Alessandro Varaldo (1878-1953), figlio di Giuseppe Varaldo, di origine savonese, e di Eugenia Rolando, di antica famiglia ventimigliese, nacque il 25 gennaio 1876, nella villa materna delle Asse e vi trascorse la giovinezza. Frequentò il locale ginnasio, sotto la guida di Dante Cattani e, già, allievo di Carducci, grazie ai dotti consigli di Girolamo Rossi, frequentò poi il liceo “Cassini” di San Remo, dove ebbe come maestro il professore Luigi Gualtieri.
Varaldo si trasferì successivamente con la famiglia a Genova, dove iniziò giovanissimo l’attività letteraria, tenendo fitti contatti con l’ambiente culturale torinese. Dopo un esordio come poeta simbolista sulle riviste genovesi di fine Ottocento, Varaldo diventò uno dei narratori più prolifici e più letti in Italia per tutta la prima metà del XX secolo.
Fra le prime opere scrisse nel 1898, “La Principessa lontana”, cui seguirono, con crescente affermazione in tutti i campi letterari, volumi di poesia, di teatro, di critica, di saggi, ma soprattutto di romanzi e di novelle, con una vasta collaborazione a riviste ed a giornali, come la “Gazzetta del Popolo della Domenica” ed il famoso “Caffaro”, che lo resero uno degli autori italiani di maggior successo nella prima metà del Novecento. Varaldo fu anche direttore di “Comoedia”.
Varaldo era considerato, infatti, un vero poligrafo, infatti, scrisse un centinaio di volumi di vario genere – dal romanzo alla raccolta di un migliaio di novelle, dal teatro (trenta lavori teatrali, fra i quali dodici commedie), al libro di memorie, dalla storia romanzata alla poesia (tre volumi di poesie), tre volumi di critica. Varaldo, infine, collaborò con 136 testate giornalistiche italiane e straniere, fra cui alcune in spagnolo e portoghese, dunque, uno scrittore assai prolifico ai suoi tempi e arrivò addirittura a pubblicare fino a quattro libri l'anno.
La sua attività di narratore, tradotta in cifre, conta sessanta romanzi. Eppure, oggi, il suo nome è conosciuto quasi esclusivamente dagli studiosi e dai rari appassionati del genere noir che ne hanno studiato le origini. Tra le tante cose che, infatti, egli scrisse ci sono anche alcuni di contenuto giallo: proprio per il suo costante successo di pubblico fu incaricato dall’editore Mondadori di scrivere anche il primo giallo italiano per la celebre collana dei “Libri gialli”, avviata nel 1929 con la pubblicazione di romanzi polizieschi scritti da autori di lingua inglese (da S.S. Van Dine a Robert Louis Stevenson a Edgar Wallace) e subito seguita da grande successo di pubblico, presentò il primo titolo: si tratta, infatti, del libro “Il sette bello”, pubblicato nella primavera del 1931 da Mondadori.
Quel libro ci è oggi riproposto dalla casa editrice De Ferrari e che lo pubblica nella collana “Piccoli Classici Italiani” a cura del professor Francesco De Nicola, associato di Letteratura italiana contemporanea dell'Università di Genova. De Nicola, come curatore della collana, ha voluto ripubblicare quel primo e semisconosciuto giallo italiano.
Come spiega egli stesso nella sua presentazione, alla fine degli Anni Venti il romanzo poliziesco era opera quasi esclusivamente di autori stranieri, soprattutto di lingua inglese. Maestri indiscussi erano autori come S.S. Van Dine, Edgar Wallace, Robert Louis Stevenson e Anna Katherine Green, ma siamo in pieno Fascismo e il proliferare degli scrittori stranieri non piaceva a Mussolini ed ai vari gerarchi, soprattutto in un periodo in cui si tendeva ad abolire tutte le parole estere e ad italianizzarle. Per questo il governo fascista promulgò una legge a difesa degli scrittori italiani imponendo che, in qualunque collana ogni cinque autori almeno uno fosse italiano.
Arnoldo Mondatori, dopo aver intuito quello che sarebbe stato lo sviluppo del Fascismo in Italia (stampò i manifesti della marcia su Roma nel 1922 e ne ricavò ottime occasioni di lavoro come la stampa del testo unico per le scuole elementari nel 1930) immediatamente capì che il genere poliziesco avrebbe avuto un grande futuro ed allora incaricò Varaldo di scrivergli il primo romanzo che, dal colore della copertina, sarebbe stato il primo “giallo” italiano.
Varaldo esordisce con il commissario romano Bonichi, meglio noto come sor Ascanio. La lettura del romanzo “Il sette bello” è consigliabile per capire quale fosse la realtà sociale dell'epoca. Bonichi, Commissario e poi Ispettore del Ministero dell’Interno, è un poliziotto semplice, ma concreto alle prese con casi misteriosi quasi sempre alle soglie del paranormale.
La trama segue le vicende sempre più misteriose ed avventurose di quattro amici (un eterno studente, un maggiore dei bersaglieri, un pittore e una studentessa) che un giorno, per amore di avventura, quasi per gioco e per sfida all’ignoto e al destino, rispondono ad un annuncio su un giornale e, credendo semplicemente di giocare con l'ignoto, si trovano in una situazione senza via d'uscita, in qualche modo coinvolti in un omicidio.
Improvvisamente tutti e quattro trovandosi coinvolti in una storia che, ad ogni pagina, si arricchisce di inattesi colpi di scena.
L'originalità del racconto sta nel fatto che ogni singolo protagonista di questa storia espone la propria versione dei fatti, perciò il lettore si troverà a leggere i quattro racconti degli amici, più quello del commissario di polizia che conduce le indagini sul delitto.
Il primo racconto è quello di Giovanni Révere, rampollo della piccola borghesia che vive con una rendita che gli è stata lasciata dal padre, facendo lo studente a vita. Si è già preso due lauree (lettere e giurisprudenza) e ora studia medicina. Egli ci introduce nel mondo della vecchia Roma, dei locali tipici e delle lunghe passeggiate nei quartieri antichi, presentandoci i suoi amici. La prima, cioè l'unica donna del gruppo, è Maud Terzi. Mangiano insieme, vanno al cinema insieme, passano intere giornate insieme, ma si danno del voi. Suo è il secondo racconto. Il terzo è quello del commissario Ascanio Bonichi. Grossi baffi neri, mento spesso non rasato, d'aspetto bonario e un po' trasandato, celibe e nemico dell'indagine scientifica “Non credo che nel caso, o in Dio, se le piace di più”, Bonichi è uno dei personaggi più riusciti di Varaldo. E, da quell'italiano che è, afferma che “la polizia deve, 100 volte su 100 in casi come questi, contare sulla fortuna”. Come dire che, se non si è fortunati, pazienza: vuol dire che il caso resterà irrisolto.
Il quarto racconto è invece quello di Biondo Biondi (“Naturalmente – scrive Varaldo – con un simil nome è toscano e nero come un creolo”), maggiore dei bersaglieri e soldato fino al midollo.
Il quinto racconto, infine, è quello del pittore Giacomo Serra, l'unico artista del gruppo. Confusionario, istintivo, Serra si completa nel suo rapporto con gli altri amici, anche se non manca di far sentire la sua presenza.
Ambientato nel 1930 a Roma, con larghe escursioni nella periferia e nelle campagne attorno alla Capitale, Seguire le vicissitudini di queste persone significa calarsi nell'atmosfera a cavallo degli Anni Venti-Trenta in una Roma che vive spensieratamente lo sviluppo della prima stagione del Fascismo, senza rendersi conto della tempesta che si sta preparando. E si prova l'esperienza di sedersi in una “piccola pulita famigliare trattoria dietro Piazza Cola di Rienzo” e osservare la vita tranquilla e un po' borghese di questi quattro amici cui si aggiunge, dopo il delittaccio, anche quella sagoma del commissario Bonichi.
I rapporti tra i cinque sono sempre corretti, nessuno si sognerebbe mai di fare una qualunque carognata all'altro. Ed è su questi valori di amicizia e solidarietà, educazione e rispetto, forse appartenenti ad un'Italia che non c'è più, che l'avventura infine inciderà portando scompiglio nelle loro esistenze.
A dipanare la matassa è il commissario Bonichi, uomo bonario e di buon senso, poco raffinato ed essenzialmente solitario, non dotato di capacità intellettuali straordinarie, ma piuttosto consapevole del ruolo decisivo del caso per la risoluzione dei reati di volta in volta oggetto delle sue indagini.
Strizzando l'occhio più al Maigret di Simenon che allo Sherlock Holmes di Conan Doyle, il primo detective seriale della letteratura italiana è un personaggio felicemente tratteggiato e credibile, lontano dunque dal prevedibile modello del poliziotto geniale e rappresentativo, lontano dallo stereotipo del poliziotto atletico, fascinoso ed infallibile, ma piuttosto vero e semplice, un prodotto del ceto “medio”, che vuole rappresentare e che si aggancia non solo al suo livello di vita, ma anche alle sue aspirazioni, di una rivoluzionaria normalità, che vuole raggiungere sulla sponda di una tacita accettazione dei compromessi della vita.
La realtà espressa del commissario Bonichi è una realtà umana semplice e sorretta da alti ideali, poco incline a piegarsi al potere come pure ad accettare compromessi per il miraggio di una più facile carriera.
In un suo articolo, intitolato “Dramma e romanzo poliziesco”, Alessandro Varaldo scrive una specie di manifesto del giallo all'italiana e lo conclude con questa domanda: «come gli autori inglesi ci hanno abituati a considerare di quasi pubblico dominio Piccadilly e lo Strand, come gli autori americani ci abituano alla Quinta Strada e ai quartieri di Brooklin, come noi conosciamo palmo a palmo per virtù di scrittori stranieri le loro nazioni, non vi sembrerebbe ottima cosa che anche i nostri scrittori, specialmente quelli che trattano un certo genere alla moda, parlassero un po' dell'Italia? ».
In questo modo Varaldo indicava dunque una via italiana al poliziesco. Varaldo creò la figura del commissario Ascanio Bonichi, che fuma sigari, porta i baffi, che tutti chiamano “sor Ascanio” e che agisce in una Roma sonnolenta e provinciale malgrado le sollecitazioni fasciste, che per certi aspetti sembra già vagamente presagire “Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana”
Per la raccolta mondadoriana Varaldo scrisse “Le scarpette rosse” del 1931, “La scomparsa di Rigel” del 1933, “La gatta persiana” del 1933, “Circolo chiuso” e “Casco d’oro”, entrambi del 1936.
Dai suoi scritti traspare vivissimo un affettuoso attaccamento alla sua terra di origine ed oltre ai romanzi come “Mio zio il diavolo” del 1929, “I due nemici” del 1931, “La stella di Venere” del 1944, “La Marsigliese” ed “I signori di Nervia”, interamente ambientati a Ventimiglia, non c’è un volume, che non contenga qualche nostalgico riferimento a Ventimiglia.
La caratteristica principale della sua narrativa è la ricchezza di situazioni e di personaggi che animano le sue pagine, scritte seguendo l’imperativo categorico del “non annoiare” il lettore, al quale di volta in volta sono proposte vicende sentimentali, patriottiche, avventurose sempre ben collocate entro quadri storici e geografici precisi e minutamente ricostruiti.
Memore anche del dialetto, che aveva appreso dalla madre e dai suoi amici pescatori sulla spiaggia delle Asse, presso la sua casa, volle collaborare alla “Barma Grande”, con ricordi della sua gioventù: “E Asse”, “U mei primu incontru cun Munegu” del 1932, “A mei grossa descüverta”, “U Nervia e u Röia”.
Un altro grande merito di Varaldo è stata, infine, la fondazione, nel 1920, della “Società Italiana Autori ed Editori”, che diresse con prestigio fino al 1928, quando, per disposizione governativa, fu sostituito da un gerarca del regime.
Nel 1943, assunse la direzione dell’Accademia di Arte Drammatica, succedendo a Silvio D’Amico. Scelse come sua dimora Milano, sempre ricordando la città nativa e la nostra Cumpagnia, come quando scrisse “Il vento di occidente, cronache marinare dell’estrema Liguria occidentale”.
Varaldo morì a Roma, ottantenne, il 18 febbraio 1953.
Varaldo si trasferì successivamente con la famiglia a Genova, dove iniziò giovanissimo l’attività letteraria, tenendo fitti contatti con l’ambiente culturale torinese. Dopo un esordio come poeta simbolista sulle riviste genovesi di fine Ottocento, Varaldo diventò uno dei narratori più prolifici e più letti in Italia per tutta la prima metà del XX secolo.
Fra le prime opere scrisse nel 1898, “La Principessa lontana”, cui seguirono, con crescente affermazione in tutti i campi letterari, volumi di poesia, di teatro, di critica, di saggi, ma soprattutto di romanzi e di novelle, con una vasta collaborazione a riviste ed a giornali, come la “Gazzetta del Popolo della Domenica” ed il famoso “Caffaro”, che lo resero uno degli autori italiani di maggior successo nella prima metà del Novecento. Varaldo fu anche direttore di “Comoedia”.
Varaldo era considerato, infatti, un vero poligrafo, infatti, scrisse un centinaio di volumi di vario genere – dal romanzo alla raccolta di un migliaio di novelle, dal teatro (trenta lavori teatrali, fra i quali dodici commedie), al libro di memorie, dalla storia romanzata alla poesia (tre volumi di poesie), tre volumi di critica. Varaldo, infine, collaborò con 136 testate giornalistiche italiane e straniere, fra cui alcune in spagnolo e portoghese, dunque, uno scrittore assai prolifico ai suoi tempi e arrivò addirittura a pubblicare fino a quattro libri l'anno.
La sua attività di narratore, tradotta in cifre, conta sessanta romanzi. Eppure, oggi, il suo nome è conosciuto quasi esclusivamente dagli studiosi e dai rari appassionati del genere noir che ne hanno studiato le origini. Tra le tante cose che, infatti, egli scrisse ci sono anche alcuni di contenuto giallo: proprio per il suo costante successo di pubblico fu incaricato dall’editore Mondadori di scrivere anche il primo giallo italiano per la celebre collana dei “Libri gialli”, avviata nel 1929 con la pubblicazione di romanzi polizieschi scritti da autori di lingua inglese (da S.S. Van Dine a Robert Louis Stevenson a Edgar Wallace) e subito seguita da grande successo di pubblico, presentò il primo titolo: si tratta, infatti, del libro “Il sette bello”, pubblicato nella primavera del 1931 da Mondadori.
Quel libro ci è oggi riproposto dalla casa editrice De Ferrari e che lo pubblica nella collana “Piccoli Classici Italiani” a cura del professor Francesco De Nicola, associato di Letteratura italiana contemporanea dell'Università di Genova. De Nicola, come curatore della collana, ha voluto ripubblicare quel primo e semisconosciuto giallo italiano.
Come spiega egli stesso nella sua presentazione, alla fine degli Anni Venti il romanzo poliziesco era opera quasi esclusivamente di autori stranieri, soprattutto di lingua inglese. Maestri indiscussi erano autori come S.S. Van Dine, Edgar Wallace, Robert Louis Stevenson e Anna Katherine Green, ma siamo in pieno Fascismo e il proliferare degli scrittori stranieri non piaceva a Mussolini ed ai vari gerarchi, soprattutto in un periodo in cui si tendeva ad abolire tutte le parole estere e ad italianizzarle. Per questo il governo fascista promulgò una legge a difesa degli scrittori italiani imponendo che, in qualunque collana ogni cinque autori almeno uno fosse italiano.
Arnoldo Mondatori, dopo aver intuito quello che sarebbe stato lo sviluppo del Fascismo in Italia (stampò i manifesti della marcia su Roma nel 1922 e ne ricavò ottime occasioni di lavoro come la stampa del testo unico per le scuole elementari nel 1930) immediatamente capì che il genere poliziesco avrebbe avuto un grande futuro ed allora incaricò Varaldo di scrivergli il primo romanzo che, dal colore della copertina, sarebbe stato il primo “giallo” italiano.
Varaldo esordisce con il commissario romano Bonichi, meglio noto come sor Ascanio. La lettura del romanzo “Il sette bello” è consigliabile per capire quale fosse la realtà sociale dell'epoca. Bonichi, Commissario e poi Ispettore del Ministero dell’Interno, è un poliziotto semplice, ma concreto alle prese con casi misteriosi quasi sempre alle soglie del paranormale.
La trama segue le vicende sempre più misteriose ed avventurose di quattro amici (un eterno studente, un maggiore dei bersaglieri, un pittore e una studentessa) che un giorno, per amore di avventura, quasi per gioco e per sfida all’ignoto e al destino, rispondono ad un annuncio su un giornale e, credendo semplicemente di giocare con l'ignoto, si trovano in una situazione senza via d'uscita, in qualche modo coinvolti in un omicidio.
Improvvisamente tutti e quattro trovandosi coinvolti in una storia che, ad ogni pagina, si arricchisce di inattesi colpi di scena.
L'originalità del racconto sta nel fatto che ogni singolo protagonista di questa storia espone la propria versione dei fatti, perciò il lettore si troverà a leggere i quattro racconti degli amici, più quello del commissario di polizia che conduce le indagini sul delitto.
Il primo racconto è quello di Giovanni Révere, rampollo della piccola borghesia che vive con una rendita che gli è stata lasciata dal padre, facendo lo studente a vita. Si è già preso due lauree (lettere e giurisprudenza) e ora studia medicina. Egli ci introduce nel mondo della vecchia Roma, dei locali tipici e delle lunghe passeggiate nei quartieri antichi, presentandoci i suoi amici. La prima, cioè l'unica donna del gruppo, è Maud Terzi. Mangiano insieme, vanno al cinema insieme, passano intere giornate insieme, ma si danno del voi. Suo è il secondo racconto. Il terzo è quello del commissario Ascanio Bonichi. Grossi baffi neri, mento spesso non rasato, d'aspetto bonario e un po' trasandato, celibe e nemico dell'indagine scientifica “Non credo che nel caso, o in Dio, se le piace di più”, Bonichi è uno dei personaggi più riusciti di Varaldo. E, da quell'italiano che è, afferma che “la polizia deve, 100 volte su 100 in casi come questi, contare sulla fortuna”. Come dire che, se non si è fortunati, pazienza: vuol dire che il caso resterà irrisolto.
Il quarto racconto è invece quello di Biondo Biondi (“Naturalmente – scrive Varaldo – con un simil nome è toscano e nero come un creolo”), maggiore dei bersaglieri e soldato fino al midollo.
Il quinto racconto, infine, è quello del pittore Giacomo Serra, l'unico artista del gruppo. Confusionario, istintivo, Serra si completa nel suo rapporto con gli altri amici, anche se non manca di far sentire la sua presenza.
Ambientato nel 1930 a Roma, con larghe escursioni nella periferia e nelle campagne attorno alla Capitale, Seguire le vicissitudini di queste persone significa calarsi nell'atmosfera a cavallo degli Anni Venti-Trenta in una Roma che vive spensieratamente lo sviluppo della prima stagione del Fascismo, senza rendersi conto della tempesta che si sta preparando. E si prova l'esperienza di sedersi in una “piccola pulita famigliare trattoria dietro Piazza Cola di Rienzo” e osservare la vita tranquilla e un po' borghese di questi quattro amici cui si aggiunge, dopo il delittaccio, anche quella sagoma del commissario Bonichi.
I rapporti tra i cinque sono sempre corretti, nessuno si sognerebbe mai di fare una qualunque carognata all'altro. Ed è su questi valori di amicizia e solidarietà, educazione e rispetto, forse appartenenti ad un'Italia che non c'è più, che l'avventura infine inciderà portando scompiglio nelle loro esistenze.
A dipanare la matassa è il commissario Bonichi, uomo bonario e di buon senso, poco raffinato ed essenzialmente solitario, non dotato di capacità intellettuali straordinarie, ma piuttosto consapevole del ruolo decisivo del caso per la risoluzione dei reati di volta in volta oggetto delle sue indagini.
Strizzando l'occhio più al Maigret di Simenon che allo Sherlock Holmes di Conan Doyle, il primo detective seriale della letteratura italiana è un personaggio felicemente tratteggiato e credibile, lontano dunque dal prevedibile modello del poliziotto geniale e rappresentativo, lontano dallo stereotipo del poliziotto atletico, fascinoso ed infallibile, ma piuttosto vero e semplice, un prodotto del ceto “medio”, che vuole rappresentare e che si aggancia non solo al suo livello di vita, ma anche alle sue aspirazioni, di una rivoluzionaria normalità, che vuole raggiungere sulla sponda di una tacita accettazione dei compromessi della vita.
La realtà espressa del commissario Bonichi è una realtà umana semplice e sorretta da alti ideali, poco incline a piegarsi al potere come pure ad accettare compromessi per il miraggio di una più facile carriera.
In un suo articolo, intitolato “Dramma e romanzo poliziesco”, Alessandro Varaldo scrive una specie di manifesto del giallo all'italiana e lo conclude con questa domanda: «come gli autori inglesi ci hanno abituati a considerare di quasi pubblico dominio Piccadilly e lo Strand, come gli autori americani ci abituano alla Quinta Strada e ai quartieri di Brooklin, come noi conosciamo palmo a palmo per virtù di scrittori stranieri le loro nazioni, non vi sembrerebbe ottima cosa che anche i nostri scrittori, specialmente quelli che trattano un certo genere alla moda, parlassero un po' dell'Italia? ».
In questo modo Varaldo indicava dunque una via italiana al poliziesco. Varaldo creò la figura del commissario Ascanio Bonichi, che fuma sigari, porta i baffi, che tutti chiamano “sor Ascanio” e che agisce in una Roma sonnolenta e provinciale malgrado le sollecitazioni fasciste, che per certi aspetti sembra già vagamente presagire “Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana”
Per la raccolta mondadoriana Varaldo scrisse “Le scarpette rosse” del 1931, “La scomparsa di Rigel” del 1933, “La gatta persiana” del 1933, “Circolo chiuso” e “Casco d’oro”, entrambi del 1936.
Dai suoi scritti traspare vivissimo un affettuoso attaccamento alla sua terra di origine ed oltre ai romanzi come “Mio zio il diavolo” del 1929, “I due nemici” del 1931, “La stella di Venere” del 1944, “La Marsigliese” ed “I signori di Nervia”, interamente ambientati a Ventimiglia, non c’è un volume, che non contenga qualche nostalgico riferimento a Ventimiglia.
La caratteristica principale della sua narrativa è la ricchezza di situazioni e di personaggi che animano le sue pagine, scritte seguendo l’imperativo categorico del “non annoiare” il lettore, al quale di volta in volta sono proposte vicende sentimentali, patriottiche, avventurose sempre ben collocate entro quadri storici e geografici precisi e minutamente ricostruiti.
Memore anche del dialetto, che aveva appreso dalla madre e dai suoi amici pescatori sulla spiaggia delle Asse, presso la sua casa, volle collaborare alla “Barma Grande”, con ricordi della sua gioventù: “E Asse”, “U mei primu incontru cun Munegu” del 1932, “A mei grossa descüverta”, “U Nervia e u Röia”.
Un altro grande merito di Varaldo è stata, infine, la fondazione, nel 1920, della “Società Italiana Autori ed Editori”, che diresse con prestigio fino al 1928, quando, per disposizione governativa, fu sostituito da un gerarca del regime.
Nel 1943, assunse la direzione dell’Accademia di Arte Drammatica, succedendo a Silvio D’Amico. Scelse come sua dimora Milano, sempre ricordando la città nativa e la nostra Cumpagnia, come quando scrisse “Il vento di occidente, cronache marinare dell’estrema Liguria occidentale”.
Varaldo morì a Roma, ottantenne, il 18 febbraio 1953.
Alessandro Varaldo ed “Il sette bello”
di Tony Barbato, Ida de Rosa, Anthony Gallo, Peppe Iovine, Carmine Sicignano, Antonio Sorrentino Alessandro Varaldo ed “Il sette bello”
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