domenica 10 aprile 2022

Filippo Lippi e la Madonna col Bambino e angeli di Massimo Capuozzo. In "A tu per tu con l'opera d'arte"

L’incantevole Madonna col Bambino e angeli della Galleria degli Uffizi, detta anche Lippina, è una tempera su tavola (92x63,5 cm) di Filippo Lippi, databile al 1465 circa.


Secondo gli studiosi di Storia dell’Arte si tratta forse del più famoso dipinto di Lippi ed è sicuramente una delle icone del Rinascimento. Di certo fu un’opera molto ammirata dai suoi contemporanei e diventò ben presto un punto di riferimento per tutte le successive Madonne col bambino, soprattutto per quelle nate in ambito della bottega di Verrocchio e specialmente quelle di Botticelli che, dal 1464 al 1467, si era formato proprio presso la bottega di Filippo Lippi, prima di trasferirsi in quella del Verrocchio, che frequentò tra il 1467 e il 1470, anno in cui si mise in proprio.





Il dipinto è importante anche perché è considerato una delle rare opere completamente autografe del maestro, senza alcun intervento di bottega.
Non si conosce la circostanza della committenza, se mai ce ne fu una, e neanche la datazione precisa dell'opera per la mancanza di documenti contemporanei.
Siccome però il ritratto della Madonna è abitualmente riferito a Lucrezia Buti, la giovane monaca pratese che divenne la compagna di Filippo Lippi nelle cui fattezze si celerebbe il suo ritratto – si tratta tuttavia solo di un’ipotesi non suffragata da elementi documentari – è probabile che l'opera appartenga al periodo degli affreschi del Duomo di Prato realizzati dal 1452 al 1466.
Le dimensioni insolite hanno fatto ipotizzare che si trattasse di una celebrazione per un'occasione privata e personale dell'artista, come la nascita del figlio Filippino nel 1457, anche se un’altra tradizione, ormai più consolidata, indica un ritratto del figlio Filippino nell'angelo in primo piano che si volge verso lo spettatore, piuttosto che nel Bambinello: questo sposterebbe la possibile datazione del dipinto al 1465 circa, quando il bambino aveva già otto anni, un anno che concorderebbe anche con l’analisi stilistica comparata agli affreschi.
Quest’opera apparteneva al corredo decorativo della Villa medicea del Poggio Imperiale e dal 1796 si trova nelle Gallerie Granducali, nucleo originario degli Uffizi.
L’inedita impaginazione e l'uso innovativo del colore della Lippina configurano una fuga in avanti del maestro sui suoi tempi se si considera che l’opera è stata realizzata fra il 1457 e il 1465: le figure sono infatti collocate in modo del tutto insolito davanti ad una finestra aperta su un paesaggio a volo di rondine, la cui dilatazione spaziale fino alla linea d'orizzonte sembra protrarsi oltre il supporto pittorico, secondo un preciso richiamo alla pittura fiamminga.
Anche per le figure in primo piano lo spazio è illusionisticamente dilatato, come si osserva nella disposizione in profondità degli angeli, in alcune linee di forza prospettiche – è esemplare infatti è l'ala dell'angioletto in primo piano proiettata fuori del dipinto, oltre la cornice – e infine nelle ginocchia della Vergine che, appena ruotate, contribuiscono ad evidenziare l’effetto di profondità.
Nuovo è il taglio ravvicinato all'altezza del ginocchio – oggi noto come piano americano – con le figure più che a mezzo busto, raccolte nell’esiguo spazio delimitato dalla cornice in pietra serena: questo rende la composizione simile a numerosi rilievi plastici eseguiti dagli scultori fiorentini contemporanei di Filippo Lippi.
Nuova è la collocazione del Bambino, retto da due angeli piuttosto che dalla Madonna: uno voltato e sorridente in primo piano e l’altro seminascosto dietro.
Nuovo è infine l'uso straordinario del colore: al posto dei colori tradizionali Lippi usò infatti un'illuminazione chiara e tersa, con un effetto di osmosi atmosferica che soltanto Leonardo, decenni dopo, avrebbe saputo riprendere.
L'effetto naturalistico di quest’opera sorprese molto i contemporanei, che cercarono, senza riuscirci completamente, di replicarne gli effetti.
La scena mostra una grande finestra che si apre davanti a un vasto e variato paesaggio affacciato sul mare, ricco di vegetazione con grandi rocce ed edifici.
In primo piano si trova la Madonna, seduta su un trono di cui si intravede solo il morbido cuscino ricamato e un bracciolo intagliato mentre contempla il figlio verso il quale rivolge un gesto di preghiera: il bambinello paffuto, coperto dalle sole fasce, risponde allo sguardo di Maria e, sostenuto da due incantevoli angeli bambini, protende le braccine verso di lei.
La Madonna è sistemata di tre quarti, mentre il volto è quasi girato di profilo. La sua espressione, dolce e mite, è piuttosto malinconica, come se già presagisse il suo futuro destino di madre: le sue mani giunte in preghiera, sembrano infatti voler quasi allontanare il tremendo destino della Passione del figlio.
A lei fa da contrappunto l’angelo in primo piano che, con volto sorridente, rivolge divertito lo sguardo fuori del dipinto per coinvolgere lo spettatore e richiamarne l’attenzione: il suo atteggiamento giocoso bilancia la compostezza pensosa della Vergine, conferendo al dipinto un risultato di straordinario equilibrio emotivo.
L’immagine sacra è interpretata con profonda umanità, conferita sia dall’espressione degli affetti sia dalla scelta delle vesti e delle acconciature ispirate alla moda contemporanea.


L'elaborata acconciatura della Vergine è raffinatissima, composta da una coroncina di perle e di veli impalpabili che si intrecciano ai capelli: un dettaglio che, richiamando le acconciature proprie delle nobildonne fiorentine contemporanee, mostra l’estremo virtuosismo dell’artista che fu ripreso in tutto il Secondo Quattrocento fiorentino: se ne trova ad esempio una foggia identica nel Ritratto di fanciulla di Andrea della Robbia al Museo del Bargello, leggermente posteriore (1470 circa).
Anche il vestito – con pieghe ritmate ed eleganti e con giochi della luce che riportano fedelmente la consistenza del velluto blu – è raffinatissimo e ferma automaticamente l'osservatore ad un esame più dettagliato della figura sacra.
Le perle che compaiono sullo scollo del vestito, sull'acconciatura e sul cuscino, erano simbolo biblico della purezza per le giovani spose, ed è ripreso dal Cantico dei Cantici.
Le aureole sono appena accennate, sottili cerchi come raggi di luce che non coprono il paesaggio retrostante secondo la grande lezione fiamminga.
La composizione ebbe fin da subito grande successo e fu presa a modello da molti artisti, fra i quali il giovane Botticelli, allievo di Lippi. Esistono alcune copie di Andrea del Verrocchio e del giovane Sandro Botticelli (una alla Galleria dello Spedale degli Innocenti di Firenze), che non raggiungono però un effetto altrettanto vivido.

Lo stesso Lippi ne fece una nuova versione nel 1465 circa, oggi conservata nell'Alte Pinakothek di Monaco di Baviera, anch’essa molto bella, ma incomparabile alla Lippina.

lunedì 22 novembre 2021

Maria degli Albizi: pictrix in fabula

 

Ho sempre trovato stimolante cercare di fare luce sulla storia delle artiste, cercando di colmare qualche (parecchie) lacune dei testi di Storia dell’Arte e dando il giusto peso alle figure storiche a mano a mano che emergono dalle nebbie del passato: artiste che si potettero occupare di arte in un mondo che non dava loro spazio.

Tra le prime donne artiste in Italia, a Bologna, ci fu Caterina de’ Vigri, fondatrice e prima badessa del convento delle clarisse del Convento del Corpus Domini di Bologna: fu musicista, miniaturista e pittrice. Sempre a Bologna emerse la prima scultrice europea Properzia dei Rossi della quale ho già trattato in un mio precedente articolo della serie “La storia le storie”.
In Toscana la prima pittrice che sfugge all’anonimato è Maria di Ormanno degli Albizzi che nacque a Firenze nel 1428.
Maria era la nipote di Rinaldo degli Albizzi, capo del partito aristocratico guelfo a Firenze, ostile a Cosimo de’ Medici: suo padre Ormanno e suo nonno Rinaldo furono esiliati quando Cosimo, nel 1434, tornò a Firenze e si riaprì la faida fra le due famiglie.
La piccola Maria visse il tumulto della loro condanna, della partenza e della confisca dei beni di famiglia, durante un esilio ad Ancona da cui suo nonno Rinaldo non tornò più a Firenze.
Maria però non accompagnò la sua famiglia in esilio, ma a dieci anni nel 1438 diventò novizia nel “convento di Santa Caterina al Monte”, detto “il San Gaggio”, situato sulla via per Siena appena fuori le mura di Firenze. La dote per entrare in convento fu pagata tramite il Comune fiorentino.
Questo convento offriva degli importanti legami familiari, una comunità aristocratica degna di una Albizi e una biblioteca straordinaria, ereditata dal cardinale Pietro Corsini, patrono di quella istituzione religiosa.
L'inventario della biblioteca elenca ben 132 testi religiosi, tra cui le “Lettere” di San Paolo, San Girolamo e San Bernardo, le “Omelie” di San Giovanni Crisostomo, le “Prediche” di Innocenzo III, Clemente VI, gli “scritti” di San Pier Damiani e di Jacopo da Varazze nonché le opere dottrinali di San Gregorio, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino e San Girolamo. C'erano inoltre Bibbie, preziosi messali e breviari decorati che fornivano modelli per il lavoro di copia, così come c’erano libri di grammatica e dizionari destinati all'educazione delle suore.
Maria visse in questo ambiente culturale raffinato con le figlie di famiglie patrizie tra cui quelle degli Orsini, dei Rinuccini e anche quella dei Medici, fino a poco prima del 1471, quando scomparve dagli elenchi delle residenti del convento.
Le monache del “San Gaggio” copiavano breviari e manoscritti per i frati agostiniani della Basilica di Santo Spirito a Firenze e per il nuovo “convento di Santa Monica” della suore agostiniane; esse erano anche attive nell'industria tessile e producevano lini di alta qualità ricamati con fili d'oro.
L'opera più notevole di Suor Maria – e per me di significativa importanza – è un suo autoritratto che si trova nella bellissima pagina miniata di un breviario – il Ms. Cod. 1923 della “Biblioteca nazionale austriaca” di Vienna – da lei firmato e datato 1453.
Si tratta, allo stato dei miei studi, del primo autoritratto anche datato di una artista nel Rinascimento italiano.

Questa posizione evidenziata in calce del foglio e la firma latina trasmettono tutto l'orgoglio di Maria degli Albizzi e del suo status sociale di essere parte dell'aristocrazia fiorentina.
Uno studio approfondito del volto e del cartiglio – in John William Bradley A Dictionary of Miniaturists, Illuminators, Calligraphers, and Copyists: With References to Their Works, and Notices of Their Patrons, from the Establishment of Christianity to the Eighteenth Century – mostra che essi furono disegnati per primi a punta d'argento, e successivamente furono dipinti l'abito, il bellissimo cartiglio e il bordo del foglio.

Sebbene per molti secoli non rientrasse nelle prerogative di una suora e in genere di una donna mettere in mostra il proprio lavoro, per non parlare di eseguire autoritratti, né di fare riferimento al proprio status sociale quale membro dell'aristocrazia né ai propri legami di pietà filiale nel rendere omaggio alla sua famiglia decaduta al rango di esuli in un contesto tipicamente religioso, Suor Maria si è consentita ugualmente di mostrare se stessa, i suoi legami familiari e la sua arte.
Per bilanciare l’atto di orgoglio però ella si mostra in una postura devota e l'iscrizione rimanda alle parole “ancilla Domini” e al gesto di accettazione della Vergine durante l’Annunciazione, rendendo la sua immagine simile a quella umile della Madonna, secondo quanto si addiceva ad una suora agostiniana.
La sua immagine è incorniciata da un cartiglio con questa iscrizione latina che la descrive appunto "Ancilla Iesu Christi Maria Ormani filia scripsit MCCCCLIII".
L’iscrizione riferisce il nome di suo padre, ma tralascia il cognome di famiglia.
Maria ha abbozzato il suo volto a piè di pagina del “frontespizio dell'Avvento”, ma non ha dipinto il bordo o la maggior parte delle iniziali. In base allo stile, le altre iniziali e i bordi del breviario furono rifiniti da miniatori dell'Italia settentrionale negli anni '70 del Quattrocento.
Il ritratto di Maria differisce dai ritratti femminili laici fiorentini della metà del XV secolo per la posa frontale e per lo sguardo diretto.
In questo ritratto-firma Maria degli Albizzi ritrae se stessa davanti a uno sfondo a scacchiera d'oro e d'azzurro. La sua testa è china con una leggera inclinazione a sinistra, e metà del suo profilo è più prominente dell'altra. Le sue mani sono raffigurate in posizione di preghiera, con i palmi uniti e le dita che si toccano leggermente. Maria è adornata con un tradizionale abito da suora bianco e nero che le incornicia il viso e la sua immagine è incorniciata dal cartiglio, costituito da un rotolo a cascata con il testo.
I turbinii illustrati escono dal bordo rosa dei ritratti nei colori verde, blu e rosso. Il manoscritto stesso è decorato con lamina d'oro e volute decorative all'interno di uno spesso bordo che circonda il testo principale. Il testo è trascritto con il tradizionale inchiostro nero e rosso con un sottile bordo blu che lo separa dall'illuminazione del manoscritto.
Questo si sa di Suor Maria degli Albizi e che morì prima del 1471.
Massimo Capuozzo

http://salottoculturalestabia.blogspot.com/2013/01/la-storia-le-storie-la-storia-di.html

martedì 1 settembre 2020

La deposizione di Cristo di Pontormo di Massimo Capuozzo

Dedicato al Professor Philippe Daverio
dalle cui opere ho tratto, nei miei limiti,
la capacità di comunicare la Storia dell'Arte,
cercando di accattivare con ironia i lettori.
Mi mancheranno i suoi voli, testimoni della
sua inusitata competenza.
Grazie Prof. di tutto quello che, pur
non conoscendomi, mi ha dato! 

https://www.youtube.com/watch?v=kjVb2x4iCh4 Copia e incolla questo link

Quel Trasporto di Gesù, passato poi nei manuali di Storia dell’Arte come la Deposizione, è uno dei massimi capolavori del Manierismo, una pala sorprendente, eseguita per la “Cappella Capponi”, nella piccola “Chiesa di Santa Felicita” a Firenze.


Il giudizio negativo sull’opera espresso da Vasari è una delle cantonate che spesso prendono i critici d’arte, quando non si attengono a una lettura oggettiva su tutti i livelli, ma si fanno vincere dai loro preconcetti di natura estetica. A Vasari non piacque questo dipinto, con cui invece Pontormo sembrava aver voluto sfidare se stesso, molto probabilmente perché il Maestro aveva rotto del tutto gli schemi con il passato ossia la Maniera che lui invece amava tanto.
Con quest’opera, Pontormo sembra essere saltato a piè pari in un'altra epoca, ancora lontana da quel 1528, e preannuncia l’inizio dei tempi nuovi del “Barocco”. Osservando il dipinto, la norma rinascimentale, logorata dal suo stesso interno, si disfa davanti ai nostri occhi come si disfaceva davanti a quelli di Vasari.
Molti avvenimenti erano trascorsi: grandi mutamenti politici, forti sconvolgimenti sociali e una crisi religiosa devastante senza pari avevano infranto tutte le certezze su cui si era poggiato il Rinascimento. Questo clima di incertezza non poteva non riflettersi su un animo sensibile come quello di Pontormo e tantomeno non lasciare, dentro di lui, lacerazioni e ferite profonde. Nella sua vita c'era stata inoltre un'esperienza artistica fondamentale: la visione della volta della Cappella Sistina nel 1512 durante il suo viaggio a Roma - precipitoso come una fuga. Per lui, come per molti artisti della sua generazione, era stata una rivelazione destinata a lasciare tracce profonde.
Di quella realizzazione titanica, Pontormo aveva colto proprio l'elemento inquieto, irrazionale: le sproporzioni delle figure, l'uso complesso e scomposto della prospettiva, l'introduzione di figure e di iconografie complesse, i colori freddi e innaturali. Ma il giovane pittore aveva anche dolorosamente assimilato che il tempo dell'equilibrio classico e dell'armonia era finito per sempre, rivedendo in sé il tormento di Michelangelo e il suo stesso carattere schivo e scontroso.
Fra i mille aneddoti che ci riferisce, Vasari racconta che il Pontormo si era imposto una sorta di autoisolamento di tre anni nella cappella Capponi, cui interdisse l’accesso a tutti, perfino agli stessi committenti, chiudendo il vano con un tramezzo di legno, prima di svelare al mondo, nel 1528, questo capolavoro “con stupore di tutta Firenze”.
Ed è davvero stupefacente questa Deposizione che ci racconta di un tormento, di un'inquietudine e soprattutto dell'emergere di un'incertezza, che non è solo quella di Pontormo, ma di una generazione intera di intellettuali che avevano posto fede nella centralità dell’uomo e della sua onnipotenza come per esempio Ariosto, che giunge ad affermare che il giudizio umano spesso erra, o come Machiavelli, che si rende tristemente conto di come la virtù sia spesso ostaggio della fortuna.
Prima di realizzare il dipinto, Pontormo lo studiò a lungo, tanto che esistono numerosi disegni preparatori non solo della tavola, ma anche della cappella Capponi più in generale. Per realizzare la pala non disegnò a mano libera, ma si servì del metodo del trasporto dal cartone disegnato a carbone sul verso e ricalcato direttamente sulla tavola ingessata.
La struttura dell’opera e il tipo d’impaginazione adottati danno alla scena un accentuato verticalismo che altera audacemente il più stabile e tranquillo schema piramidale di solito utilizzato: Pontormo concepì, infatti, il dipinto completamente proiettato verso l’alto, secondo il punto di vista dal quale lo spettatore lo poteva guardare, per questo i personaggi sono collocati su un rilievo artificiale dal sapore teatrale.
L’articolazione spaziale è complessa, movimentata, e in essa lo spettatore prende parte all’intreccio del dipinto e alla narrazione di quest’ultima scena della Passione, che ruota tutta intorno ad una sorta di cardine invisibile.
La mancanza di ogni riferimento prospettico sublima la ricostruzione scenica, affollata dai corpi degli undici personaggi che, tranne i due in primo piano, sembrano sospesi nel vuoto davanti a una sorta di scena teatrale, realizzata anche grazie alla scelta attenta dei colori. A causa della mancanza di riferimenti prospettici, dell’equilibrio instabile delle figure in primo piano e delle figure più in alto, che sembrano fluttuare nel vuoto, non è, infatti, chiaro se essi stanno portando Gesù dalla Madonna o se lo stanno portando al sepolcro.
La mancanza di un punto fermo fa assomigliare la composizione a un moto perpetuo, a un divenire continuo, messo in evidenza dalla curva del corpo abbandonato di Gesù cui corrisponde, quasi specularmente, il ritrarsi della Vergine colta da malore.

Il centro della composizione è costituito dal viluppo di mani intrecciate delle figure, quasi aggrovigliate tra di loro, che sembrano confusamente accatastate l'una sull'altra: esse si accalcano intorno al corpo di Gesù e alla Madonna, senza più nulla di visibile che le sostenga, eccetto la potenza della tragedia che si sta consumando ed eccetto il dolore che avvolge e lega ogni personaggio.
Il loro gioco di sguardi è una continua epifania del dipinto che racconta una storia e poi, subito dopo, altre mille e, forse, tutta la Storia. Vari sentimenti, tutti della gamma del dolore, percorrono gli sguardi dei personaggi, dalla compassione, all’angoscia, alla desolazione. Ma più che un vero dolore, Pontormo mette in scena una sensazione di smarrimento, di una fissità e di un silenzio metafisico, di sospensione non solo del moto, ma del respiro stesso, tutto dovuto alla presa di coscienza dell'ineluttabilità della volontà divina.
Su tutto prevale lo sbigottimento Qualcuno guarda verso di noi con occhi spalancati, attoniti: sono gli occhi di chi è immerso in un dramma spaventoso e che la sofferenza ha reso coscienti dell’ineludibilità del dolore.

Dal dipinto scaturisce la sensazione di una disperazione profonda e sconfortata.


Le figure umane, allungate e sproporzionate, sembrano allucinate e sono il segno più tangibile della volontà del Pontormo di rompere con il passato in una contrapposizione forte e decisa che gli fa tagliare la composizione con linee geometriche, le stesse che si ritrovano nelle campiture piatte dei tessuti dalle variazioni minime di colore.
A questa Deposizione sembra mancare un elemento essenziale per questo genere di immagini: la Croce.


Essa però c’è, ma è sottintesa, forse ridotta a puro simbolo, la cui assenza quasi non si percepisce per il tumulto dei personaggi e delle vesti, o forse perché la posa della Madonna col suo manto azzurro inconsciamente ce la ricorda, o forse perché anche le altre figure in alto, tendono ad assumere una forma di croce nel complesso dei toni azzurri.


Entrando nel dipinto dalla parte centrale in basso, quella più vicina allo spettatore, un giovane ci guarda: i suoi occhi, l'espressione del suo viso, trasmettono lo sbigottimento e la disperata ricerca di una spiegazione di ciò che non può essere spiegato. La posizione del suo corpo dà l'idea di quanto grande debba essere la forza, necessaria per sostenere il peso della tragedia immane che gli grava addosso.
Su di lui, sullo sfondo di un cielo azzurro, ma che tende al grigiastro, 
un gruppo di dolenti sostiene il corpo di Gesù morto. Un altro gruppo circonda e sorregge quello dalla Madonna che sta per cadere svenuta. Siamo in un momento sospeso, al di là del tempo e dello spazio, in un’assenza quasi totale di gravità.
Di impatto colpiscono i colori così chiari e così innaturali: prevalgono i toni del celeste e dell’azzurro in cui l’azzurrite si mescola con la biacca, con il nero e con il lapislazzulo, soprattutto nell’impianto centrale in cui si evidenzia la Madonna e il dipanarsi della sua veste che si distende e si gonfia per gran parte del dipinto.
La maggior parte dei pigmenti è impastata con la biacca, per questo l’opera si illumina indipendentemente dalla provenienza della luce, sebbene Pontormo l’abbia organizzata derivante da destra, e crea degli effetti singolari come per esempio il volto della ancella alle spalle della Vergine che, colpito dalla luce radente, rende pallidamente cinereo il volto della donna perché in ombra e che le lambisce solo i capelli. Gli accostamenti cromatici passano continuamente da tonalità più calde e dolci a sfumature più fredde e acide.
L’insieme dei colori, quasi sfiorati da una luce straordinaria e soprannaturale, è chiaro, vivo intenso con la preponderanza di sfumature rosa e azzurre, alternate al verde e a tonalità di uno arancio smagliante.
Molti colori non sono nemmeno descrivibili: ci sono i rosa malva e salmone, i verdi smeraldini e terrosi, tanti azzurri diversi, il giallo arancio, il rosso vermiglio vivo, il rosa cangiante nell’azzurro, il verde cangiante nel giallo che danno effetti cromatici quasi "stupefacenti”.
Strettamente connesso al colore è l’uso della luce che insieme al colore, a Vasari parvero «senz'ombra», che non seguivano certo la rigida «maniera» del tempo, che poi era la forma mentis “accademica” vasariana. Pontormo stemperò i colori con toni più chiari che riducono le ombre al minimo, talvolta esse sono quasi inesistenti tanto che sempre Vasari diceva che le tinte impiegate erano talmente chiare e così simili nell'intensità fra di loro, che le parti in piena luce erano a stento distinguibili da quelle appena in ombra e che quelle in penombra da quelle completamente in ombra. Il corpo di Gesù e quello dei due giovani che lo sostengono sono colpiti da una luce forte, che lascia in penombra le altre figure, fino a perdersi nell’oscurità del fondo. Questa trasparenza delle ombre toglie qualsiasi consistenza ai volumi e quindi peso ai corpi. Gesù balza in primo piano, pallido quasi esangue: ha le labbra viola, la barba rossiccia, i riccioli tanto naturali quanto perfetti, i contorni sfumati di rosso delle palpebre che le rendono più vive. I due giovani in primo piano a sinistra, trasportano il suo corpo, procedono verso destra del dipinto: il primo tiene le gambe di Gesù ed è accovacciato, mentre il secondo che regge le spalle sta in piedi: entrambi rivolgono lo sguardo verso gli spettatori ed entrambi sembrano non percepire il vero peso del corpo, come dimostra il loro procedere in punta di piedi: alcuni studiosi hanno ipotizzato che queste due figure siano angeli, in attesa di spiccare il volo fuori dal dipinto, per portare Gesù nelle braccia di Dio Padre, che era originariamente raffigurato nella cupola della cappella.


L’attenzione è focalizzata poi sulla Vergine che occupa gran parte della parte centrale e destra col suo leggero manto azzurro. Ella ha il volto tormentato e leva un braccio verso Gesù, arretrando come prima di perdere i sensi, circondata da quattro donne, ma quasi tutti i personaggi partecipano più o meno emotivamente all’episodio del malore.
In primo piano a destra, Maria Maddalena vestita di rosa, è ritratta a figura intera, di spalle, che accorre verso la Madonna con un fazzoletto per asciugarle le lacrime. Le ciocche dei suoi capelli sembrano lingue serpentinate, volutamente lasciate così. Non esiste alcuno scollo sul petto, dal rosa confetto si passa alla pelle senza nessuno stacco: sono colori che appaiono tatuati sulla pelle come appare anche nel San Giovanni in alto. La continuità della forma non vuole essere interrotta, e per questo motivo non esistono polsini nelle vesti dei personaggi. È probabile che i nudi della Sistina abbiano influenzato la fantasia di Jacopo Pontormo.
L’effetto finale è quello di un pittore che non è mai semplice e più che dipingere sembra modulare il disegno quasi come uno scultore. Gli incarnati sono eseguiti con biacca, vermiglione e un po’ di ocra rossa, mentre i capelli ricci sono realizzati con biacca, ocra gialla e ocra rossa: l’osservatore di fronte a questi incarnati coglie una sensazione che la tavola e le figure siano state raffigurate durante un sogno.
Un insieme unico di sfumature cromatiche tiene ancora segreto l’enigma profondo, che rende la “Deposizione” del Pontormo un capolavoro di tutti i tempi.


Pontormo è un pittore modernissimo, infatti, quest’opera racconta il dolore di chi resta, la vera e propria cognizione del dolore e della sua ineluttabilità. Per questo è apparso così vicino alla sensibilità sperimentalista contemporanea: non si spiegherebbe altrimenti come abbia potuto interessare artisti come Carlo Emilio Gadda o Pier Paolo Pasolini, che ripropose la “Deposizione” di Santa Felicita come un tableau vivant nel suo film la “Ricotta”.
La “Deposizione” non ha prospettiva rigorosa, né tantomeno ricerca spasmodica di bellezza e di perfezione. Il suo autore è un uomo che aveva saputo guardare oltre, non fermandosi alle tendenze imposte dagli altri, un pittore che ha saputo osare e trovare la cifra artistica, infrangendo regole e provando a guardare dove gli altri non sapevano vedere.
L’opera, recentemente restaurata, ha ritrovato i suoi brillanti colori originali grazie all’intervento puntuale del restauratore Daniele Rossi, mentre il Pontormo nei panni di Nicodemo continua a guardarci con occhi dolcemente stralunati dall'estremità destra del dipinto, in un autoritratto che sembra una firma.
Innovatore, anticipatore piuttosto che seguace dello stile di “maniera” del suo tempo, esponente di una pittura colta, intensa, spesso incompreso dai suoi contemporanei, eppure nessuno, nemmeno Vasari, mise mai in dubbio la sua insita virtù pittorica.

mercoledì 4 settembre 2019

Caravaggio e Rubens: due adorazioni dei pastori


Nella Pinacoteca civica di Fermo è esposta un’imponente pala d’altare dipinta da Pietro Paolo Rubens (Siegen 1577 – Anversa 1640).
La pala che rappresenta L'Adorazione dei pastori si trovava originariamente nella cappella Costantini del transetto destro della chiesa fermana di San Filippo.
L'Adorazione dei Pastori colpisce non solo per le sue dimensioni (300 x 192 cm), ma anche per la vivacità del colore e per la grande intensità emotiva.
L’opera fu dipinta a olio su tela e realizzata nel 1608 in soli tre mesi ed ha avuto una storia critica abbastanza controversa: la vera paternità dell’opera era stata dimenticata a causa della sua posizione periferica e del cattivo stato di conservazione. Furono formulate ipotesi attributive diverse infine, come la mano di un altro pittore fiammingo e caravaggesco, Gerrit van Honthorst che davvero ne ricorda lo stile. 
Nel 1927 il dipinto fu riconosciuto come autentico di Rubens da Roberto Longhi, che rimase folgorato dalla sua visione nella Chiesa di San Filippo Neri e la conferma dell’attribuzione giunse nel 1954 con il ritrovamento del contratto per la realizzazione del dipinto stilato nel marzo del 1608, tra Padre Flaminio Ricci, Superiore generale dei Padri Filippini a Roma, e lo stesso Rubens.
Rubens in quel periodo stava lavorando a Roma per i Padri Filippini e Padre Ricci, che era di Fermo, siccome nella sua città si stava ristrutturando proprio la chiesa del suo ordine dedicata a San Filippo, chiese al pittore di dipingere anche una tela per la nuova cappella Costantini, dedicata alla Natività di Gesù: il committente di questo dipinto era però Monsignor Sulpizio Costantini, vescovo di Nocera e fratello di Ulpiano Costantini, quest’ultimo uno dei membri fondatori della comunità oratoriana di Fermo. Nel 1594 monsignor Costantini aveva concesso una somma pari a 1500 scudi per il rinnovamento della chiesa, terminato nel 1607, e per l’erezione di una cappella gentilizia dedicata alla Natività. La cappella doveva essere arricchita da un dipinto per la cui realizzazione Padre Ricci si rivolse a Rubens.
Rubens completò la tela nel giugno dello stesso anno, essa fu arrotolata e spedita a Fermo nel mese di luglio e il compenso per il pittore fu di venti scudi.
Il pittore fiammingo scelse un'ambientazione notturna, come sarebbe avvenuto nell’Adorazione dei pastori dipinta da Caravaggio (Milano 1571 – Porto Ercole 1610) a Messina sette otto mesi dopo.
Il dipinto di Rubens sembra un omaggio a Caravaggio: egli aveva avuto modo di apprezzare artisticamente Caravaggio a Roma e di studiarlo durante i suoi otto anni di studio.
Sgarbi[1], parlando di queste due opere a confronto sostiene che Rubens si sia immedesimato “a tal punto in Caravaggio” che sembra “volerlo anticipare”. Non si sa se si siano mai parlati o incontrati di persona, in quest’ultima opera eseguita in Italia, Sgarbi dice che “lo sta interpretando”.
Il dipinto però richiama per impaginazione e per ambientazione notturna l’Adorazione dei pastori del Correggio (Correggio 1489 – ivi 1534), ora a Dresda, ma che Rubens doveva aver visto nella chiesa di San Prospero a Reggio Emilia.
Il gruppo centrale della Madonna con il Bambino costituisce il perno intorno al quale s’incardina la composizione e intorno al quale ruotano San Giuseppe e i pastori.
La disposizione dei personaggi di Rubens scandisce un andamento semicircolare che implica anche gli angeli in volo. Al centro Gesù bambino, adagiato nella mangiatoia emana un bagliore accecante. È lui l’unica fonte di luce dell’opera: la stessa paglia è stata realizzata con filamenti di luce che accentuano l’importanza che Rubens, da buon fiammingo, attribuiva anche ai dettagli in secondo piano.
Gesù Bambino è per Rubens una stella appena nata che rischiara la notte e illumina chi lo circonda: Rubens, infatti, illumina prima di tutto il volto della Vergine e poi, con diverse gradazioni, quello degli abbacinati, stupefatti pastori che assistono all'evento.
I colori caldi e gli scintillii di luce hanno presente la pittura di Tiziano e di Tintoretto; la grazia di Maria vagheggia le aristocratiche signore di Paolo Veronese. Gli angeli fluttuanti nell'aria, concitati, quasi travolgenti, portano tra le mani un cartiglio su cui è annunciata la nascita di Gesù, ricordano gli spericolati angeli in picchiata delle Sette opere di misericordia di Caravaggio, la donna anziana ha la stessa fisionomia della vecchia ai piedi della Madonna dei pellegrini. Sulla sinistra c’è un pastore in piedi, non più giovane e provato dalla fatica del lavoro, dalla vigorosa struttura del suo corpo o dalla mano rozza che porta davanti agli occhi per ripararsi dall’accecante bagliore emanato da Cristo. Al centro della scena c’è una giovane donna, probabilmente una contadina, con un cappello sul capo e una cesta tra le mani.
All’interno della scena c’è un’anziana donna seduta vicino al giovane pastore. Iconograficamente la figura è stata identificata come la levatrice Salomè che secondo il racconto del vangelo apocrifo di Giacomo, durante la notte era accorsa per aiutare Maria durante il parto. L’anziana donna però, non riuscendo a credere nella verginità di Maria, quando le si avvicinò per controllare, fu punita per la propria diffidenza e le si paralizzarono le mani. L’apocrifo narra inoltre che dopo il pentimento di Salomè, la Vergine, resasi conto di trovarsi di fronte a un evento prodigioso, s’impietosì e Gesù le guarì le mani.
Infine c’è un pastore giovane vestito di rosso. Il fatto che non stia guardando Gesù crea un legame ancora più forte tra i personaggi del quadro e lo spettatore che partecipa con i pastori a questo miracolo.
L’influenza di Caravaggio è evidente nell’uso del contrasto violento tra luci e ombre e si aiuta, utilizzando come ambiente della scena una notte buia, totalmente priva di luci o di stelle.
La lumeggiatura di tutto il dipinto è data da Gesù bambino, che illumina le figure dal basso, creando il caravaggesco contrasto luci ombre.
Anche il volto di Salomè ricorda la plasticità dei volti di Caravaggio: è un viso espressivo, segnato dal tempo, quasi rozzo, è un viso vero. Sicuramente negli occhi di Rubens c’è Caravaggio, ma come si è visto non solo lui: lo furono anche Correggio, il tonalismo veneto, anche se aggiornato sulle recenti esperienze di Caravaggio, che Rubens aveva quotidianamente modo di studiare mentre lavorava a Santa Maria della Vallicella, e ancora la lezione di Adam Elsheimer che operava anch’egli a Roma in quegli stessi anni.
Giocando con la storia fatta con i “se”, è apprezzabile il divertisment di Sgarbi quando dice che “Se noi conoscessimo, di Rubens, soltanto la Natività di Fermo, ci configureremmo un pittore di stretta osservanza caravaggesca”. In effetti, molti pittori fiamminghi furono caravaggeschi, ma non lo fu Rubens se non per il contrasto luci ombre.
Mentre Caravaggio era rifiutato dai committenti nella Morte della Vergine, perchè aveva rappresentato “con poco decoro la Madonna”, interpretando le ragioni più autentiche del Cristianesimo, Rubens capisce benissimo Caravaggio e lo stima maestro, infatti, nel 1607 acquista il grande dipinto per il duca di Mantova. Per questo Sgarbi, con teatrale drammatizzazione, afferma “È in quel momento che Rubens diventa Caravaggio”, profilando addirittura “uno dei più straordinari transfert della storia dell'arte”.
Ma sono troppo diversi l’uno dall’altro perché l’uno diventi l’altro.
L’indole di Rubens era gentile, cordiale e di belle maniere: le descrizioni della sua personalità dai suoi contemporanei, lo descrivono ambizioso, talentuoso, razionale, timido, oculato, tenero e affettuoso. Era un pittore perfettamente integrato nelle corti presso le quali lavorava, perché grazie alla sua assennatezza e al suo garbo accomodante, univa straordinariamente il genio del grande pittore all’accortezza del diplomatico.
Caravaggio era un personaggio molto particolare. Insolente, scontroso, irascibile. Sgarbato e litigioso, era arrivato anche a uccidere, e forse non una sola volta. Nei suoi quadri spesso esplode un'incredibile violenza, frutto peraltro del crudo naturalismo a cui s’ispirava. La sua indole era indecifrabile e i suoi contemporanei, lo descrivono violento e spirituale insieme, insolente e appassionato, irascibile e nello stesso tempo seducente, genialmente istintivo e straordinariamente sensibile, scialacquatore, duro e temerario.
Frequentatore di taverne di malaffare e di luoghi sordidi era spesso coinvolto in risse o era arrestato poiché girava armato e si doveva nascondere perché i gendarmi non lo acciuffassero. Questo suo carattere rissoso gli procurò molti problemi che lo resero un uomo sempre in fuga dalla giustizia e dai suoi fantasmi interiori. Talvolta incompreso dai suoi committenti fu considerato blasfemo, ma il suo animo era profondamente religioso forse il più religioso pittore del Seicento europeo perché, nonostante le bizzarrie del suo umore, il suo messaggio affondava le radici nel mistero profondo della “salvezza” e nella vicinanza con la cultura borromaica.
Questa sua spiritualità si legge, ormai matura, nell’Adorazione dei pastori un suo dipinto a olio su tela di 314×211 cm, custodito nel Museo Regionale di Messina, dove una sala eccezionale conserva due grandi pale d’altare di Caravaggio: questa e La resurrezione di Lazzaro, uscite straordinariamente indenni dal terremoto del 1908 che distrusse la chiesa che li racchiudeva.
Sono due opere sorprendenti dell’ultimo periodo di Caravaggio, che era sbarcato in Sicilia nell’ottobre del 1608, dopo un’incredibile quanto rocambolesca evasione dal carcere di Sant’Angelo alla Valletta che oggi definiremmo un supercarcere: vi era stato rinchiuso a causa di una rissa in cui un cavaliere di rango superiore al suo era rimasto gravemente ferito e perché a Malta si era saputo che su di lui pendeva a Roma una condanna a morte.
Dopo aver trascorso qualche mese a Siracusa, accolto dal suo amico Mario Minniti, Caravaggio giunse a Messina, allora città ricca, colta e florida dove s’impegnò a dipingere la lugubre e angosciante Resurrezione di Lazzaro, tutta giocata su una sorta di spasmodica contesa tra la vita e la morte, e l'Adorazione dei pastori, probabilmente eseguita dopo la Resurrezione di Lazzaro.
Le due opere furono dipinte su commissione del Senato della città di Messina, che voleva il dipinto dell’Adorazione per decorare l'altare maggiore della chiesa dei Cappuccini di Santa Maria della Concezione, in cambio di mille scudi, una delle più alte cifre della sua carriera.
Nella sua apparente semplicità l'Adorazione dei pastori è una delle opere più complesse e più sentimentalmente dense di Caravaggio.
La scena è ambientata in una stalla disadorna, un precario ricovero semidiroccato con assi e travi deteriorate e danneggiate dall'incuria e dal tempo. Eppure questo è uno degli ambienti meglio definiti della pittura di Caravaggio: è buia e gli stessi colori sono cupi ad eccezione del rosso vivo del mantello della Vergine che simboleggia l’amore. L’amore e il sangue.
Maria inoltre, diversamente dall’immagine sublimata e continuamente ricorrente nell’arte dei secoli precedenti, appare umanamente stremata dal viaggio e dal successivo parto. Giace distesa a terra su un giaciglio di paglia, e, poggiando un braccio sul muretto, sorregge appena in grembo l'esile figura del figlioletto che dorme. Un neonato vero, piccolo come un bambino appena partorito.
Vicino a lei san Giuseppe sembra guidare i pastori all’adorazione.
È un notturno povero, essenziale, si potrebbe dire minimal: non ci sono decorazioni né orpelli né particolari superflui, solo una cesta in primo piano sulla sinistra, contenente una pagnotta, un tovagliolo e una pialla: un particolare che Roberto Longhi definì una natura morta dei poveri.
Questo dettaglio è una scelta avveduta di Caravaggio, che vuole trasmettere l’importanza della ricchezza spirituale come vero e unico bene necessario, eliminando qualsiasi valore conferito ai beni terreni. Una pagnotta come pasto dei poveri, una pialla come oggetto del lavoro degli umili.
Certamente Caravaggio voleva realizzare un dipinto che andasse completamente incontro all’originario dettato evangelico, quello che da ragazzino aveva appreso dalla marchesa Costanza Colonna Sforza e, appena adolescente, dalla catechesi che aveva esercitato a Milano San Carlo Borromeo. E lo fa andando molto oltre “La natività” rubata di Palermo, che secondo recenti ipotesi sarebbe stata eseguita nel 1600 a Roma, commissionata dal commerciante Fabio Nuti per conto dell'Oratorio di San Lorenzo a Palermo.
Ci sono solo tre pastori e san Giuseppe in adorazione della Madonna e del Bambino. Non c’è niente di trascendente o di maestoso in questa scena che è invece intima e familiare.
È la corporeità, la sfera fisica la vera protagonista dell’opera: quella dei tre pastori e di San Giuseppe, poi i grandi masse corporee del bue e dell’asino in fondo a questa malconcia capanna, il legno della greppia piena di paglia e la natura morta.
Al centro Maria e il Bambino.
Qui Caravaggio sembra tornare alla schematicità astratta dell’arte bizantina, non solo perché i protagonisti del dipinto e dell’evento sono adagiati a terra, ma anche perché essi sono immobili, come in una bolla sono chiusi in un mondo inaccessibile.
Non infrangono la loro intimità, ora che finalmente sono vis-à-vis dopo nove mesi di attesa. Gesù è un bambino vero, non è un piccolo dio benedicente che distribuisce grazie o sguardi partecipi e ammiccanti, e dorme, cercando con la manina il volto della mamma.
E lei è un’immagine di una bellezza straziante: si è sdraiata davanti alla greppia, perché quei visitatori inattesi potessero vedere meglio il Bambino, ma non ha più energie, è stremata e si abbandona a un delicatissimo sonno, dimentica dei pastori e dello spettatore che la guarda. In un avvolgente abbraccio con suo figlio, sembra lontana tutto.
Forse i Cappuccini di Messina non si resero conto che Caravaggio su quell’altare aveva rievocato figurativamente la rivoluzione cristiana: il verismo della raffigurazione e il suo spirituale cristianesimo si manifestano in personaggi e in posture che non hanno nulla di aulico. Le loro espressioni sono quelle della realtà: i poveri pastori che arrivano alla capanna hanno volti provati dalle loro fatiche quotidiane, ma sono confortati dalla speranza di questa visione divina.
E se, come dice Sgarbi, “Rubens incontra Caravaggio” nella sua Adorazione dei pastori, cercando di cogliere lo spirito inafferrabile del maestro milanese, il maestro fiammingo non lo raggiunge perché “Caravaggio è già più lontano. Caravaggio ormai non si diverte più ‘con gli effetti speciali’ come “con la luce che dal basso riverbera sul gruppo d'angeli” delle Sette opere di misericordia di Napoli.
Rubens s’impegna, gioca con le luci striate, con i chiaroscuri impetuosi, ma Caravaggio ormai non si compiace di quei virtuosismi che erano stati suoi. Il suo dipinto, spoglio di artifici pittorici e di richiami soprannaturali, sembra voler riaffermare la concezione pauperistica dell'evento, come un monito alla futura generazione che dimenticherà nell’arte la purezza del messaggio evangelico, avvolgendolo di sfarzose falsità. Caravaggio ripensa a quella buona novella e rinuncia a ogni artificio con una “sconvolgente” semplicità. “Rubens – dice Sgarbi – esibisce una bravura esagerata, trionfante” che prelude e forse già apre al Barocco.
Massimo Capuozzo



mercoledì 21 agosto 2019

Caravaggio e il caravaggismo

Tra gli elementi fondamentali dell'arte del Seicento c'è il Naturalismo, una corrente nata dall'osservazione della natura di Caravaggio e maturata nell’enorme arcidiocesi di Milano, (che comprendeva le diocesi suffraganee di Bergamo, Brescia, Como, Crema, Cremona, Lodi, Mantova, Pavia e Vigevano) con la catechesi di San Carlo Borromeo che nel 1577 delibera in materia d’arte, promulgando le “Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae”.
Nella seconda metà del Cinquecento e nella prima metà del Seicento, la pittura lombarda visse una stagione di grande sviluppo, durante la quale essa elaborò un linguaggio pittorico nuovo e del tutto originale, che fece di Milano uno dei centri più importanti della pittura italiana del tempo.
La presenza a Milano di San Carlo Borromeo, arcivescovo dal 1564 al 1584, fu di fondamentale importanza.
San Carlo chiedeva al suo popolo di seguirlo sulla strada di una fede vera, profondamente sentita, senza compromessi. Le sue parole trasformavano gli animi, il suo esempio accendeva i cuori e una delle questioni centrali, essenziale per questa riforma engagé, fu proprio l’uso delle immagini, concepite come strumento di comunicazione con i fedeli. La venerazione delle immagini era favorita, perché esse erano strumenti di continua rievocazione dei brani della fede cattolica: niente doveva distrarre, niente doveva essere concesso al puro intellettualismo di matrice manierista, ma si richiedeva agli artisti semplicità di composizione, onestà di sentimenti ed efficace realismo.
Questa pittura si serviva di un linguaggio severo e drammatico in scene molto narrative, in dipinti che sono sempre un miscuglio fra realtà concreta e quotidiana e una visione ascetica e soprannaturale dell'umanità e della fede.
Tele, affreschi e pale d’altare divennero il principale mezzo di diffusione tra il popolo della fede da poco riformata, espressione di una religiosità intima e drammatica, in ossequio alle prescrizioni del Concilio di Trento, secondo le quali la pittura doveva “movère”, cioè commuovere.
In altri termini si richiedeva al pittore la capacità di raggiungere in modo chiaro e diretto il cuore degli uomini, anche dei meno colti. È interessante infatti osservare come gli artisti, che fino allora erano dediti allo stile profano e intellettualistico del Manierismo, comincino a sviluppare un linguaggio devozionale fatto di sentimenti, di familiarità e di fede.
Più che una “conversione” degli artisti alla causa cattolica ebbe luogo una conciliazione, una sorta di acclimatamento tra l’esigenza dell’estro artistico e quella del potere; quest’evoluzione, che conosce diversi risultati a seconda della località specifica e che, in effetti, nel nascente “naturalismo lombardo” o nel fenomeno dei “pittori della realtà” ha un esito notevole, si contestualizza nella posizione della Pianura Padana, crocevia tra il Nord Europa, si pensi alla verità ottica del particolare propria delle Fiandre, e alle corti dell’Italia centrale, e ancora ai precedenti illustri di Lorenzo Lotto a Bergamo o di Gerolamo Savoldo, per non risalire addirittura alla lunga presenza di Leonardo a Milano.
Le nuove istanze religiose si innestano su un’area culturale già storicamente atta a ricevere temi come l’intimismo psicologico e l’aderenza al vero. Del resto la nozione manierista di “artificio” non scomparirà del tutto, né in questi pittori né in quelli del Barocco, ma sarà spesso soltanto inclinata verso l’espressione di un messaggio diverso rispetto a quello autoreferenziale della pittura manierista: il Barocco stesso farà della teatralità e del dramma una delle sue più importanti chiavi di lettura, per lo più in contrasto alla vocazione naturalistica.
I cosiddetti “pittori della peste” diventarono, infatti, i maestri di questo rinnovato linguaggio. Nati e cresciuti nel clima morale ispirato da San Carlo e in seguito stimolati dalla guida del cardinal Federico Borromeo, arcivescovo dal 1595 al 1631 e fine conoscitore e collezionista d’arte, riuscirono ad elaborare una pittura “d’urto”, gloriosa e fantasiosa nel contatto, diretta a mostrare le più squallide bassezze in contrapposizione ai più nobili valori umani, introducendo lo spettatore negli orrori delle miserie per poi innalzarlo tra i miracoli e le estasi dei santi.
Nel 1584, pochi mesi prima della morte di san Carlo, il piccolo Michelangelo Merisi, un giorno il grande Caravaggio, fu mandato appena tredicenne a lavorare a bottega a Milano presso il laboratorio di Simone Peterzano(Venezia, 1535 – Milano, 1599), pittore veneziano che aveva bottega a Milano e che si proclamava orgogliosamente allievo di Tiziano.
Simone Peterzano Deposizione di Cristo Museo di San Fedele Milano
Simone Peterzano pittore di origine bergamasca, attivo a Milano negli anni 1573-96.
Le prime opere note (le tele per San Barnaba a Milano, 1573) denotano contatti con la pittura veneta tardo-manieristica, mentre il vasto complesso di affreschi e dipinti della certosa di Garegnano (1578-82) si rifà direttamente alla tradizione lombarda di marca foppesca, sia per la predominanza dei grigi e dei colori spenti, sia per il solido impianto delle figure.
Le accentuate notazioni naturalistiche, inoltre, che si fanno più marcate nelle altre opere, inseriscono Peterzano in quel filone lombardo tardo cinquecentesco di cui fanno parte anche i pittori bresciani e bergamaschi coevi, e sono alla radice della futura pittura di Caravaggio.
Numerose opere dell'artista si conservano tuttora nelle chiese milanesi (S. Maria della Passione, S. Carlo al Corso, S. Fedele, S. Maurizio al Monastero Maggiore).
Caravaggio - Deposizione di Cristo - Roma - Musei Vaticani 1602
Il Caravaggio non raffigura in realtà il Seppellimento, né la Deposizione nel modo tradizionale, in quanto il Cristo non è rappresentato nel momento in cui viene calato nella tomba, bensì quando, alla presenza delle pie donne, viene adagiato da Nicodemo e Giovanni sulla Pietra dell'Unzione, vale a dire la pietra tombale con cui verrà chiuso il sepolcro. Intorno al corpo di Cristo si dispongono la Vergine, Maria Maddalena, Giovanni, Nicodemo e Maria di Cleofa, che alza le braccia e gli occhi al cielo in un gesto di altissima tensione drammatica.
Quale Milano vide il tredicenne Caravaggio? E quale Milano porterà con sé a Roma?
A Milano vide ovviamente Simone Peterzano, ma anche Giulio Campi, Antonio Campi, Giovan Paolo Lomazzo, i pittori che operavano a Milano durante l’arcivescovato di San Carlo; nell’ambiente milanese, culturalmente dominato da San Carlo, Simone Peterzano riusciva ancora a coniugare la formazione coloristica acquisita in Veneto con Tiziano, con l’austera monumentalità richiesta nella Pianura Padana: massimo esempio di questo equilibrio sono gli affreschi della Certosa di Garegnano.
Peterzano era il collegamento importante tra l’uso sfarzoso del colore del Rinascimento veneziano e la declinazione drammatica ed espressiva che il suo allievo Michelangelo Merisi avrebbe saputo conferire ai propri colori, ormai pienamente in linea con il Barocco che stava per nascere. Peterzano fu anche un altro nesso importante: era allievo di Tiziano e maestro di Caravaggio.
A Milano il giovane Michelangelo trovò i “pestanti”, quella pattuglia di giovani pittori quasi suoi coetanei, cresciuti all’ombra della catechesi artistica di San Carlo e che sbocceranno contemporaneamente a lui.
L’apprendistato milanese dell’adolescente Merisi è ancora tutto da chiarire. Sappiamo infatti che nella primavera del 1584 il tredicenne Michelangelo fu affidato a Simone Peterzano che si firmava «allievo di Tiziano», presso il quale rimase per quattro anni.
Che cosa però il giovane allievo abbia visto, studiato e, soprattutto, realizzato in quei mesi è pressoché impossibile dirlo, allo stato attuale dei documenti e delle ricerche. A Milano apprese gli stili di due tradizioni diverse, da un lato il realismo lombardo, dall'altro il Rinascimento veneto, con il quale viene in contatto diretto, quando Peterzano lo portò con sé in alcuni viaggi a Venezia dove vide l'arte del Tintoretto.
È fondamentale seguire le parole di Roberto Longhi: “… non si pretende di segnare itinerari precisi ai suoi viaggi (o siano pure vagabondaggi) di apprendista; ma non si potrebbe porli mai in altra zona da quella che da Caravaggio porta a Bergamo, vicinissima; a Brescia e a Cremona, non distanti; e di lì, a Lodi e a Milano. Era questa la plaga dove un gruppo di pittori lombardi, o naturalizzati, tenevano aperto da gran tempo il santuario dell’arte semplice”.
Fin dal saggio del 1917, Cose bresciane del 500, e poi in Quesiti caravaggeschi, del 1929, Longhi affermava che per gli anni giovanili è bene rintracciare le sue “strade di predestinazione fra il 1584 e il 1589 circa” nelle “strade di Lombardia”: ma è proprio il mondo artistico tra Veneto e Lombardia che può aver ispirato e formato Caravaggio e la sua risonanza si percepisce continuamente nelle sue opere.
I “vagabondaggi” di cui parla Longhi lo portano al Moretto (Brescia, 1498 circa – 1554) da Brescia, Giovan Battista Moroni (Albino, 1522 – 1578/1579), Gerolamo Savoldo (Brescia 1480 ca. - dopo il 1548), Giovan Paolo Lomazzo, Vincenzo Campi (Cremona ca. 1535- ivi 1591) e Antonio Campi (Cremona ca. 1525 - ivi 1591), Giovanni Ambrogio Figino[8] (Milano 1553 – Milano 1608)  e Simone Peterzano documenta il delinearsi di un nuovo gusto e di una nuova concezione della figura, nel suo rapporto con lo spazio e con la luce, che è fondamentale per la crescita del giovane Caravaggio.
Giovan Gerolamo Savoldo Adorazione dei pastori

Giovan Gerolamo Savoldo – pittore italiano (Brescia ca. 1480-Venezia? dopo il 1548). 
Formatosi a Brescia, in un ambiente culturale dominato dalla tradizione foppesca e leonardesca, Savoldo soggiornò per alcuni anni, dopo il 1508, a Firenze, ma la sua attività in questo periodo è ancora controversa. È comunque certo che dal 1521 operò a Venezia, dove elaborò uno stile originale che, contrapponendosi al tonalismo di Tiziano, riprendeva spunti da Giorgione (soprattutto per il paesaggio), da Lorenzo Lotto e persino dai fiamminghi. Infatti, alla rigorosa, talvolta monumentale, costruzione spaziale, e al vigoroso realismo, di diretta derivazione lombarda, unì un uso luministico della luce che accentuava le forme e le espressioni (Cristo morto con Giuseppe d'Arimatea, Cleveland, Museum of Art; Adorazione dei pastori, Torino, Galleria Sabauda; Madonna e Santi, Milano, Pinacoteca di Brera).
Fra il 1520 e il 1530 si collocano, oltre ai dipinti sacri, i più bei ritratti e le figure di genere che si basano sul contrasto fra la realistica vitalità del personaggio e le suggestive fantasie del paesaggio (Ritratto d'uomo con armatura, cosiddetto Gastone di Foix, Parigi, Louvre; Maddalena, Londra, National Gallery; Pastore con flauto, Malibu, The Paul Getty Museum).
Dopo il 1530, nella produzione di Savoldo, che lavorò anche per il duca di Milano Francesco II Sforza, si accentua la predilezione per un linguaggio più interiorizzato giocato sulla contrapposizione di luci e ombre, particolarmente evidente nei quadri “notturni”, fecondi di influssi, tra l'altro, per la formazione di Caravaggio. Fra le opere di questi ultimi anni si ricordano la Natività (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo); San Matteo e l'angelo (New York, Metropolitan Museum of Art) e il San Gerolamo penitente (Londra, National Gallery).
E proprio gli studi di luce caratterizzano sempre piú l’attività del bresciano: l’Adorazione dei pastori (1527-1530) e il San Matteo e l’angelo (1530 ca.) sottoscrivono appieno la teoria del Longhi che vede in Savoldo il maggior esempio di pre-caravaggismo dell’intero Cinquecento. La luce è ora il prioritario strumento di individuazione plastica e tridimensionale della figura, e porta ad una meno marcata individuazione calligrafica ed a inedite approssimazioni visive che testimoniano una nuova ricezione della tradizione tizianesca.




Giovan Paolo Lomazzo - Autoritratto
Giovan Paolo Lomazzo - Pittore e scrittore d'arte italiano (Milano 1538-1600). Attivo come pittore a Milano, Lodi, Piacenza, nella sua opera, modesta ma interessante, fuse il leonardismo lombardo con spunti del manierismo romano (Autoritratto, Milano, Pinacoteca di Brera).
La sua fama è comunque legata all'attività di scrittore e trattatista d'arte, che iniziò quando, a soli 33 anni, venne colpito dalla cecità.
Il Trattato dell'arte della pittura (1584) e l'Idea del tempio della pittura (1591) sono testi importanti per la teorica del manierismo e contengono interessanti notizie su opere e artisti di Lombardia

Anche le sperimentazioni intellettualistiche di Giovan Paolo Lomazzo lasciano un segno in Caravaggio. La posa di tre quarti con la spalla di scorcio, lo sguardo diretto, la complessità di significati dell’immagine colpiscono Caravaggio, che li riecheggia nel Bacchino malato (Roma, Galleria Borghese).
Caravaggio - Bacchino malato - Roma Galleria Borghese


Caravaggio La decapitazione di San Giovanni Battista - Malta - Oratorio di san Giovanni della Valletta
Giovanni Ambrogio Figino - la madonna della serpe
Ambrogio Figino o Figini o Giovanni Ambrogio Figino – Allievo di Giovan Paolo Lomazzo dal 1564, Figino si pose in luce nel panorama artistico milanese inizialmente come ritrattista. L'effigie di Ambrogio Annoni, uno dei pochi ritratti a lui attribuibili con sicurezza, mostra una capacità minuziosa di rendere i particolari degna della pittura fiamminga.
Nei primi anni '80 del Cinquecento secolo l'artista ricevette dai Gesuiti la commissione per due pale d'altare, un tempo in San Fedele: la Madonna della Serpe (di cui si ricorderà Caravaggio) e l'Incoronazione della Vergine (1585 – 1586).
Fu contestata, rifiutata, rimossa. Ma tutti, fin da subito, riconobbero che era un’opera straordinaria. E teologicamente corretta. Stiamo parlando della celebre pala della Madonna dei Palafrenieri (nota anche come Madonna del Serpe), capolavoro di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, oggi conservata alla Galleria Borghese di Roma, ma in origine realizzata per uno degli altari della nuova basilica di San Pietro in Vaticano.
Quel che è certo, invece, è che attorno al 1583 Figino realizzò per la nuova chiesa di San Fedele, voluta dallo stesso vescovo Borromeo per i gesuiti, una grande pala raffigurante appunto la Vergine che, con l’aiuto del Bambino Gesù, schiaccia sotto il suo calcagno il biblico serpente: simbolo del male sconfitto, tramite il suo Divin Figlio, dalla nuova Eva, Maria. Chiesa che il Merisi doveva ben frequentare, essendo uno dei cantieri artistici più importanti della città, e dove il suo stesso maestro Peterzano, in quegli stessi mesi, aveva collocato una grande Deposizione, ancor oggi al suo posto. Cosa, invece, che non è avvenuta per la tela del Figino, che dopo vari passaggi nel 1637 finì proprio nel tempio di Sant’Antonio Abate.
È facile immaginare, dunque, che il nostro Caravaggio se ne sia ricordato al momento di realizzare la nuova pala per l’altare della Confraternita dei Palafrenieri in San Pietro, nel 1605: una commissione prestigiosa, che dopo i successi di San Luigi dei Francesi e di Santa Maria del Popolo, avrebbe consacrato il pittore lombardo ai massimi livelli. Ma non tutto andò come sperato …
La tela infatti, regolarmente e interamente pagata (a indicare quindi la piena soddisfazione della confraternita committente), rimase esposta nella basilica vaticana soltanto un mese, o forse pochi giorni appena. Poi venne rimossa – brutalmente, si potrebbe dire -, forse per ordine dello stesso pontefice Paolo V. Ma quali siano state le ragioni precise non è ancora stato chiarito. Fin da allora, infatti, si parlò genericamente di una «mancanza di decoro», con quella Madonna dalla bellezza popolana e dalla scollatura volgare, con quel Bambino Gesù così impudentemente nudo, con quella sant’Anna così sciattamente vecchia … Accuse formali, insomma, e non certo sostanziali, se si considera che l’opera rispetta infatti la piena ortodossia cattolica in tema mariano, al punto che Pio IX, nel 1854, proclamando il dogma dell’Immacolata concezione, riprenderà con esattezza questa stessa suggestiva iconografia.
Il fatto è che Caravaggio, nel frattempo, era ricercato come assassino. E il cardinal nepote, quel potente Scipione Borghese che non si fermava davanti a nulla pur di aumentare la sua collezione, bramava avere un’opera del Merisi… Un intreccio di circostanze e di eventi, che segneranno il destino della Madonna della Serpe e del suo autore.
Sempre negli anni Novanta Figino realizzò la prima natura morta "pura", anticipando il Caravaggio. Negli ultimi anni della sua vita Figino eseguì un vasto ciclo di pitture per San Vittore al Corpo, la chiesa degli Olivetani a Milano. Questo dipinto di Figino, la Fruttiera di persici (pesche), è considerata un incunabolo della natura morta italiana.
Caravaggio - Madonna dei Palafrenieri - Roma



Giovanni Ambrogio Figino - Vassoio di pesche 

Caravaggio - Canestra di frutta - Milano - Pinacoteca Ambrosiana


Antonio Campi - La visita in carcere dell'Imperatrice Augusta a Santa Caterina - 1584 
Antonio Campi, figlio di Galeazzo e noto dal 1546 al 1587, fu incisore, pittore, architetto, scultore e storico. Le sue ricerche naturalistiche, i suoi effetti di luce artificiale, la sua ambientazione scenica, così come appaiono nei dipinti più riusciti (il San Gerolamo del Prado; la Morte della Vergine in S. Marco a Milano; l'Adorazione dei Magi in S. Maurizio, pure a Milano), rimandano ai bresciani Moretto e Savoldo e alla pittura del Lotto.
Certamente il Caravaggio dovette meditare lungamente su queste opere per condurre a termine il suo recupero del naturale, condotto in chiave antimanieristica. 
Il primo debito consistente di Caravaggio è nei confronti del pittore cremonese Antonio Campi (1524-1587) e del dipinto raffigurante la visita in carcere dell'Imperatrice Augusta (inizi IV secolo) a Santa Caterina (firmato e datato 1584), che si trova nella chiesa francescana di Santa Maria degli Angeli, meglio nota sant'Angelo in via Moscova.
Nella stessa chiesa, come indizio del fatto che Caravaggio abbia conosciuto il dipinto, troviamo anche alcune opere di Peterzano. D'altro canto la critica, a cominciare da Roberto Longhi, ha sempre indicato questo dipinto come una delle fonti di ispirazione del giovane Caravaggio per quanto riguarda l'effetto della luce.
Basta pensare a La decollazione del Battista (1608) a La Valletta dove compare la stessa grata.













Il Moretto - Caduta di Saul - 1540
Alessandro Bonvicino, detto il Moretto, è considerato uno dei tre grandi maestri del primo Rinascimento bresciano, assieme al Romanino e al Savoldo.
Formatosi nell'ambiente bresciano, a contatto del Savoldo e del Romanino, Moretto continuò la tradizione lombarda arricchendola di spunti dalla coeva pittura veneta (Giorgione, Lotto, Tiziano giovane).
Le sue pale d'altare sono impostate secondo il metodo classicistico della ripartizione architettonica, ma umanizzate dalla trattazione naturalistica dei personaggi, mentre il colore spento, dalla caratteristica intonazione grigio-perla, è sottolineato da una continua ricerca di luce (Santa Margherita d'Antiochia e Santi, 1530, Brescia, S. Francesco; S. Nicola di Bari presenta gli allievi di Galeazzo Rovelli alla Madonna in trono col bambino, 1539, e Cristo in passione e l'angelo, 1550, entrambi a Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinengo).
Bellissimi sono pure i ritratti, fedeli alla resa umana del modello, totalmente privi di idealizzazione e aulicità e attenti ai valori tonali del colore (Ritratto d'uomo con lettera e clessidra, 1520-25, New York, Metropolitan Museum; Ritratto di Girolamo Savonarola, 1524, Verona, Museo Civico; Ritratto di giovane uomo con ermellino e berretto piumato, 1542, Londra, National Gallery).
Il riferimento a Caravaggio è la Caduta di Saul da cavallo del Moretto, dipinto attorno al 1540, che si trova in Santa Maria dei Miracoli a Milano. È inevitabile pensare che il possente cavallo abbia influenzato Caravaggio nell'atto di dipingere a Roma lo stesso soggetto, ossia La conversione di Saul per la chiesa di Santa Maria del Popolo (1601) e quella di palazzo Odescalchi che l'aveva di poco preceduta in ordine di tempo (1600-1601).




Caravaggio La conversione di Saul Roma 1600
La formazione di Caravaggio parte dalla Lombardia, dove approfondisce il tema del colore dal suo maestro da cui eredita una predilezione per i colori caldi, i bruni ed i rossi scuri.
Quello che Caravaggio portò con sé a Roma è l’incubazione della grande rivoluzione in pittura il cui manifesto fu  la Conversione di Saul, concepita tra il 1601 e il 1602 per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.
Fino alla sua comparsa sulla scena pittorica, lo stile che caratterizzava la maggior parte degli artisti era molto legato a un tipo di cultura accademica che si basava prevalentemente sullo studio dell'arte classica, con forti influssi derivati dai grandi protagonisti del periodo d'oro del Rinascimento italiano. Su tutti le figure di Michelangelo e di Raffaello nell’Italia centrale, mentre per quanto riguarda il settentrione, la pittura si rifaceva soprattutto a Tiziano, al Correggio e a Leonardo.
La rivoluzione di Caravaggio consiste nel suo accentuato naturalismo di matrice lombarda, ma spinto al realismo più duro autentico e incontaminato da qualsiasi forma di idealizzazione, espresso nei soggetti dei suoi dipinti e nelle atmosfere in cui la plasticità delle figure è evidenziata dalla particolare illuminazione che teatralmente pone l’accento sui volumi dei corpi che escono improvvisamente dal buio della scena come accade nella cappella Contarelli, nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Sono pochi i quadri in cui il pittore lombardo dipinge lo sfondo, che passa nettamente in secondo piano rispetto ai soggetti, i veri e soli protagonisti della sua opera. Partendo dalla natura morta, arriverà alla pittura di genere con scene di vita quotidiana come nei Bari e nella Buona Ventura), per poi affrontare nell'età matura la pittura religiosa in chiave drammatica.
La sua carriera vera propria inizia però a Roma, quando riceve le prime commesse importanti da alti prelati e da Ordini Religiosi.
Una folla di pittori francesi, tedeschi e spagnoli fu soggiogata da Caravaggio come Saul fu folgorato dalla luce di Cristo.
Nasceva così la corrente del “Caravaggismo” che si diffuse trasversalmente attraverso i seguaci di Caravaggio, attecchendo soprattutto nei paesi di dominazione spagnola: dalla Lombardia al Regno di Napoli, dalle Fiandre spagnole con i cosiddetti caravaggisti di Utrecht, alla penisola iberica.

Archivio blog