar­rando la morte nella batta­glia del Trasimeno del 217 di un guerriero di nome Murrano, aveva indi­cato con il termine Ae­quana un territorio non distante da Sorrento quale terra d'origine di quell'eroe. Docu­menti medioevali individuano con­cordemente un sito non più florido, di nome Ae­qua (probabilmente l'Aequana, patria di Murrano) sulla piana del mare detta Pèczolo.
La contiguità geografica con la valle del Sarno influenzò l’origine e lo sviluppo di Pompei e questa vicinanza col Sarno, la rende inevitabilmente partecipe e protagonista della storia a dei Monti Lattari e delle influenze che le popolazioni osche, etrusche e greche, dall’epoca arcaica in poi, hanno avuto nella vita di quest’area. Appunto per questo, per una migliore comprensione delle varie fasi in cui l’area dei Monti Lattari si è sviluppata, pur se non è da ricomprendere nell’area dei Lattari, di Pompei, sia pure succintamente, si deve tenere conto.
Le origini storiche di Pompei sono un po’ più controverse rispetto a quelle di Nuceria, Marcina, Stabia, Surrentum ed Aequa e, al pari di altri centri della Campania antica, anche per Pompei, la questione che maggiormente ha sollecitato gli studiosi alla riflessione storica è stata quella inerente alle origini della città, sulla quale numerosi archeologi hanno proficuamente dibattuto fin dagli anni Cinquanta del Novecento.
Con certezza si può affermare, come per gli altri centri della zona, che anche Pompei sia stata osca, poi etrusca, poi sannita ed infine romana.
Sull’origine della fondazione di Pompei si sono succedute varie ipotesi e tutte sostenute da ritrovamenti di reperti archeologici che danno testimonianza certa della formazione dei primi insediamenti urbani nel territorio dell’attuale Pompei fin dal VII secolo a. C..
La zona dove essa sorse segnò il suo destino fin dalla fondazione: la città fu infatti fondata allo sbocco marittimo della valle del Sarno, sul finire del VII secolo a.C. o al principio del VI.
È ormai accertato che il primo insediamento di Pompei sia stato osco, sebbene sulla base dei reperti archeologici rinvenuti e delle fonti storiche ritrovate ed analizzate, gli studiosi, per lungo tempo, abbiano ritenuto che Pompei avesse origine etrusca o greca.
Le indagini condotte alla cinta muraria hanno permesso, infatti, di riconoscere, nei pressi di Porta Ercolano e di Porta Vesuvio, lunghi tratti di mura del periodo sannitico, mentre alcuni segmenti edificati in tecnica diversa, datate dallo studioso alla metà del V secolo circa, confortavano almeno l’ipotesi dell’influenza greca.
Successivamente, però, è stato accertato che, almeno dal VI secolo a. C., nel territorio pompeiano ci fossero individui che, se non erano etruschi, di certo parlavano in etrusco. Ciò è dovuto al rinvenimento fatto dagli scavi compiuti presso il Tempio di Apollo, di una serie di frammenti di ceramica di bucchero inscritti, che consentono di affermare con certezza che a Pompei, già dal VI secolo a.C., vivevano individui etruscofoni e che frequentavano il tempio cittadino.
Dagli scavi effettuati nella Regio VI, in prossimità di una casa etrusca, ma in una zona piuttosto lontana dal Foro Triangolare con i suoi presupposti di grecità, la notevolissima frequenza di frammenti lignei di grandi dimensioni fa pensare che in questa zona di Pompei, in epoca arcaica, fine VII -fine VI secolo a.C., doveva essere stata impiantato un faggeto. Fra le mura stesse e la zona occupata dall’abitato, gli Etruschi avrebbero coltivato questa faggeta proprio dove sorgeva la colonna, forse un elemento votivo. Quanto alla colonna etrusca, curiosamente murata nella parete di una abitazione peraltro piuttosto modesta, le indagini hanno stabilito che essa non poteva essere posteriore alla metà del V secolo a.C., rendendo verosimilmente ipotizzabile una presenza etrusca a Pompei già in epoca abbastanza antica, mentre ad un’epoca più recente sembra doversi riferire una stanzialità etrusca in termini di maggiore organizzazione, proprio in concomitanza con l’espansione greca lungo le coste campane.
È dunque possibile affermare che gli Etruschi, per rafforzare la loro mobilità commerciale verso il meridione con la creazione di scali marittimi o situati nell’entroterra costiero, si fossero già insediati nel territorio pompeiano almeno dalla fine del VII secolo a.C., anche se la presenza si avvertirà di più nella prima metà del VI secolo a.C..
Pompei andò quindi configurando il proprio profilo di emporio marittimo a cultura mista, nel quale l’elemento etrusco, assai ben organizzato, si insediò al pari delle non lontane Nola e Nocera, sovrapponendosi all’originaria compagine osca della valle del Sarno che l’abitava sin dall’VIII secolo a.C.. Ciò accadde nel più ampio prospetto della presenza etrusca in Campania che conservò soprattutto fino alla battaglia di Cuma del 474 a.C. quei caratteri pregnanti che la tradizione letteraria definì con il nome di talassocrazia.
L’ubicazione strategica non lontana dal mare e dall’estuario del fiume Sarno, tra la valle disegnata da questo fiume e le vie di percorrenza che ne rendevano possibile l’accesso da Nola e da Nocera, rappresentarono fattori determinanti per il suo sviluppo culturale e commerciale. Priva di una vera e propria insenatura portuale, molto probabilmente sfruttò a tale scopo la foce stessa del fiume, tanto che la città fu egualmente considerata dalle fonti storiche come epineion, ossia scalo marittimo, di Nola, Nocera e Acerra.
Il favore accordato dalle popolazioni indigene, in tale quadro, deve probabilmente leggersi in funzione dell’affermazione di comuni interessi territoriali con gli Etruschi che, come è possibile intuire, era la popolazione che, in questo secolo, V a. C., predominava nel territorio dei monti Lattari ed in generale della Campania. In seguito, infatti, verso la fine del V sec. a.C., quando tutta la Campania cadde progressivamente in mano ai Sanniti, che scesero dai monti dell'interno e conquistarono prima Capua, e poi, da Cuma a Poseidonia, lasciando Neapolis, fondata dagli Eubei, unica isola di grecità, anche la presenza etrusca in Campania subì un forte ridimensionamento.
Gli ultimi decenni del V sec. a.C., infatti, videro aspri e continui contrasti tra i Greci e gli Etruschi e ciò determinò l'invasione della Campania da parte dei Sanniti i quali, dapprima con la conquista di Capua etrusca (426 a.C.) e successivamente di Cuma greca (421 a.C.), si impadronirono della Campania.
La maggior parte degli aspetti civili, sociali e religiosi degli Etruschi, per totale mancanza di documentazione letteraria, ci è, in parte, nota in quanto assimilata dal popolo romano.
Gli Etruschi usavano organizzare il loro territorio in formazioni di dodici città ed ognuna di esse, in piena autonomia, poteva battere moneta.
In questo periodo storico che va dal V al IV secolo a. C., si assiste ad una ribaltamento di egemonia territoriale che vede lo spodestamento degli etruschi da parte dei Sanniti che ne approfitteranno per invadere la Campania, mentre gli Etruschi sono impegnati a combattere con i Greci.
Ovviamente, tutti gli eventi bellici e non bellici che si verificano nella Campania dal V secolo in poi, non potevano non avere delle ripercussioni anche nel microcosmo dei Lattari e, pertanto, si vedrà come, secolo per secolo, anche per le varie città circostanti i monti Lattari ci saranno dei cambiamenti, dovuti ai mutamenti delle popolazioni e delle culture che si avvicenderanno in esse. 
Nel corso del V secolo a. C, una serie di cause concomitanti, fra cui l’emblematica sconfitta etrusca nella battaglia di Cuma del 474 a.C., schiuse la strada delle pianure costiere alle popolazioni sannitiche dell’entroterra appenninico e consentì la progressiva sannitizzazione di Nuceria che cadde in mano dei Sanniti e di un loro gruppo specifico, gli Alfaterni. Nuceria cambiò il suo nome originario di Noukria, aggiungendo il nome di Alfaterna che torna sulle monete dalla stessa coniate, mentre quelle con la menzione dei Sarrasti riconduce alle popolazioni della Valle del Sarno.
Possediamo solo pochi elementi relativi a Nuceria Alfaterna nel periodo compreso tra la calata sannitica ed il II secolo a.C..
Nel V secolo a. C. Marcina visse un periodo di grande prosperità economica e sociale: rinomata per ricchezza, eleganza e lusso, un luogo in cui le razze e le lingue trovavano facile ospitalità; essa era inoltre celebre per il culto delle arti e per lo sviluppo del commercio marittimo e terrestre con Nuceria. Il suo territorio, infatti, comprendeva anche l’attuale territorio di Cava de’ Tirreni ed era una cerniera tra l'area geografica dell'agro nocerino-sarnese e quella della penisola sorrentino-amalfitana di cui ancor oggi ne rappresenta la porta.
Particolarmente importanti furono i rapporti che gli Etruschi stanziatisi nel territorio di Marcina instaurarono con Pithecusa dove i Greci, che solcavano il Mediterraneo in cerca di nuovi mercati, erano approdati sulle coste del basso Tirreno, in quanto esse ricordavano, per clima e vegetazione, il suolo natio.
Marcina divenne in breve la base di commercio e il porto dal quale le loro piccole ed agili navi partivano alla volta degli altri approdi del Tirreno e vi dominò fino al 474 a.C., quando‚ gli Etruschi furono sconfitti nella battaglia di Cuma.
I ritrovamenti archeologici più recenti hanno messo in luce a Vietri delle tombe con corredo ceramico arcaico di stile corinzio.
Se per Marcina il secolo più fulgido fu il V, per Nuceria, fu, invece, il IV: è questo infatti il secolo che vide Nuceria vivere il suo periodo di floridezza civile, splendore politica ed opulenza economica.
Peraltro ciò è confermato da una circostanza, storicamente accertata ed oggettivamente significativa: nel corso del IV secolo a.C., la città, giocò un ruolo importante a livello politico, divenne, infatti, sede della potente Lega Nocerina, ottenendo quindi leadership della confederazione sannitica della Valle del Sarno, avente giurisdizione su di un territorio esteso dalle porte di Napoli al Golfo di Salerno e comprendente Pompei, Ercolano, Stabia, Aequa e Sorrento.
Alla fine del secolo, Nuceria si dotò, come Pompei, di potenti mura di difesa, discretamente conservate, di cui si sono trovati dei resti nella fortificazione dell’imponente cerchia muraria di Nuceria, in particolare il settore meridionale, dove si può anche apprezzare una delle notevoli torri che caratterizzavano le mura nocerine: nella cerchia muraria dovevano aprirsi quattro porte, una al centro di ogni lato, in corrispondenza delle due strade principali dell’abitato. Le mura sono databili al III secolo a.C., una fase storica in cui la città era ancora di cultura sannitica. Si sa, inoltre, che la Nuceria sannitica batté anche moneta propria e che, derivandolo dalle lingue etrusca e greca, elaborò un proprio alfabeto, detto appunto nocerino.
Come attestano iscrizioni e ritrovamenti archeologici, nel IV secolo a.C. a Nuceria erano presenti commercianti greci, tale presenza segnala come la stessa città fosse diventata meta e punto nevralgico dei traffici commerciali nel mediterraneo con le popolazioni orientali.
Anche in epoca repubblicana romana Nuceria mantenne intatta la sua leadership politica nel territorio della Valle del Sarno e fu una delle più importanti città dell'antica Campania. Ciò le riuscì grazie soprattutto al suo notevole sviluppo economico e commerciale, derivante dalla sua posizione di snodo di importanti vie di collegamento come la Via Stabiana che conduceva a Stabia, la via Nuceria - Pompei, la via Popilia che da Capua arrivava a Reggio Calabria.
Assai indicativo il suo rapporto con Roma, che, da un’iniziale contrapposizione durante le dure guerre sannitiche della fine del IV secolo a.C., si trasformò in un patto di fedeltà conservato nei secoli.
Nel periodo di declino etrusco che vide l’emersione delle popolazioni sannitiche anche negli altri centri campani, anche Stabia e Pompei, conobbero un ricco periodo sannitico, in cui le città dipendono fortemente da Nuceria tanto che verso la fine del IV secolo Stabia mostra i segni di una ripresa.
Il declino etrusco, difatti, aprì la strada alle popolazioni sannitiche dell’interno, che cominciarono a premere sulle fertili zone costiere. È dunque possibile che in fase arcaica Stabia abbia ricoperto il ruolo di scalo marittimo per i centri dell’entroterra intorno a Nocera, che in seguito sia stato soppiantato da Pompei. È inoltre possibile che il mutato equilibrio ingeneratosi a seguito di questi fatti abbia favorito una riorganizzazione parziale dell’abitato stabiano, forse decentratosi sulle circostanti alture collinari, se può essere interpretata come prova l’esistenza di una piccola necropoli alle pendici di Casola, in località Gesini, che, con le sue poche sepolture si riferisce ad un piccolo insediamento rurale che, non a caso, esordisce con le sue prime fasi di vita alla metà del VI secolo a.C. fino alla metà del IV.
Nel IV secolo, anche la Penisola Sorrentina fu occupata e Surrentum, entrando a far parte della lega nocerina insieme a Pompei, Ercolano, Nuceria, Stabia come altre città campane, fu soggetta alle popolazioni sannitiche.
Pare, però, che i Sanniti avessero concesso ai Greci di rimanere all'estremità della Penisola per custodire i luoghi sacri dedicati alle Sirene e ad Atena. Infatti a quei tempi la Punta della Campanella era già famosa presso i naviganti di tutto il Mediterraneo e da questi era conosciuta proprio con il nome di Ateneo o Sirenusio. In età sannitica l’Athenaion continuò ad essere importante come luogo di culto: l’importante scoperta[4] di  un’epigrafe rupestre in lingua osca databile al III-II secolo menziona tre Meddices Minervae che appaltarono e collaudarono i lavori per la creazione dell’approdo di levante che conduceva al Santuario. L’immutata consacrazione di Athena conferma che tale culto non aveva subito interruzione anche se aveva assunto ufficialmente il nome che la dea aveva in area sannitica e romana: Minerva.
Durante la seconda guerra sannitica (327-304 a.C.) Nuceria combatté contro i Romani, ma, dopo una fase di conflitti, nel 307 a.C. divenne alleata di Roma, conservando però una piena autonomia e continuando ancora a battere moneta propria: l’alleanza con Roma le procurò notevoli vantaggi.
Nel 289, dopo la definitiva vittoria contro i Sanniti, i Romani estesero la loro egemonia anche sulla penisola sorrentina: Sorrento e l'Ateneo furono assoggettate politicamente, ma sostanzialmente rimasero di cultura greca.
Nel 216, nel corso della II Guerra Punica, gli abitanti della Penisola si allearono con Annibale contro Roma e anche questi nuovi conquistatori rispettarono la grecità dei luoghi.
Nel III secolo a.C., Roma, vittoriosa sui Sanniti, impose a molte città della Campania, la condizione di alleata, ma agli inizi del I secolo a.C. gli alleati italici, che subivano vessazioni sproporzionate rispetto ai diritti goduti, reclamarono la cittadinanza romana. Viste respinte tutte le loro istanze insorsero, provocando la Guerra Sociale (91-89 a.C.) contro Roma, cui partecipò anche Stabia. Durante la guerra sociale, per la sua fedeltà a Roma, Nuceria fu ancora saccheggiata da parte di G. Papio Mutilo, comandante dei federati italici. Grazie a questa scelta, ottenne la cittadinanza romana ed i nocerini furono iscritti nella tribù Menenia
Alla fine del III secolo a.C., però, la sua fedeltà a Roma le costò la conquista e l’incendio da parte di Annibale. Nel 216 a.C. Nuceria fu distrutta da Annibale, ma risorse ancora più ricca e più forte e fu arricchita di edifici importanti come il teatro, considerato il maggiore di questa categoria edificato in Campania nel periodo ellenistico.
Anche Stabia, durante le Guerre Sannitiche, porto militare di Nuceria contro i Romani, fu assediata e costretta alla capitolazione nel 308 a.C.. A parte questa presa di posizione antiromana durante le guerre sannitiche, non abbiamo molte notizie su Stabia: la fedeltà di Stabia ai Sanniti induce a pensare che l’intero insediamento fosse abitato da genti provenienti dal cuore del Sannio, che si erano insediate su quella costa per un
Con la concessione della cittadinanza romana nel 91 a.C. la città si trasformò in Municipio Romano e la sua autonomia ebbe termine. In quest’periodo Nuceria si arricchì di splendidi monumenti, in parte tornati alla luce, come il Teatro, l'Anfiteatro e la grandiosa Necropoli di Pizzone.
Il 30 aprile dell’89 a.C. Stabiae fu conquistata e distrutta da Silla: si racconta di una memorabile difesa degli stabiani, tanto che Silla, dovette attendere fuori le mura fino a che non finirono i viveri all'interno della città. Silla decise di radere al suolo la città, troppo pericolosa per i Romani, che, per l’evidente ricchezza che ne avrebbe assicurata la ripresa e per la posizione strategica del suo porto, troppo importante per tutto l’hinterland campano.
La città, avendo comunque perso la sua autonomia amministrativa, fu sottoposta a Nocera: Stabia non scomparve, ma risorse non più come città fortificata. Mutò solo di forma: all'impianto urbano si sostituì un aggregato di ville adibite all'otium dei ricchi romani e le ville rustiche per la produzione agricola, riducendosi principalmente a luogo di villeggiatura.
Si sa che dopo la distruzione della Stabia preromana le colline di Varano divennero luogo preferito per gli ozi degli opulenti, colti e ricchi patrizi romani. Celebre a tal proposito la lettera scritta da Cicerone all'amico Marco Mario, che, come ricorda Di Capua, "...Nelle prime ore del mattino, leggendo, si gode, dal suo cubicolo, lo spettacolo meraviglioso del golfo, mentre egli (Cicerone) è costretto ad assistere, mezzo assonnato, a volgari spettacoli teatrali in Roma.”. La collina del Solaro ospitava, forse, le terme più famose dell'Impero: i valetudinari, dove i potenti di Roma si recavano per ritemprare il fisico e la mente dalle fatiche di governo.
Sulla collina di Varano, vennero alla luce le antiche ville imperiali romane.
In epoca augustea, o poco prima, a Nuceria vi fu dedotta una colonia e le fu attribuito il nome di Nuceria Constantia, per commemorare la sua antica fedeltà come alleata di Roma in questo primo periodo imperiale si costruirono o si riattarono i principali edifici pubblici.
In età neroniana è rinforzata con la deduzione di un’altra colonia: è di questi anni la rissa tra Pompeiani e Nocerini riprodotta nel celebre dipinto di Pompei che provoca la chiusura dell’anfiteatro pompeiano per ben dieci anni su decreto del Senato romano, come ci testimonia Tacito.
Durante la guerra sociale, anche Surrentum si ribellò a Roma scrivendo la sua pagina di storia: riconquistata insieme a Stabia nel 90 da Papius Mutilus con la lega nucerina partecipò all’insurrezione degli Italici.
Occupata dall’esercito italico fu definitivamente ricondotta all'obbedienza da Silla nell'89: dopo la pace, la deduzione di una colonia di veterani di Silla iniziò la definitiva romanizzazione della costa sorrentina.
Con la romanizzazione si assiste ad una grande opera di trasformazione del territorio.
L’impianto urbano sorrentino, risalente al periodo osco-sannita, riceve un nuovo assetto con la monumentalizzazione di alcune insulae dove sorgono terme, teatro, foro ed edifici pubblici annessi.
Con la completa romanizzazione della penisola e con la deduzione di una colonia di Augusto e, più in particolare, nell’età di Tiberio, la Punta della Campanella, abbandonato il culto di Minerva, acquistò una grande importanza strategica, essendo l’approdo più vicino a Capri, sede della residenza imperiale. A questa fase appartengono i resti più cospicui.
Sono tuttora evidenti fra la rada vegetazione, resti di strutture ritenuti pertinenti ad una villa romana disposti su 5 livelli. La terrazza inferiore, dove doveva sorgere l’antico tempio, è attualmente occupata dalla cinquecentesca Torre Minerva. La II terrazza ha conservato i resti di 4 piccole esedre con sedili in muratura, con funzione probabilmente solo decorativa  e di sosta. Fra la II e la III terrazza vi è un pavimento in cocciopesto limitato a nord da un muro pertinente probabilmente ad un ingresso della villa. Sulla III e IV terrazza resta quasi nulla ad eccezione di una cisterna e resti di una probabile torre di segnalazione. Sulla IV è anche l’accesso all’approdo orientale con epigrafe sulla parete rocciosa (a 10,50 m slm) e sulla V terrazza si nota una serie di muri paralleli addossati alla montagna. 
Numeroso è anche il materiale ceramico di età romana ed in particolare ceramica comune e a vernice nera, anfore da trasporto, ecc.. In ogni caso la maggior parte del materiale è stata rinvenuta in superficie visto che non sono mai stati condotti scavi sistematici dell’area per cui si spera che in futuro possano affiorare nuovi e più determinanti indizi per la ricostruzione.
Il particolare della testina raffigurante Athena é una produzione in terracotta proveniente dalla fossa votiva del Santuario dedicato alla dea. La statuina in terracotta a cui appartiene la testina era lavorata in due parti distinte, poi riunite.
Insieme ad altre statuette frammentarie di terracotta (V-II secolo a.C.) costituisce un oggetto votivo del santuario di Capo Ateneo. Il particolare in questione raffigura Athena che indossa un elmo con paragnatidi alzate; alle orecchie sono stati applicati con pastiglie in terracotta, degli orecchini decorativi. La resa del volto con ovale ben delineato la fanno risalire ad uno stile colto e discretamente evoluto nell’utilizzo della terracotta.
L'amenità del paesaggio, la facilità di collegamenti e la vicinanza con Capri, residenza imperiale, favorirono in epoca imperiale l'insediamento di numerose ville marittime lungo la costa, di cui una straordinaria testimonianza nella villa di Vedio Pollione.
Degli edifici della città antica restano poche tracce, mentre i reperti archeologici dalla preistoria all'età romana sono conservati nel Museo Archeologico della Penisola Sorrentina.



[1] Secondo la mitologia la fondazione di Sorrento sarebbe, infatti, da attribuire all'eroe greco Liparos, figlio di Ausone.
[2] (c’è chi indica i Teleboi nel VII sec.).
[3] Fondato da Ulisse.
[4] (1985) del prof. Mario Russo.

sabato 23 novembre 2013

La Cappella Minutolo del Duomo di Napoli di Massimo Capuozzo

La cappella Minutolo è stata resa famosa da Boccaccio che a Napoli lungamente e piacevolmente aveva soggiornato e che ambientò nel sepolcro di Filippo Minutolo una parte della novella di Andreuccio da Perugia (Decameron II, 5) in cui il giovane s’infila nel sarcofago del cardinale Filippo e ruba l’anello al defunto prelato.
La cappella, uno dei migliori esempi di architettura e di decorazione gotica, si apre sul fondo del transetto destro all’angolo del Duomo. Originariamente essa era situata nella Basilica Stefania, completamente demolita perché coincideva con lo sviluppo architettonico del transetto del nuovo edificio gotico, conserva tuttora la struttura gotica originaria: fu ricostruita come cappella gentilizia dei Capece Minutolo per volontà arcivescovo Filippo Minutolo quando questi, nel 1294 per volontà di Carlo II, aveva ripreso i lavori di costruzione della cattedrale sospesi alla morte di Carlo I d’Angiò.

La cappella presenta un bel pavimento a mosaico  e tarsie marmoree con al centro lo stemma di famiglia e risalente alla fine del XIII secolo.
Sulle pareti ci sono affreschi di epoche diverse. Accanto all’ingresso, sulla sinistra, sono raffigurati S. Antonio da Padova e Santa Caterina da Siena; segue nella cunetta Santa Maria Maddalena ricoperta dalla sua fluente chioma e poi le Storie dei Santi Pietro e Paolo e di altri santi e la bellissima Crocifissione, eseguiti tra il 1285 e il 1290 da Montano d'Arezzo.
Nel 1402 vi fu aggiunta una tribuna.
Sull'altare della cappella vi è il sepolcro del cardinale Arrigo Minutolo  c’è la tomba del cardinale Arrigo Minutolo († 1412), realizzata da marmorari romani. La cuspide, adorna di statuette e piramidi, presenta al centro lo stemma della famiglia ed è sostenuta da quattro colonne intagliate a bassorilievi poggianti sui dorsi di quattro leoni. 
La cassa sepolcrale, sostenuta da tre piccole colonne a spirale e da due statue raffiguranti la Mansuetudine e la Carità, è adornata da una Natività affiancata da un lato da Santa Anastasia e da San Girolamo che pone la mano sul capo dell’inginocchiato Arrigo raffigurato da bambino, e dall’altro S. Pietro e da S. Gennaro. Sotto l’urna sepolcrale è posto lo scalino dell’altare adornato con bassorilievi che rappresentano la Madonna del Principio attorniata dai dodici Apostoli. La statua giacente del Cardinale copre il sarcofago ed è circondata da quattro Angeli, due dei quali reggono il padiglione dove è raffigurato in rilievo il Crocifisso con la Vergine e San Giovanni
La tavola dell’altare è sostenuta da due piccole colonne e da lastra di marmo bianco adornata a destra e a sinistra dai due Sacerdoti dell’Antico testamento, Aronne e Zaccaria, con turiboli in mano. Una teca contenente Reliquie è posta fra le due figure. Ai piedi dell'altare vi è una lapide posta da Fabrizio Capece Minutolo che ricorda il diritto di patronato della famiglia sulla Cappella.
Sulla destra dell’altare c’è la tomba del cardinale Filippo Minutolo († nel 1301), opera di un seguace di Arnolfo di Cambio e caratterizzata da figure, prese in prestito dall'arte bizantina. La cassa è retta da piccole colonne tortili e riporta un’iscrizione che ricorda l'impegno della famiglia Capece Minutolo nel mantenere viva la cura della Cappella.
A sinistra dell’altare c’è la tomba dell’arcivescovo di Salerno, già canonico della Cattedrale di Napoli, Orso Minutolo, morto nel 1327.
Nel muro destro c'è una nicchia con l'immagine di San Nicola di Mira.
Di fronte, a sinistra, è di grande interesse una pregevole icona di legno dorato con la Crocifissione e quattro Santi del senese Paolo di Giovanni Fei: questa era un altarino portatile del Cardinale Arrigo Minutolo, davanti alla quale dovunque egli celebrava la messa. Più avanti una porta laterale antistante all’altare permette l’accesso alla sagrestia, decorata con ovali raffiguranti Vescovi e Cardinali della famiglia.
Massimo Capuozzo

giovedì 21 novembre 2013

La cappella del Succorpo Il duomo di Napoli: la cappella del Succorpo. Di Massimo Capuozzo

La cappella del Succorpo, detta anche confessione di San Gennaro o cappella Carafa, corrisponde alla cripta della cattedrale.
La cappella, limpido esempio di architettura rinascimentale e luogo di singolare ed intensa suggestione, fu eretta tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento per volontà del cardinale Oliviero Carafa (1430 - 1511), che riportò in città le reliquie di san Gennaro, sottratte furtivamente, nell’831, da Sicone I, principe di Benevento, dal luogo di sepoltura di Napoli – cimitero catacombale di San Gennaro. Le spoglie mortali del santo furono custodite a Benevento fino al 1154, ma il re normanno Guglielmo I, non ritenendo più la città un luogo sicuro e temendo che potessero essere di nuovo trafugate, dispose che fossero segretamente trasferite presso l’Abbazia di Montevergine, dove furono  tenute nascoste per secoli dai monaci Benedettini e dove rimasero fino al momento dell’ultima traslazione.
La Cappella del Succorpo è unanimemente considerata, fin dall'epoca della sua costruzione, «la principessa de tucte le cappelle» pertanto, fino ad oggi ha goduto pressoché ininterrottamente di una singolare fortuna nella storiografia artistica europea – come ha sottolineato di recente Francesco Abbate in La scultura napoletana del Cinquecento del 1992 – che ne ha ripercorso le varie tappe.
Conclusasi l'avventura francese di Carlo VIII in Italia e succeduto sul trono di Napoli Federico III d’Aragona dopo la prematura morte di suo nipote Ferrante II, noto come Ferrandino, il 13 gennaio 1497 l'arcivescovo Alessandro Carafa compì la solenne traslazione nel duomo di Napoli delle reliquie di San Gennaro dall'abbazia di Montevergine e della quale era abate commendatario suo fratello il Cardinale Oliviero Carafa, che aveva chiesto ed ottenuto da Alessandro VI Borgia il permesso di poterle trasportare a Napoli.
Per la conservazione delle reliquie, il cardinale Carafa fece costruire una cappella, nota come il succorpo di San Gennaro, che, iniziata nell'ottobre del 1497 quasi sicuramente su progetto del giovane Donato Bramante che, come emerge da uno studio di Roberto Pane – Guillermo Sagrera, architetto del 1962 – venne in città su invito di Oliviero Carafa, e che il progetto fu tradotto in opera e terminato nel 1506 dallo scultore lombardo Tommaso Malvito (seconda metà del XV secolo – 1524) che ne diresse la realizzazione con suo figlio Giovan Tommaso.
I lavori per ricavare la cappella nell’area sottostante il presbiterio furono iniziati con notevoli difficoltà di carattere tecnico e statico nel 1497. Nel 1501 furono alzate le colonne e nel 1506 fu consacrata diventando anche il definitivo luogo di sepoltura del cardinale Carafa. Nel 1891 la cappella fu egregiamente restaurata da un discendente dei Carafa ai quali la cappella gentilizia appartiene.
La cripta, opera pregevolissima che si include nel raffinatissimo filone del Rinascimento napoletano – particolare declinazione dell’arte rinascimentale – costituisce uno dei più notevoli monumenti rinascimentali di Napoli: si tratta, infatti, dal punto di vista decorativo e scultoreo, dell'insieme più significativo del Rinascimento napoletano sia per la qualità e per l'omogeneità della realizzazione sia per il suo eccellente stato di conservazione. Le scale d’accesso erano decorate con rilievi mitologici ed allegorici tolti nel 1741-44. All’ingresso ci sono  le porte bronzee cinquecentesche eseguite su disegno di Malvito e decorate dagli stemmi dei Carafa.
L’interno si presenta come un ambiente rettangolare (12 x 9 m), interamente rivestito di marmi scolpiti e diviso in tre navate da dieci colonne. Notevole e di grandissimo molto pregevole è il pavimento cosmatesco, con l’utilizzazione di tessere e tasselli colorati.
La decorazione si compone di lesene con grottesche ed elementi allegorici che adornano i dieci piccoli altari laterali: cinque absidiole per lato, con altrettanti altari, con diverse decorazioni di puro sapore rinascimentale.
In fondo alla Cappella si apre un’abside quadrata, coperta a cupola e ornata da ritratti in due medaglioni.
Nell'abside, fra due altari, sotto l’altare centrale c’è l’urna bronzea del 1511 che racchiude l’olla fittile medievale – vaso panciuto corto e dal collo largo e di ceramica non smaltata – in cui sono conservati i resti mortali di san Gennaro.
Ai lati, l’intradosso delle finestre è ornato da angeli con lo stemma dei Carafa. Si ricorda ancora una figura di Madonna con Bambino e gli Evangelisti Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
Nella navata centrale campeggia a fronte dell'altare la notevolissima scultura del committente Oliviero Carafa inginocchiato in preghiera, su di uno sgabello di qualità nettamente inferiore rispetto alla stessa figura del presule genuflesso, un tempo attribuita a Giovan Tommaso Malvito o addirittura a Michelangelo, ma che oggi si propende ad attribuire ad uno scultore romano non precisamente identificabile. In ogni caso, la nitida geometria rinascimentale che ospita la statua del committente in preghiera, trasforma l'ambiente in un luogo dove spirito, pietra e carne si compongono e si incontrano, in una dimensione inedita e teatrale.
Volgendo lo sguardo al soffitto di Tommaso Malvito, esso è frazionato in diciotto cassettoni, ornati da figure di santi e da quattro teste di cherubini: il soffitto è praticamente un cielo composto di diciotto formelle di cui dieci hanno il nome del Santo in una tabella e otto son riconoscibili dai simboli iconografici. Come pietre angolari ai quattro angoli del soffitto campeggiano le figure dei quattro principali dottori della Chiesa occidentale San Gregorio Magno, Sant’Agostino da Ippona, Sant’Ambrogio e San Girolamo, tutti e quattro a stringere verso il centro del cassettonato i primi sette patroni della città di Napoli ritratti in busti e divisi per gruppi ed ovvero San Gennaro, Sant’Agrippino, Sant’Aspreno, Sant’Atanasio, San Severo e Sant’Eufebio con Sant’Agnello. I bassorilievi del soffitto includono inoltre episodi di David e Giuditta.
Nell'esecuzione dei marmi Tommaso Malvito ebbe come aiuti il figlio Giovan Tommaso, Nunziato d'Amato ed altri della sua vasta bottega.
Tommaso Malvito è stato un grande maestro che ha saputo respirare la cosiddetta atmosfera dell’arco: dopo un probabile tirocinio nella sua terra d'origine, confermato da alcuni stilemi rilevabili nelle opere documentate, la storiografia è sostanzialmente concorde nel ritenerlo attivo a Napoli all'inizio degli anni Settanta del Quattrocento, coinvolto in alcuni importanti cantieri scultorei presso i quali erano operanti maestranze lombarde, come l'altare Miroballo a S. Giovanni a Carbonara e la Tomba di Diomede Carafa a S. Domenico Maggiore. Dopo un periodo marsigliese al seguito di Francesco Laurana, giunse la definitiva consacrazione di Malvito nell'ambito della produzione scultorea partenopea con la direzione del cantiere del succorpo del duomo, celebrato dai contemporanei come la reina di tucte le cappelle. Se è dubbia la paternità del progetto architettonico, non sussistono dubbi nel riferirgli la regia della vasta decorazione marmorea che si sviluppa lungo le pareti e il soffitto. Tale impresa ha contribuito a definire Malvito come artista che eccelse soprattutto nell'ambito della decorazione a grottesche. Le pareti sono infatti articolate da paraste ornate con candelabre di estrema delicatezza e fantasia nell'intaglio, alcune delle quali messe in relazione ad analoghi esempi realizzati da Andrea Bregno a Roma. La rappresentazione della figura umana è invece relegata al soffitto, che presenta riquadri con la Madonna col Bambino e busti di santi, di più debole esecuzione, ma segnando comunque un momento elevatissimo della stagione rinascimentale italiana.
Un ruolo fondamentale riguarda il committente, Oliviero Carafa tipica figura di uomo del rinascimento: Cardinale e uomo d'armi, capo della flotta cristiana contro i Turchi, prese Smirne. Ebbe larga parte in un disegno di riforma della Chiesa, preparato per ordine di Alessandro VI nel 1497, e, come protettore dell'ordine domenicano, sostenne Savonarola, finché questi non si ribellò al pontefice. Promosse le arti a Roma fece costruire la cappella Carafa in S. Maria sopra Minerva affrescata da Filippino Lippi, fece restaurare S. Lorenzo fuori le mura, S. Maria in Aracoeli, a Napoli fece costruire il succorpo del duomo e protesse letterati e filosofi.

Massimo Capuozzo

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